A giudicare di quanto si sta vedendo da qualche anno, la “famiglia” è diventata una parola potenzialmente conflittuale, fino a usarla come una bandiera ideologica. Il termine del contendere è la descrizione corrente secondo cui, per potersi dire “famiglia”, ci vogliono un uomo e una donna, uniti da un vincolo indissolubile, per i cattolici consacrato da un sacramento, e uno o più bambini nati da loro. Niente da dire su questo.
Matrimonio e famiglia
Ma, con tutto rispetto, vorrei solo osservare che, se rimaniamo incollati a questa definizione, temo che non poche persone tra i credenti si sentano automaticamente estranee alla celebrazione odierna. Per non dire di un rischio ancora più grave, per cui, oltre ad una certa quota di estranei per definizione, se ne aggiunga una quota ancora maggiore di “coppie” che, non rispondendo alla descrizione sopra indicata, possono percepirsi anche come escluse dalla comunità Chiesa.
Mi basta accennare alle polemiche dolorose sorte attorno all’Amoris laetitia circa il modo di venire incontro ai divorziati, alle difficoltà che impediscono di immaginare una pastorale di accompagnamento nel cammino di fede per le persone omosessuali, e simili.
Il problema non è aereo. Ho celebrato per anni in una casa di riposo che ospitava donne dai 75 anni in su, fatta di zitelle e, se andava bene, da nonne. Era difficile trovare un tema per l’omelia che andasse bene per loro. L’unica maniera per cavarsela era di “allargare” il concetto di famiglia a un gruppo di persone che, per una qualche ragione, vivevano “insieme”, per le quali – come dice la colletta – si prega perché possano imitare la Santa Famiglia «nelle virtù domestiche e nei vincoli della carità».
Questa porta a pensare ad una spiritualità di famiglia che si adatta a molte altre situazioni aldilà della famiglia tecnicamente intesa. Il che va bene anzitutto per la Chiesa, pensata come una grande famiglia, innestando tale spiritualità in tutti i rami dell’attività pastorale, che non possono ridursi a organismi puramente organizzativi, di cui tutti possono aver sperimentato una qualche volta le possibili derive infelici!
A proposito del significato di famiglia, proprio per evitare i disastrosi fondamentalismi che causano guai e confusioni, il primo dei quali dall’identificare questo termine con quello di matrimonio, mi permetto un breve divagazione. Se uno cercasse su un dizionario latino la definizione di familia potrebbe avere non poche sorprese. Elenco i significati in ordine decrescente:
– senso proprio: a. la servitù a un padrone di casa; b. truppa, compagnia, masnada; c. vassalli, dipendenti;
– senso traslato: a. l’intera casata; b. famiglia come i discendenti di un solo capostipite; c. setta filosofica derivante da un fondatore.
La famiglia mononucleare – come descritta sopra – non si trova neppure nell’elenco. Si sa che il senso delle parole muta nella storia, il significato può dilatarsi o restringersi, peggiorare o migliorare. Matrimonio e famiglia non coincidono automaticamente.
Scrive il moralista Giannino Piana: «Mentre il matrimonio è essenzialmente un’istituzione contrassegnata fin dall’origine da una specifica formalità giuridica, la famiglia è una realtà sociologica, un fenomeno che ha cioè la sua insorgenza dal basso, e che, proprio per questo, è soggetto ad una grande variazione di forme storiche concrete». Per essere precisi, «il concetto di famiglia deve pertanto essere applicato a tutte le forme di convivenza stabile che si realizzano tra due o più persone le quali per ragioni diverse decidono di vivere insieme» (Rocca, n. 9, 1° maggio 2012).
E, sempre per rimanere nella storia – cosa che non fa mai male –, mi piace ricordare che nel medioevo e oltre, in caso di censimenti, i nuclei familiari erano censiti come fuochi, il che evoca l’immagine del focolare, il camino attorno al quale, ancora nella mia infanzia, ci si radunava per riscaldarsi nelle fredde sere d’inverno. Il senso è rimasto nel francese foyer, nello spagnolo hogar, nel portoghese lar. Difficile oggi fare questa esperienza, ma non sarebbe male conservare l’immagine.
Una festa recente
È ora di venire alla festa, la cui storia è recente, e piuttosto avventurosa quanto a collocazione. Pare che la sua origine sia da collocare nel Seicento, e sia nata da bisogni di carattere devozionale, quasi a venerare un’icona che vedesse insieme Gesù, Giuseppe e Maria. Qualcuno forse ricorderà ancora una preghiera per la buona morte che si recitava la sera: «Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono il cuore e l’anima mia; Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi nell’ultima mia agonia; Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia».
Nel 1893, Leone XIII concesse la celebrazione di una festa dedicata alla Sacra Famiglia e Benedetto XV, nel 1921, la estese a tutta la Chiesa di rito latino per la domenica nell’ottava dell’Epifania. Paolo VI la fissò alla data attuale nel 1969 in seguito alla riforma liturgica del Vaticano II.
Certo, non era facile sistemare una festa non legata ad un particolare evento, ma che abbraccia i trent’anni della “vita nascosta”, legata al villaggio di Nazaret. È il caso però di ricordare che Nazaret diventò un’icona decisiva per il beato Carlo de Foucauld, da quando intuì che lì, fin dal grembo di Maria, Gesù evangelizzò non predicando con le parole, ma con il suo lavoro umile e nascosto, mostrando quasi un irradiare silente del mistero dell’incarnazione, e questo per ben trent’anni!
Spunti dalle letture
Mi pare che le tre letture previste per questa festa possano offrire tre quadretti che illustrano in maniera splendida alcune figure utili a comporre un quadro chiaro di ciò che costituisce una spiritualità di famiglia.
La prima (Sir 3,3-7.14-17a) indica il dovere di onorare i genitori cui corrisponde tutta una serie di benedizioni del Signore. Mi viene subito da pensare che si fa un gran parlare di “amore”, e quasi mai di “rispetto” delle persone, senza il quale il sentimento di amore è esposto a tutte le distorsioni e perversioni che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi.
Il guaio radicale nasce del senso di “possesso” che si crede di avere quando si dice di amare una persona. È un rischio che corrono tutti i tipi di relazione, ma nessuno è mai padrone di nessun altro, ed è il rispetto che ci protegge da questo errore.
La seconda virtù è il dovere di proteggere chi è debole e fragile, per cui, se l’indifferenza è già grave, il disprezzo è gravissimo: è l’esatto contrario del rispetto, e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno in questi tempi!
La seconda lettura (Col 3,12-21) è di una bellezza spettacolosa, che non avrebbe necessità di alcun commento. Basta gustarne le parole lentamente, una ad una, lasciandosi penetrare dal loro significato così denso, capace di dilatare il cuore, di dare aria alla relazione, e di sottrarla così al rischio di quelle meschinità, piccinerie, ripicche e cattiverie alle quali ogni rapporto è sempre esposto.
So che questa pagina viene scelta talvolta per la celebrazione del matrimonio: ottima idea, e magari sarebbe anche bello che gli sposi se la leggessero ogni tanto, insieme, per riscaldare la memoria e impedire che il loro amore, e l’entusiasmo che l’ha fatto partire, si raffreddi. È una pagina che canta al solo pronunciarla, un arcobaleno di colori che incanta gli occhi, una musica polifonica che scalda i cuori.
Ricordo un solo punto, che è cruciale: «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza». Questa parola è l’inquilino stabile che dev’essere presente in ogni casa, in ogni famiglia che desidera seguire il vangelo di Gesù. Si richiede che questa parola abiti “tra noi”, e non solo “in noi” presi individualmente, perché la parola di Gesù deve circolare tra di noi per un aiuto reciproco.
Il vangelo (Mt 2,13-15.19-23) per un certo aspetto arriva come una sorpresa. È vero, parla finalmente dei tre protagonisti della Santa Famiglia, concentrando però l’attenzione su Giuseppe, che potrebbe sembrare il meno importante, e sul bambino e la madre che era stato incaricato di custodire e proteggere.
Rispetto alla cascata di suggerimenti che arriva dalla seconda lettura, troviamo enfatizzata in lui una sola virtù: l’obbedienza alla parola di Dio. Tre volte, in sogno (che è il canale normalmente usato da Dio quando comunica con l’uomo), gli viene dato un ordine, ed egli lo esegue alla lettera. È solo la conseguenza di quanto si è appena detto: è ovvio infatti che la Parola era di casa nel suo cuore.
Riprendendo quanto si è cercato di illustrare più sopra, potremmo dire che prima e più di ogni altra cosa la famiglia, nel senso più ampio del termine, è una “rete di relazioni”, indispensabile per crescere e dare senso al vivere. E vorrei concludere con alcuni versi su un tema – la dolcezza –, che vedrei volentieri come virtù che dà sapore ad ogni rapporto d’affetto e di amicizia, qualunque sia la famiglia in cui ci si viene a trovare.
«Dolcezza, / dico: dolcezza. // Dico: dolcezza delle parole / quando rientri la sera dal lavoro stressante / e ti accolgono parole / che ti regalano un po’ di tempo. // Perché nel mondo si uccide / e ogni massacro ci invecchia. // Dico: dolcezza, / pensando anche alle ore d’amicizia, / a quei momenti che dicono / il tempo della dolcezza che viene, per davvero, // quell’aria tutta nuova / che per durare si installerà» (E. Guillevic).
La dolcezza è, lo si ricordi, una “virtù di relazione”, il che implica insieme la capacità di uscire da sé e di lasciar entrare gli altri. La dolcezza, alla fine, è una porta.