“Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti allargherai a destra e a sinistra” (Is 54,2-3). È l’invito che il profeta rivolge a Gerusalemme racchiusa dentro una stretta cerchia di mura. Il tempo del gretto nazionalismo è finito; nuovi, sconfinati orizzonti si spalancano: la città deve prepararsi ad accogliere tutti i popoli che accorreranno a lei perché tutti, non solo Israele, sono eredi delle benedizioni promesse ad Abramo.
L’immagine usata dal profeta è deliziosa, ci fa contemplare, quasi visivamente, l’umanità intera in cammino verso il monte sul quale è situata Gerusalemme. Lì il Signore ha preparato “il banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6).
Con un’altra immagine della città, l’autore dell’Apocalisse descrive, nelle ultime pagine del suo libro, la lieta conclusione della travagliata storia dell’umanità. Gerusalemme è “cinta da un grande e alto muro, con dodici porte. Ad oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte” (Ap 21,12-13). L’immagine è diversa, ma il messaggio è il medesimo: da qualunque parte arrivi, ogni uomo si troverà di fronte le porte della città spalancate pronte per accoglierlo.
Ma il cammino verso il banchetto del regno di Dio non è una comoda passeggiata. La via che vi conduce è stretta e la porta – dice Gesù – è angusta e difficile da trovare. Questa affermazione non contraddice il messaggio ottimistico e gioioso dei profeti che annunciano la salvezza universale. Mette in guardia dall’illusione di essere sulla strada giusta, quando ci si sta invece perdendo lungo sentieri che allontanano dalla meta.
Giungeranno tutti, sì, ma… non conviene arrivare alla fine del banchetto.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Ti loderanno, Signore, tutti i popoli della terra”.
Prima Lettura (Is 66,18-21)
Così dice il Signore: 18“Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. 19 Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle genti di Tarsis, Put, Lud, Mesech, Ros, Tubal e di Grecia, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni. 20 Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme, dice il Signore, come i figli di Israele portano l’offerta su vasi puri nel tempio del Signore. 21 Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti”.
Noi stiamo bene con chi la pensa come noi, con chi approva le nostre abitudini, si adegua ai nostri usi, osserva le nostre leggi.
Gli stranieri ci fanno paura perché escono dai nostri schemi. Nella tribù africana in mezzo alla quale sono vissuto, per esempio, ho udito un’espressione curiosa. Quando vedono insieme un nero ed un bianco dicono: “mutxú ni mukunya”, cioè ecco là un uomo e un bianco. Uno è sicuramente un uomo perché conosce e rispetta le tradizioni, l’altro… è un bianco.
Anche gli israeliti erano convinti di essere gli unici “uomini”. Si consideravano giusti, fedeli a Dio e avevano stabilito leggi severe per impedire i rapporti, le amicizie, i matrimoni con stranieri che non conoscevano il Signore e servivano gli idoli (Dt 7,1-8).
Gli avvenimenti della storia si sono incaricati di sgretolare progressivamente questi preconcetti. Durante l’esilio a Babilonia gli israeliti hanno cominciato a riflettere e sono stati costretti ad ammettere che, se erano stati così duramente provati da Dio, voleva dire che non erano poi tanto giusti.
In esilio hanno conosciuto personalmente i tanto vituperati stranieri e, quale non è stata la sorpresa: erano molto diversi da quanto immaginavano! Gente buona, simpatica, generosa, ospitale. Conducevano una vita familiare non meno esemplare della loro e avevano una morale molto elevata. Insomma… c’erano fra i pagani persone migliori degli stessi israeliti.
È in questo periodo che fa capolino l’idea che il Signore non sia solo il Dio d’Israele, ma di tutti i popoli e che egli ami tutti, senza distinzioni di razza o tribù. Si comincia a parlare di un regno futuro di felicità e di pace e lo si paragona ad un grande banchetto in cui vengono serviti vini eccellenti e raffinati, cibi succulenti e carni tenere. Questa festa non sarà riservata agli israeliti, la sala verrà aperta a tutti i popoli (Is 25,6).
La lettura di oggi riporta il messaggio di un profeta vissuto in questo tempo di rinnovamento di idee. Inizia con le parole di Dio: io farò cadere tutte le barriere che dividono i popoli, verrò a radunare le nazioni di tutte le lingue (v.18). Poi annuncia qualcosa di inaudito: gli stranieri saranno tanto devoti al mio nome che io li sceglierò, a preferenza degli stessi israeliti, e li invierò come missionari, per portare la mia salvezza alle genti di tutto il mondo (v.19).
Infine – ecco la promessa più scandalosa! – anche fra i pagani il Signore si sceglierà sacerdoti e leviti (v.21).
Seconda Lettura (Eb 12,5-7.11-13)
Fratelli, 5 avete dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli:
Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore
e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui;
6 perché il Signore corregge colui che egli ama
e sferza chiunque riconosce come figlio.
7 È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?
11 Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.
12 Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite 13 e raddrizzate le vie storte per i vostri passi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
Abbiamo notato nelle passate domeniche che i destinatari di questa lettera erano cristiani afflitti che non riuscivano a trovare una spiegazione e a dare un senso alle loro tribolazioni. Per offrire loro un po’ di luce l’autore si rifà a un esempio di pedagogia spicciola.
Se un insegnante ha fra gli alunni anche il proprio figlio, non gli accorda alcun privilegio, pretende che si impegni come tutti gli altri. Se nota che qualcuno è pigro e indolente lo richiama. Ma se è suo figlio a comportarsi in modo scorretto, il rimprovero, la correzione e anche il castigo sono più severi perché lo ama di più. Ecco la ragione per cui Dio sottopone i credenti a tante prove: per renderli migliori (vv.5-7). Le prove sono il segno che egli non li considera estranei, ma figli. Certo, sul momento, non sono contenti della durezza del padre, ma, una volta cresciuti, lo ringrazieranno per l’educazione ricevuta (vv.11-12).
Vangelo (Lc 13,22-30)
In quel tempo, 22 Gesù passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme. 23 Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”.
Rispose: 24 “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. 25 Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. 26 Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. 27 Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! 28 Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori.
29 Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio.
30 Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”.
Nel Vangelo di Matteo troviamo spesso sulla bocca di Gesù parole dure nei confronti dei malvagi: parla di fuoco della Geenna, minaccia di separare le pecore dai capri e, per ben sei volte, annuncia ai peccatori che li attendono pianto e stridore di denti.
Luca presenta un Gesù più comprensivo, indulgente e sempre pronto a schierarsi dalla parte dei poveri, dei disperati, di chi ha avuto una vita difficile. Lo presenta sempre così… tranne che nel brano di oggi dove, stranamente, compaiono minacce e condanne. C’è una porta stretta attraverso la quale è quasi impossibile passare: viene addirittura chiusa e chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. I ritardatari sono respinti in malo modo: è troppo tardi! – grida il padrone – Via di qui! Lontano da me! Non vi conosco! Ci sarà pianto e stridore di denti!.
Chi si è lasciato coinvolgere e affascinare dai temi cari a Luca – la gioia, la festa, l’ottimismo, la clemenza di Dio – rimane allibito. Mai si sarebbe aspettato da Gesù un comportamento simile. Colui che amava i pubblicani e i peccatori e che accettava volentieri i loro inviti a cena, adesso sbatte la porta in faccia ai suoi amici. Il Gesù inflessibile di questa parabola non sembra più lo stesso che suggeriva di invitare al banchetto “storpi, zoppi e ciechi” (Lc 14,13) dai quali non possiamo attenderci né la puntualità né che trovino subito la porta d’entrata. Non assomiglia al medico venuto per curare i malati, né al pastore che si intenerisce di fronte alla pecorella smarrita, né all’amico che si alza di notte a dare il pane. Ha sentimenti diversi da quelli del padre del figlio prodigo. È strano anche il suo consiglio “sforzatevi di entrare per la porta stretta!”: sembra un invito a preoccuparsi solo per la propria salvezza.
Chi, sgomitando riesce ad accaparrarsi un posto nella sala del banchetto, pare si disinteressi di chi è rimasto fuori.
Non è difficile intuire cosa ha spinto Luca ad inserire nel Vangelo queste parole dure. Nelle sue comunità si sono infiltrati il lassismo, la stanchezza, la presunzione di essere a posto con Dio, la supponenza, la convinzione che bastino i buoni propositi e che la salvezza possa essere ottenuta a buon mercato.
Luca si rende conto che su molti cristiani incombe il rischio di rimanere esclusi dal Regno e si sente in dovere di smentire il falso ottimismo che si è diffuso. Impiega immagini legate alla sua cultura, ambiente ed epoca. Dobbiamo tenere presente questo fatto altrimenti possiamo travisarne il senso e considerarle informazioni su ciò che accadrà alla fine del mondo. I particolari sono drammatici, il linguaggio è impressionante, ma così si esprimevano i predicatori di quel tempo quando volevano scuotere gli ascoltatori.
Vediamo di cogliere il reale significato di quanto viene detto.
Un giorno un uomo si lascia sfuggire una domanda: “Sono pochi quelli che si salvano?” (v.23). Alcuni rabbini insegnavano che tutto il popolo d’Israele avrebbe preso parte al banchetto del regno. Ma altri sostenevano: no, sono più numerosi quelli che si perdono rispetto a quelli che si salvano, come un fiume è maggiore di una goccia d’acqua. L’opinione più diffusa era: “Questo secolo l’Altissimo l’ha creato per una moltitudine, ma il futuro per un piccolo numero. Molti sono creati, pochi però saranno salvati”.
Gesù non prende posizione sull’argomento: la domanda è posta male e in questo caso la risposta, qualunque essa sia, è scorretta e fuorviante. Se risponde sì, crea false sicurezze, se risponde no provoca scoraggiamento. Allora si rifiuta di fare il visionario apocalittico; non è venuto per svelare numeri e date segrete, come farneticano alcuni sognatori del giorno d’oggi. Preferisce cambiare discorso. Non entra in speculazioni sulla fine del mondo e sulla salvezza eterna, gli preme chiarire come si entra nel regno di Dio, cioè, come si diviene e come ci si mantiene oggi suoi discepoli.
La prima condizione è: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti cercheranno di entrarvi, ma non vi riusciranno” (v.24).
Stupisce il fatto che qualcuno non riesca ad entrare. Chiaramente non gli manca la buona volontà, ma sbaglia il modo. Il riferimento è al fariseo che conduce una vita impeccabile ed esemplare, digiuna due volte per settimana, non è ladro né adultero, eppure non entra.
Per passare attraverso una porta stretta – lo sappiamo – c’è un solo modo: contorcersi, contrarsi, insomma… farsi piccoli. Chi è grande e grosso non passa; può tentare in tutti i modi, per dritto o per traverso, non ce la farà! Ecco cosa preme far capire a Gesù: non si può essere discepoli se non si rinuncia ad essere grandi, se non ci si fa piccoli e servi di tutti.
Eccolo l’errore del fariseo: la presunzione, la fiducia riposta nella propria santità, nelle proprie opere buone. Egli non risparmia energie, fa di tutto per piacere a Dio – lo riconosce anche Paolo (Rm 10,3) – ma è troppo grande.
Piccolo è chi sa di non meritare nulla, chi, guardando a se stesso, si sente fragile e perduto, chi non può che appellarsi alla misericordia di Dio, solo costui riesce a passare.
Chi non assume la disposizione interiore del piccolo, qualunque pratica religiosa esegua – preghiere, catechesi, prediche, devozioni, persino miracoli (Mt 7,22) – non entra nel regno di Dio.
Gesù continua il suo discorso, sviluppa il suo invito a lottare per aver parte al banchetto mediante una parabola che introduce un’altra esigenza: è necessario affrettarsi, non c’è tempo da perdere (vv.25-30).
Un signore offre gratuitamente un banchetto al quale chiunque può prendere parte, basta – come abbiamo visto – essere sufficientemente piccoli e non presentarsi con pretese. Ma attenzione: ad un certo punto la porta viene sbarrata.
Il padrone è chiaramente Dio che, come ha promesso per bocca dei profeti (Is 25,6-8; 55,1-2; 65,13-14), organizza il banchetto del regno.
La scena ora si sdoppia. Abbiamo un primo gruppo di persone che, rimaste fuori, pretendono di entrare gridando le proprie ragioni. Dicono: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (v.26). Ma il padrone non apre e li caccia chiamandoli: “Operatori d’iniquità” (v.27).
Chi sono costoro? Vediamo di identificarli: hanno conosciuto bene Gesù, lo hanno ascoltato, con lui hanno mangiato il pane. Non sono dunque dei pagani, sono membri della comunità cristiana. Sono coloro che hanno il loro nome scritto nei registri dei battesimi, che hanno letto il Vangelo e hanno partecipato al banchetto eucaristico. Ritengono di avere le carte in regola per entrare alla festa, vengono invece allontanati perché la conoscenza della proposta evangelica non basta, è necessario aderirvi. Chi non fa per tempo questa scelta rimane un operatore d’iniquità.
La severa condanna è rivolta ai cristiani tiepidi che si accontentano di un’appartenenza esteriore alla comunità, celebrano liturgie vuote che si riducono a riti esteriori che non trasformano la vita.
Questa condanna non va intesa come un rifiuto definitivo, non è un’esclusione eterna dalla salvezza. Una simile interpretazione è superficiale e pericolosa perché contraddice il messaggio evangelico.
Le parole di Gesù si riferiscono al presente, all’appartenenza qui e oggi al regno di Dio. Sono un pressante invito a riconsiderare, con urgenza, la propria vita spirituale perché molti coltivano l’illusione di essere discepoli, ma non lo sono affatto. Costoro, se non se ne rendono subito conto, finiranno in pianto (quando si accorgeranno di aver fallito) e stridor di denti (segno della rabbia di chi capisce, troppo tardi, di aver sbagliato).
Veniamo ora al secondo gruppo, quello composto da chi è dentro. Seduti a mensa ci sono i patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe, poi tutti i profeti, infine una moltitudine immensa, venuta da Oriente e da Occidente, da settentrione e da mezzogiorno. Non si dice che tutti costoro hanno conosciuto Gesù e hanno camminato al suo fianco, forse molti non sanno nemmeno che è esistito. Ciò che è sicuro è che, se sono riusciti ad entrare, significa che sono passati per la porta stretta, gli altri vengono lasciati fuori (vv.28-30).
Torniamo indietro di qualche pagina. Al capitolo 9 del Vangelo di Luca si dice che un giorno, fra i discepoli, sorse una discussione per sapere chi fosse il più grande. Gesù allora, preso un bambino, se lo mise vicino e disse: “Chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande” (Lc 9,46-48). Non può aver parte al banchetto del regno chi non si sforza di farsi piccolo.
Gesù non ha voluto spaventare con la minaccia dell’inferno. La sua condanna è rivolta contro la vita tiepida, incoerente, ipocrita che oggi conducono tanti che si reputano suoi discepoli. Eppure, anche di fronte alle sue parole inquietanti, ci sono cristiani che non si lasciano sfiorare dal dubbio che un giorno egli possa dire loro: “Non vi conosco!”.
Luca – forse un po’ a malincuore, perché non è nel suo stile – ha introdotto questo testo nel suo Vangelo, ma, a differenza di Matteo che conclude in modo cupo e minaccioso: “i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 8,12), egli chiude la parabola con la scena della festa e del banchetto e con il detto significativo: “Ecco ci sono ultimi che saranno primi e ci sono primi che saranno ultimi” (v.30).
Alla fine quindi tutti verranno accolti, anche se – purtroppo per loro – gli ultimi avranno perso l’opportunità di godere dall’inizio delle gioie del banchetto del regno di Dio.
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