Il primo scisma nella chiesa è avvenuto sotto gli occhi di Gesù: due discepoli contro dieci e dieci contro due (Mc 10,35-41). Il motivo del contendere: non una discussione teologica o il rifiuto di qualche dogma, ma la smania per il potere, la competizione per i primi posti. Fu l’inizio di una dolorosa storia di divisioni e conflitti ecclesiali, sempre determinati da rivalità meschine.
Quando qualcuno vuole prevalere sugli altri il gruppo si sgretola. Ma nemmeno il sistema democratico elimina i litigi, perché non li cura alla radice, è solo un gioco di equilibri, un tentativo di conciliare opposti egoismi.
Gesù ha costituito i Dodici perché nel mondo fossero il segno di una società nuova in cui fosse abolita ogni pretesa di dominio e si coltivasse un’unica ambizione: il servizio del più povero. Impresa ardua. La mentalità di questo mondo si è infiltrata, fin dall’inizio, anche nella chiesa e lungo i secoli sono riemersi i criteri di questo mondo: il dominio, il possesso, l’asservimento dell’altro.
La tiara, il celebre copricapo del papa, era il simbolo dell’autorità e della giurisdizione universale del vescovo di Roma. Resta incerta la sua origine, ma nel secolo XIII era costituita da una sola corona, nel secolo seguente da due e, pochi decenni dopo, da tre corone sovrapposte, simboli dei tre regni su cui il papa estendeva il suo potere: il cielo, la terra e sottoterra. Eletto papa, Paolo VI compì un gesto storico: se la pose sul capo e subito se la tolse, questa volta per sempre. Il triregno era un simbolo troppo equivoco, troppo compromesso, incompatibile con l’unico diadema glorioso che aveva ornato il capo del Maestro, la corona di spine.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Grande è colui che serve”
Prima Lettura (Is 53,2a.3a.10-11)
Il Servo del Signore 2 è cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
3 Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire.
10 Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
11 Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Gli uomini vogliono vincere, non perdere; cercano di dominare, non di servire. Dio la pensa in modo opposto e, per educare il suo popolo ad accettare la logica del dono della propria vita, fin dall’Antico Testamento ha indicato un modello: il suo Servo fedele.
Ci siamo già imbattuti più volte in questo personaggio misterioso, oggi ci viene ripresentato per prepararci a comprendere e ad accogliere il messaggio impegnativo del vangelo.
Nella prima parte del brano (vv. 2-3) è descritto l’aspetto umile di questo Servo: spunta come un piccolo arbusto del deserto, cresce in una terra priva d’acqua, non ha nessuna delle caratteristiche che attirano l’attenzione degli uomini: la bellezza, la forza, la ricchezza; al contrario, è debole, disprezzato, sconfitto.
La seconda parte del brano (vv. 10-11) evidenzia il giudizio opposto di Dio. Ciò che gli uomini considerano un fallimento, per il Signore è un successo.
È attraverso il sacrificio, la sofferenza, il dono di sé che Dio attua i suoi progetti di salvezza. Proprio perché vittima dell’odio, dell’ingiustizia, della violenza, il Servo libera i suoi stessi persecutori dalle loro iniquità.
Costituisce l’immagine perfetta di Gesù che ha salvato gli uomini non dominandoli, ma umiliandosi, inginocchiandosi davanti a loro per servirli, donando la propria vita.
Seconda Lettura (Eb 4,14-16)
14 Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede.
15 Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. 16 Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.
I vangeli sinottici riferiscono che Gesù, all’inizio della vita pubblica, è stato sottoposto alle tentazioni del diavolo. In seguito gli evangelisti non riprendono più l’argomento. Solo Luca lascia intendere che queste tentazioni sono continuate anche dopo; riferisce, infatti, che “il diavolo si allontanò da lui per tornare al tempo fissato” (Lc 4,13).
Il brano della Lettera agli ebrei che ci viene proposto oggi affronta con chiarezza questo tema.
Cristo è in grado di capire le nostre debolezze perché egli stesso è stato tentato in tutto come noi. L’unica differenza è che, mentre noi spesso siamo infedeli a Dio, egli non cedette mai al peccato.
Questa affermazione è motivo di grande consolazione. Ci mostra un Gesù molto vicino, sensibile ai nostri problemi. Egli non ha fatto finta di essere uomo, lo è stato realmente; è passato attraverso tutte le difficoltà che noi dobbiamo affrontare e sa quanto è difficile e costi mantenersi fedeli a Dio, specialmente quando si è provati dal dolore.
Un po’ più avanti nella stessa lettera, l’autore, tornando sull’argomento, aggiunge: benché egli fosse figlio di Dio, imparò da quello che soffrì quanto sia duro per l’uomo obbedire e accettare la volontà di Dio (Eb 5,8).
Vangelo (Mc 10,35-45)
35 Si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. 36 Egli disse loro: “Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: 37 “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. 38 Gesù disse loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. 39 E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. 40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
41 All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. 42 Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. 43 Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, 44 e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. 45 Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Gesù è in cammino verso Gerusalemme; precede i suoi discepoli con passo spedito ed essi lo seguono timorosi perché, per ben due volte, ha già spiegato loro quale sia la meta del viaggio.
Nei versetti immediatamente precedenti al brano di oggi, il Maestro, per la terza volta, annuncia il suo destino: verrà insultato, condannato a morte, flagellato e ucciso (vv. 32-34).
Come reazione ci aspetteremmo, da parte dei discepoli, un tentativo di dissuaderlo a proseguire il viaggio, il suggerimento di fermarsi un momento in attesa di tempi migliori. Nulla di tutto questo.
Eppure è impossibile che, dopo avere udito parole tanto chiare sul destino di Gesù, essi continuino a illudersi che egli salga a Gerusalemme per dare inizio al tempo messianico, inteso come regno di questo mondo.
Sanno benissimo che il loro maestro deve passare attraverso l’umiliazione e la morte, ma hanno anche già cominciato a pensare a ciò che accadrà dopo.
A questo punto la loro insensatezza raggiunge il culmine. I loro sogni di gloria non si arrestano nemmeno di fronte alla morte, riescono a superare anche questa prospettiva, data ormai per scontata. Questo rivela quanto siano radicate nell’uomo la smania del potere e l’aspirazione a occupare i posti d’onore.
Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo, si presentano a Gesù e, di fronte a tutti, senza un minimo di discrezione, gli dicono: “Noi vogliamo che tu faccia ciò che ti chiederemo!” (v. 35). Non domandano “per favore”, ma esigono, come chi reclama un diritto.
Ricordano che, dopo il primo annuncio della passione (Mc 8,31), Gesù ha parlato del giorno in cui “verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” (Mc 8,38). Hanno rimosso tutto il resto del discorso del Maestro, ma questo termine gloria, impiegato da Gesù una sola volta, non l’hanno più dimenticato e lo hanno collegato all’insegnamento dei rabbini che, riferendosi al messia, assicurano che egli “siederà sul trono della gloria” per giudicare e che al suo fianco si assideranno i giusti.
Giacomo e Giovanni pretendono esplicitamente di essere elevati fino al cielo, di poter comandare anche là. È la più sfacciata e la più cieca delle arroganze, mostra dove può condurre la volontà di emergere, insita nel cuore umano.
Quando Marco scrive questo brano, le cose sono radicalmente cambiate: Giacomo ha già dato la vita per Cristo, è morto martire a Gerusalemme (At 12,2) e Giovanni sta dedicandosi generosamente alla causa del vangelo. Alla fine hanno dunque dato prova di aver capito l’insegnamento del Maestro e la comunità primitiva nutre per loro un’immensa venerazione. Ecco la ragione per cui Luca evita di riferire l’episodio e Matteo lo modifica, garantendo che è stata la loro madre a farsi avanti, e pone sulle labbra della donna parole più educate (Mt 20,20-24). La vicenda però si è svolta come l’ha raccontata Marco.
I due fratelli non erano semplici discepoli, ma due figure eminenti della chiesa primitiva, eppure, di fronte alla proposta centrale del messaggio cristiano, per molto tempo hanno manifestato anch’essi un’incomprensione totale. Si sono adeguati, anche se con una certa difficoltà e dopo aver sollevato obiezioni, ad alcune delle esigenze morali del Maestro, quella del matrimonio indissolubile per esempio; hanno abbandonato tutto per seguirlo, ma quando egli ha parlato di rinuncia al dominio, al potere… non sono proprio riusciti a capirlo.
L’obiettivo di Marco è far riflettere i cristiani delle sue comunità. Persino dopo una persecuzione violenta come quella di Nerone riemergeva fra loro la competizione per i primi posti.
I cristiani più esemplari, più impegnati, più disponibili al servizio dei fratelli, coloro che collaborano attivamente a tutte le iniziative comunitarie sono spesso i più tentati di imporsi agli altri e la loro ingenua volontà di primeggiare finisce sempre per creare dissapori. Non ci si deve stupire che si manifestino queste debolezze; anche i più eminenti fra gli apostoli ne sono stati vittime.
Quando fra i suoi discepoli riemergevano le pretese di onori, di privilegi, di primi posti, Gesù non si mostrava tenero (Mc 8,33; 9,33-36) perché ogni ambizione, anche quella che può apparire innocente, mette in causa il punto centrale della sua proposta. Con Giacomo e Giovanni è stato duro e severo: “Voi non sapete quello che chiedete”. Poi, per aiutarli a comprendere, ha introdotto due immagini: quella del calice e quella del battesimo.
La prima si rifà a una pratica ben nota in Israele: il padre o colui che occupava il primo posto a mensa, come gesto di stima e di affetto, era solito offrire da bere dal suo stesso calice alla persona che prediligeva. Questa immagine è ripresa spesso nella Bibbia, qualche volta in senso positivo: “Il Signore è parte della mia eredità e mio calice” (Sl 16,5), il più delle volte in senso negativo: “Gerusalemme, hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira” (Is 51,17).
Il calice indica il destino, buono o cattivo, di una persona. Gesù sa che lo attende un calice di dolore, un calice dal quale vorrebbe essere risparmiato (Mc 14,36), ma che deve essere bevuto, per entrare nella gloria.
L’immagine del battesimo ha lo stesso significato: indica il passaggio attraverso le acque della morte. Le sofferenze e gli affanni ai quali è sottoposto il giusto sono spesso paragonati dalla Bibbia a un’immersione in acque profonde o allo scroscio di acque impetuose (Sl 69,2-3; 42,8).
Sono pronti, Giacomo e Giovanni, a bere il calice del Maestro? Sono disposti a seguirlo sulla via del dono della vita? Se la sentono di immergersi con lui nelle acque della sofferenza e della morte?
Essi hanno capito e, pur di raggiungere il loro obiettivo, sono decisi anche a patire.
Gesù rispetta la loro lentezza nel comprendere i disegni di Dio. Annuncia che, un giorno, anch’essi condivideranno il suo destino di sofferenza e di morte, berranno al suo stesso calice, daranno la vita.
Poi risponde alla loro richiesta: il posto nella gloria è un dono gratuito del Padre, non è qualcosa che può essere conquistato presentando dei meriti. Essi commettono l’errore di immaginare il regno di Dio sul modello dei regni di questo mondo dove c’è la scalata ai primi posti. Non riescono a capire che, davanti a Dio, non si possono avanzare pretese basate sulle buone opere: da lui si riceve tutto in dono (v. 40).
La reazione indignata degli altri dieci mostra come anch’essi siano ben lontani dall’aver assimilato il pensiero del Maestro ed ecco lo scisma all’interno del gruppo.
Nella comunità dei discepoli si riproduce ciò che era accaduto a Israele dopo la morte del re Salomone. La frenesia del potere di Roboamo aveva causato la divisione del regno: due tribù si erano schierate contro dieci e dieci contro due (1 Re 12). La storia del loro popolo avrebbe dovuto insegnare qualcosa ai discepoli.
Gesù prende di nuovo la parola per chiarire il tema delle gerarchie e dell’esercizio del potere all’interno della sua comunità (vv. 41-45). Lo fa dopo aver chiamato a sé i discepoli, espressione che in Marco serve a concentrare l’attenzione su un messaggio particolarmente significativo.
“Voi sapete – spiega Gesù – che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano e i loro grandi esercitano su di esse il potere” (v. 42).
Dall’espressione “coloro che sono ritenuti capi” traspare la sottile ironia del Maestro nei confronti dei detentori del potere, ironia che diviene più esplicita nel passo parallelo di Luca dove Gesù parla di coloro che “esercitano il completo dominio” sugli altri e, per giunta… “pretendono di essere chiamati benefattori” (Lc 22,25).
L’analisi del modo come questi capi adempiono il loro compito serve a Gesù per definire il modo in cui va svolto il ministero della presidenza all’interno della comunità cristiana.
I discepoli hanno sotto gli occhi vari modelli di autorità. Conoscono i capi politici e quelli religiosi, i rabbini, gli scribi, i sacerdoti del tempio. Tutti esercitano il potere allo stesso modo: danno ordini, pretendono privilegi, esigono di essere riveriti come prescrive il cerimoniale; davanti a loro bisogna inginocchiarsi, baciare la mano, dosare attentamente i titoli scegliendo quelli convenienti e adeguati alla posizione e al prestigio di ognuno.
È a queste autorità che i discepoli si devono ispirare?
Non devono sussistere dubbi o perplessità su questo punto. Ai suoi discepoli Gesù dà un ordine chiaro e tassativo: “Fra di voi non così!” (v. 43). Nessuno di questi tipi di autorità può essere preso a esempio.
Il modello da imitare – spiega – è lo schiavo, colui che occupa il livello più basso nella società, colui al quale tutti sono in diritto di dare ordini. Come il servo è sempre attento, giorno e notte, ai desideri del suo padrone, così chi svolge il ministero della presidenza nella comunità cristiana deve considerare tutti come suoi superiori, deve sentirsi l’ultimo e il servo di tutti.
I discepoli dei rabbini seguivano il maestro e apprendevano i suoi insegnamenti, obbedivano a ogni suo ordine, andavano a piedi mentre egli cavalcava un asino, si mantenevano a debita distanza e si prestavano a compiere tutti i servizi, anche i più umili, come pulirgli la casa e lavargli i piedi. Erano disposti ad abbassarsi pur di divenire un giorno essi stessi dei rabbini e aver diritto agli stessi privilegi e alla stessa posizione sociale elevata del maestro.
Gesù rifiuta questa logica, non vuole che qualcuno lo serva. Si colloca in mezzo ai suoi come colui che serve e ricorda a tutti che “il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” (v. 45). Non esige che gli lavino i piedi, è egli stesso che si china per lavarli ai discepoli.
Per completare il quadro possiamo ricordare altri atteggiamenti che sono stati duramente condannati da Gesù, atteggiamenti di fronte ai quali il cristiano deve provare un’istintiva repulsione: dare spettacolo, farsi notare (Mt 23,5), andare vestiti con divise, con abiti speciali, per distinguersi dagli altri (Mc 12,38); pretendere i posti d’onore nelle feste, i primi seggi nelle sinagoghe; esigere di essere chiamati “rabbi”, “maestro”, “padre” (Mt 23,6-10).
Il severo messaggio del Maestro è rivolto a coloro che nella chiesa sono investiti di autorità, ma non solo. Chiunque vuole seguire il Maestro deve considerarsi il “servo” di tutti.