Il libro del Deuteronomio
L’importante libro del Deuteronomio, che conclude il Pentateuco, non trova concordi gli autori nell’individuazione di una struttura letteraria. A titolo esemplificativo si vedano i commentari di S. Paganini (2011) e di G. Papola (anch’esso del 2011).
Dopo la messa in scena (Dt 1,1-5), si individua un primo discorso di Mosè (1,5–4,43), a cui ne segue un secondo (4,44–26,19 Paganini; 4,44–28,68 Papola: l’alleanza all’Horeb). Per Papola è individuabile un terzo discorso di Mosè (28,69–30,20: l’alleanza in Moab). Paganini individua la conclusione del Deuteronomio e del Pentateuco in 27,1–34,12, mentre Papola scorge le ultime disposizioni e morte di Mosè in 31,1–34,12.
Dopo la teofania e l’alleanza all’Horeb (4,44–5,33), Paganini individua in Dt 6,1-25 l’esortazione all’osservanza della Legge, strutturata nel modo seguente: 6,1-3 Introduzione; 6,4-19 I comandi di YHWH; 6,20-25 Una catechesi in famiglia.
Dopo il titolo di 4,44-49, Papola vede invece in 5,1–11,32 un’introduzione parenetica alle leggi, e dopo 5,1–6,3 (la rievocazione dell’Horeb. Il Decalogo), rinviene in 6,4–8,20 l’esortazione alla fedeltà di Israele. La sua parte iniziale, 6,3-25, viene titolata: “Fedeltà al primo comandamento”, con la seguente articolazione: 6,4-9 “Ascolta, Israele”; 6,10-19 “Non dimenticare e non mettere alla prova”; 6,20-25 “La domanda del figlio”.
La fedeltà di Israele a YHWH ha una dimensione spaziale – non solo nel deserto ma anche nella terra della promessa (6,1-19; cf. 6,2) – e una temporale – i genitori hanno il dovere di trasmettere la fede ai figli e di insegnare loro a osservare la legge di YHWH (6,20-25).
Perché tu “tema” YHWH
Il “comando/miṣwāh”, le disposizioni e le norme che YHWH “ha comandato/ha impartito/ṣiwwāh” a Mosè di insegnare al popolo sono dati perché Israele le “metta in pratica/la‘ăśôt”. L’obbedienza concreta è segno visibile della giusta risposta di Israele al Dio che lo ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto (cf. 4,45), in fedeltà all’alleanza stipulata all’Horeb (= Sinai). L’alleanza – afferma Mosè – non è stata fatta con i nostri padri, «ma con noi, che siamo qui oggi tutti vivi» (5,3). La parola di promessa e di impegno è sempre valida e attuale nell’oggi di chi ascolta la Parola e la vive dentro un popolo.
La finalità dell’“osservanza concreta/fare” è quella di sviluppare nel cuore di ciascuno un atteggiamento di riverenza e di ossequio religioso tipico della persona che si trova di fronte a una realtà ben più grande di lei, qual è YHWH.
“Temere-timore/yārē’-yir’āh” non è ciò che noi oggi consideriamo “paura” di fronte a un’entità divina sentita come minacciosa o punitiva. Esso rappresenta invece una sottomissione piena di venerazione e di riconoscenza a una divinità che si è mostrata liberatrice, sempre a fianco del popolo di cui ha conosciuto e condiviso le sofferenze della schiavitù e, infine, preoccupata di far sì che il popolo di Israele rimanga nella libertà ricevuta per grazia e senza merito alcuno.
La situazione definitiva a cui vuole portare l’osservanza dei precetti di YHWH è quella in cui i singoli e il popolo vedano i loro giorni di vita allungati, possano godere la felicità (“che ti vada bene/yîṭab”) e vedere la crescita numerica della popolazione (tirbûn me’ōd), la moltiplicazione che era l’oggetto della benedizione genesiaca di YHWH sulla prima umanità (cf. Gen 1,28) e quella fatta ai padri (cf. Gen 16,10; 26,24; 48,16).
Il tutto si avvererà nella terra della promessa di YHWH, dove scorrono latte e miele. Vi scorre la vita di dolcezza e di bontà perché e quando si vive secondo la parola di YHWH – e solo per quello –, non per le qualità proprie del terreno, di per sé non dappertutto fertile e ameno.
Ascoltare, custodire, fare
Il “timore” si mostra concretamente nel “custodire/mettere in pratica/lišmōr/gr. LXX phylassesthai” gli imperativi liberanti di YHWH. In questo caso l’espressione ebraica le + inf. costrutto indica il gerundio “custodendo/mettendo in pratica”.
La valenza del verbo šāmar è ricca e significativa. Esso abbraccia infatti la duplice connotazione della custodia premurosa in vista della messa in pratica. Quest’ultimo seme semantico è più chiaramente espresso però con il verbo“‘āśāh/fare/gr. poieō”.
Si giunge in tal modo a distinguere e ad apprezzare una movenza spirituale dell’uomo biblico rispetto a YHWH, alla sua parola e ai suoi comandi. Essa è articolata in tre tappe, ben espressa anche nel NT fin nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse.
Le tappe sono: “ascoltare/šāma‘/gr. akouō”; “custodire/šāmar/gr. tēreō-phylassō; “praticare/‘āśāh/ gr. poieō-tēreō (cf. Mt 19,17.20; 23,3; 28,20; Lc 18,21; Gv 8,51-52; 12,47; 15,10; 17,6; 22,7.9; Ap 1,1; 3,10; 12,17; 14,12). Si ritroverà la prima tappa della movenza nel comando di “ascoltare/šāma‘” espresso in Dt 6,4.
La “custodia” e la “messa in pratica” dei comandi di YHWH deve coinvolgere il flusso intergenerazionale delle persone, toccando il padre, il figlio e il nipote. La custodia si attua nel “parlare/dibbēr”, proclamare, “ripetere/šinnāh”, “mormorare/ruminare” la parola di YHWH in modo pervasivo.
L’autore del Deuteronomio impiega in questa pericope un accorgimento letterario particolare, il merismo, con il quale si intende abbracciare la totalità della vita dell’ebreo liberato dalla schiavitù. La parola imperativa di YHWH dovrà intridere la linearità completa del tempo («tutti i giorni della tua vita») e l’ampiezza globale degli spazi vitali del discepolo e di tutto il popolo di YHWH. L’ebreo ne dovrà parlare nel privato («in casa tua») e in pubblico («quando camminerai per strada»), all’inizio della giornata («quando ti alzerai») e al suo termine («quando ti coricherai»). Cioè dappertutto e sempre!
Mezûzôt, tepillin e ṭōṭāpôt
I comandi del Signore dovranno essere ben presenti agli occhi di tutte le persone della famiglia e dell’ambiente abitato pubblico. Si dovrà mettere per iscritto questo imperativo e porlo in una posizione ben visibile a tutti.
A partire dal postesilio, la tradizione ebraica ha messo in pratica in modo letterale questo comando scrivendo in ventidue righe il testo di Dt 6,4-9; 11,13-21 (secondo la prescrizione di Dt 6,19 e 11,20) e riponendo la piccola pergamena in un “astuccio/mezûzāh”, fissato sullo stipite destro (plur. mezûzôt, da cui, per sineddoche, la denominazione di mezûzāh, sing. femm., attribuito all’astuccio) delle porte di casa (sing. delet/plur. delātôt) e della città (sing. ša‘ar/plur. še‘ārîm).
Sul lato posteriore della pergamena, visibile grazie a un foro nel contenitore, era scritto il nome di Dio. Entrando in casa (o nelle sue varie stanze, eccetto il bagno) o attraverso le porte della città, a tutt’oggi l’ebreo osservante tocca la mezûzāh” con le dita, che poi bacia con venerazione.
In occasione dei momenti di preghiera, vengono usati i tepillin (termine postbiblico). Sono sottili strisce di cuoio alle quali è già unito l’astuccio/mezûzāh. Esse vengono attorcigliate attorno al capo, facendo in modo che l’“astuccio/mezûzāh” si trovi posizionato in mezzo alla fronte (fungendo così da “pendaglio/ṭōṭāpôt”, come ordina Dt 6,8).
Vengono attorcigliate inoltre anche intorno al braccio sinistro, facendo in modo che la mezûzāh si trovi nella posizione più vicina al cuore.
“Amare” solo YHWH
È infatti con tutto il “cuore/lēbāb/gr. LXX kardia”, con tutto l’“animo/nepeš/gr. LXX psychē” e con tutta l’“energia/forza/mezzi economici/me’ōd/gr. LXX dynamis” che Israele dovrà “amare/’āhab” YHWH.
In molti testi biblici l’amore non è tanto un sentimento, quanto l’osservanza concreta delle clausole inserite nell’alleanza stipulata con YHWH. Un re vassallo “amava” il re sovrano fornendogli risorse economiche, militari e sottomissione politica.
L’ebreo fedele “amerà” YHWH con tutto il proprio “cuore/lēbāb”, cioè con tutta la propria capacità intellettiva, decisionale, memoriale e di coscienza morale. Lo “amerà” con tutto il proprio “animo/nepeš”, cioè tutte le proprie capacità psichiche e vitali e, infine, lo “amerà” con tutta la propria “forza/energia/mezzi materiali/me’ōd”.
La pratica concreta e le motivazioni religiose derivanti dalla libertà acquisita formeranno la struttura vertebrale della vita di Israele nei secoli. Lo porteranno a cantare la propria fede, anî ma’amin, di fronte alla bocca nera dei forni crematori nei lager nazisti. Lo porteranno a credere, anche se YHWH ha fatto di tutto perché Israele lo dimenticasse: «Non vi è popolo più eletto di uno sempre colpito – afferma Yossl Rakover in un brano del suo tremendo racconto ambientato a Varsavia, il 28 aprile 1943 –. Anche se non credessi che un tempo Dio ci abbia destinati a diventare popolo eletto, crederei che ci abbiano resi eletti le nostre sciagure. Credo nel Dio di Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi, anche se non posso giustificare i suoi atti. Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel modello di vita, tanto più esso diventa immortale. Perciò concedimi, Dio, prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione è di assoluta calma interiore e sicurezza, di chiederTi ragione, per l’ultima volta nella vita».
L’ebreo fedele “amerà” solo YHWH. Non sarà sottomesso ossequiosamente a nessun’altra divinità, ma solo al Dio che lo ha liberato dall’Egitto e lo ha accompagnato nel cammino dopo aver stretto con esso l’alleanza all’Horeb/Sinai. Dall’idolatria, Israele passa all’enoteismo, al monoyahwismo e poi al monoteismo sempre più puro. Segno della sua liberazione avvenuta sarà infatti il suo “servizio liturgico/‘ābad” verso il solo YHWH sul monte Horeb/Sinai (cf. Es 3,12).
Adonai Elohenu Adonai Echad
Per mettere in pratica un comando, bisogna amarlo. Per amare, occorre conoscere chi l’ha dato. Per conoscere chi l’ha dato, bisogna ascoltare cosa dice di sé. Nel profondo. Al di là delle precomprensioni, pregiudizi, paure e ribellioni.
- Paganini evidenzia come, a livello grammaticale e sintattico, la frase di Dt 6,4 possa essere tradotta in quattro modi diversi:
1) YHWH, nostro Dio, è un unico YHWH (una frase);
2) YHWH, nostro Dio, YHWH è unico (una frase);
3) YHWH è nostro Dio, YHWH solo (una frase);
4) YHWH è nostro Dio,YHWH è unico (due frasi).
La prima traduzione sottolinea l’unicità di YHWH (monoyahwismo, YHWH è l’unico Dio di Israele).
La seconda afferma l’unicità di YHWH. Tradurre con “uno” rispecchia la tradizione ebraica, ma tradurre con “unico” è più esatta dal punto di vista del Deuteronomio, dal momento che il testo non vuole proporre un’interpretazione monoteistica della fede in YHWH, ma piuttosto un’interpretazione monolatrica.
La terza e la quarta versione fanno di “nostro Dio” un predicato divino. Questa formulazione sarebbe singolare all’interno del Deuteronomio.
La terza traduzione è quella proposta dall’esegesi rabbinica tradizionale di epoca medievale. Sottolinea non l’unicità di YHWH ma la sua capacità di relazione particolare che si è instaurata tra YHWH e il popolo. YHWH è “nostro Dio”, perché si trova in comunione con il popolo.
La quarta versione sottolinea invece la caratteristica divina dell’unicità piuttosto che la sua dimensione relazionale. Il senso non è monoteistico, ma monoyahwistico.
Il Dio di Israele è un “Dio passionale” (Dt 4,23) che non permette al suo Israele di avere un’altra divinità.
Dt 6,4 – conclude Paganini –, indipendentemente dalla traduzione che viene scelta, «afferma che YHWH è il Dio unico di Israele. Questa unicità non nega l’esistenza delle divinità degli altri popoli, ma sottolinea la particolarità del rapporto di comunione che si viene a instaurare mediante il patto di alleanza tra YHWH e Israele […] appare chiaro come l’affermazione di Dt 4,35.39 voglia proporsi come chiave di lettura previlegiata anche per Dt 6,4. Le quattro possibili traduzioni […] non sono da leggere in contrasto fra loro, si completano a vicenda esprimendo differenti aspetti della figura di YHWH».
Il comandamento primo di tutti
Secondo il Vangelo di Marco, alle cinque dispute galilaiche di Mc 2,1–3,6 fanno da pendant le cinque controversie gerosolimitane (Mc 12,27–12,37), sostenute da Gesù nell’“area templare/hyeron” nel corso di una discussione franca con i sadducei e i farisei. Questi gruppi religiosi erano sostenuti entrambi dai propri esperti biblisti e giuristi (gli scribi, a maggioranza farisaica come indirizzo).
Nella quarta disputa gerosolimitana (Mc 12,28-34), uno scriba di ispirazione religiosa farisaica, avendo sentito che Gesù aveva risposto bene ai sadducei (chiudendo loro la bocca, aggiunge con ironia feroce Mt 22,34), si accosta a lui per chiedere un suo parere circa una questione discussa. Mt 22,35 e Lc 10,25 affermano che lo fece “per metterlo alla prova/peirazōn” (Mt)/“ekpeirazōn” (Lc).
Probabilmente, il proposito dello scriba non era ostile in se stesso, ma il contesto al calor bianco lo poteva rendere tale. Egli imposta una maqloqet, una disputa religiosa – come verrà chiamata nel rabbinismo posteriore – su un tema controverso tra le maggiori scuole di pensiero del momento (cf. Hillel e Shammai).
Alla domanda circa il comandamento più grande, Gesù risponde citando Dt 6,4, letto nella prima lettura odierna (e commentato qui sopra). Nella citazione di Gesù, prima dell’elemento finale “forza”, viene inserito il termine “mente/dianoia”, che è assente nell’ebraico del TM e nel greco della traduzione della LXX. Esso esplicita probabilmente ulteriormente il termine ebraico per “cuore”. Mc riporta quindi la sequenza: cuore-anima-mente-forza; Mt ha la sequenza: cuore-anima-mente; Lc ha cuore-anima-forza-mente.
Diversamente dai Vangeli di Matteo e Luca, nel Vangelo di Marco Gesù risponde alla domanda dello scriba facendo una distinzione classificatoria fra il “primo/prōtē” comandamento (amare Dio ecc.) e “un secondo/deutera hautē” (l’amore del prossimo), e conclude dicendo che non c’è altro comandamento più grande di questi.
Gesù risponde servendosi delle parole della Torah, citando esplicitamente Dt 6,4-5 e Lv 19,8. Nel Vangelo di Marco egli distingue due comandamenti e li considera i più grandi probabilmente perché collegati dal verbo “amare”, che è l’atteggiamento divino e umano all’apice di ogni sentimento e alla radice di ogni motivazione religiosa.
Il primo comandamento, quello che chiede l’amore assoluto verso Dio, è ben affermato in Dt 6,4-5, ma si evidenzia nella pratica dell’altro, pure affermato nella Torah in Lv 19,18. Se, nella prassi quotidiana, l’amore per il prossimo, il secondo comandamento citato da Gesù, è quello immediato, il primo, visibile e controllabile (cf. il limpidissimo pensiero di 1Gv 4,19-20), cartina di tornasole del proprio amore per Dio asserito a parole, di fatto essa deriva la sua capacità motivazionale e spirituale dall’amore offerto a Dio in risposta al suo “amore originale”, alla sua “grazia originale” (cf. 1Gv 4,19). Se non amo Dio, infatti, non riesco ad amare il prossimo che magari si presenta come mio “avversario/nemico”, una persona indisponente, violenta, non amabile…
Gesù si rifà alla Torah e collega strettamente i due comandamenti, dando loro un ruolo primaziale rispetto a tutti gli altri (613 nella casistica rabbinica). Altri maestri ebrei erano arrivati allo stesso risultato.
Gesù amplierà poi in modo smisurato le connotazioni presenti nel termine “prossimo”: Si confronti solo, a titolo di esempio, Mt 6,43-48 sull’amore verso i “nemici” e Lc 10,29-37, la parabola del “Buon Samaritano”, raccontata in risposta alla domanda di uno circa l’identità concreta del “prossimo”.
Gesù, soprattutto, inviterà a “farsi prossimo” verso tutti e a considerare “prossimo” l’ultimo che uno possa immaginare. Nel caso del malcapitato viandante – giudeo, probabilmente –, un odiato ed eretico samaritano!
Tranciante a questo riguardo l’insegnamento di rabbi Hillel, riportato da Talmud, Shabbat 31a. Brandendo una stecca di legno lunga mezzo metro, l’irascibile rabbi Shammai (50 a.C. circa – 30 circa d.C.) aveva scacciato un pagano che gli aveva promesso di convertirsi se prima gli avesse insegnato l’intera Torah mentre se ne stava su un piede solo. Il gentile rabbi Hillel (110 a.C. – 10 d.C.), invece, lo convertì e gli disse: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è “commento/pêrûšāh”. Va’ e studia».
Più di olocausti e sacrifici
Lo scriba riconosce a pieni voti e condivide cordialmente la bontà e la correttezza della risposta di Gesù, forse già udita da lui nella sua formazione biblico-giuridica. Riprende la risposta di Gesù e, di suo, vi aggiunge una considerazione di giudizio di alto profilo.
Lo scriba riconosce che l’atteggiamento di amore nei confronti di Dio e del prossimo – secondo l’accezione che poteva aver presente lui, non necessariamente ancora quella di Gesù – è superiore valorialmente agli olocausti e ai sacrifici con i quali si pensava di entrare in comunione con Dio, di ottenerne il perdono, di ringraziare il Signore per i suoi benefici ecc.
Con una sola frase egli relativizzava un’enorme mole di regole giuridico-religiose che nella Mishnah del 200 d.C. e nei due Talmud, babilonese e gerosolimitano dei sec. V-VII, andranno a formare dei trattati di notevole spessore.
Lo scriba è consapevole della negazione dialettica presente in Os 6,6: «Voglio “l’amore/ḥesed” e non “sacrifici/zebaḥ”». Il che significa non tanto l’abolizione di qualsiasi tipo di sacrifici cultuali e di liturgie comunitarie, quanto la preminenza dell’amore personale che implica il dono esistenziale di sé rispetto all’offerta di realtà che rimangono in ogni caso esteriori alla propria persona. In questo caso si relativizza, senza negarla, la seconda realtà, per sottolineare con forza la primazia della prima.
Si confronti, in posizione opposta, «Non sono venuto tanto a chiamare i giusti, quanto i peccatori» (Mc 2,17; Lc 4,32 aggiunge: «a conversione»).
La Torah è ricca di insegnamenti che hanno potuto costituire il sostrato sul quale ha avuto modo di crescere la consapevolezza dello scriba. «Il Signore gradisce forse i sacrifici?», si chiede Samuele, che prosegue nel suo severo monito a Saul per l’azione che gli costerà il trono e la vita: «Obbedire è meglio dei sacrifici» (1Sam 15,22). «Tu non gradisci il sacrificio, se offro olocausti, tu non li accetti», deve riconoscere con atteggiamento penitente il salmista.
«Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinati per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male», ammonisce da parte sua il saggio realista Qoèlet. «Praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un sacrificio», sentenzia invece Pr 21,3.
«Cosa gradita al Signore è tenersi lontano dalla malvagità, sacrificio di espiazione è tenersi lontano dall’ingiustizia», ricorda il libro del Siracide (Sir 35,5). C’era addirittura chi sacrificava servendosi dei beni sottratti ai poveri… «Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri», si trova così costretto a denunciare l’“infanticidio” il sapiente (Sir 34,24).
Reciso è YHWH secondo Ger 6,20: «… I vostri olocausti non mi sono graditi, non mi piacciono i vostri sacrifici».
Lo scriba del Vangelo di Marco che risponde in quel modo a Gesù, “saggiamente/con profondità di comprensione/‘avendo mente’/nounechōs”, non è lontano dal Regno, dal pensiero di Gesù e dalla sua offerta di vita.
Lo scriba ben istruito e onesto intellettualmente è sulla buona strada.
Ha già riconosciuto che la Torah ha attuato un bel ribaltamento di valori.
Gli manca solo un ultimo passettino…
Essere ribaltato da Gesù.
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