XXXIV Per annum: Cristo Re e Signore

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Al netto di qualche sbavatura di volontà di potenza presente al momento della fissazione di questa solennità quale conclusione degna dell’anno liturgico, resta il fatto che la Chiesa conclude il suo cammino celebrativo di Cristo risorto adorandolo come Signore e re dell’universo.

Essa riporta al suo giusto ridimensionamento ogni pretesa assolutistica da parte di forze umane che si pensano onnipotenti, invitando gli uomini a fissare lo sguardo su un “Signore” e un “Re” particolare. Il suo dominio non è oppressivo né umiliante la dignità delle persone e dei popoli. La sua regalità deriva dal dono generoso di sé a favore e, anche, al posto di tutti gli uomini.

È contenuto della fede della Chiesa che i destini eterni dell’umanità siano nelle mani di colui che ha dato la sua vita per loro. Il cammino dell’uomo può essere perciò sereno e pieno di fiducia. Conosciamo l’amore di Colui al quale abbiamo affidato le nostre vite e la stessa esistenza di tutto il creato.

Potere “bestiale”

Nel commento alla prima lettura della 33ª per annum B abbiamo già indicato le caratteristiche apocalittiche del libro di Daniele e una sua possibile strutturazione letteraria. Dn 7 si pone quale snodo fondamentale del libro.

«Strutturalmente è collegato con i capitoli precedenti per la lingua aramaica, per la simbologia contrapposta animale-uomo (cf. Dn 4,30-31 e 7,4-13), per la visione quadripartita della storia (i regni babilonese, medo, persiano, greco) e con i capitoli seguenti. A partire da Dn 7, infatti, esplode un forte contrasto con i re, prima considerati benevolmente; compare il genere letterario della visione, che occupa l’intera unità; cambia il ruolo di Daniele, divenuto soggetto di visioni in prima persona (eccetto Dn 10,1), senza la funzione esplicativa lasciata a “uno degli astanti” (7,16), un angelo; varia il riferimento storico individuato nel regno di Bēlešaṣṣar (Dn 7,1; 8,1), poi di Dario (9,1), quindi di Ciro, mentre la realtà sottostante è sempre la persecuzione di Antioco IV» (B. Marconcini).

Il genere apocalittico è presente nel c. 7 con tutti i suoi elementi: la dimensione escatologica, la pseudonimia, l’abbattimento delle potenze malefiche, l’instaurazione del regno di Dio, l’apparizione angelica. Rispetto a Dn 2, in Dn 7 c’è un giudizio più severo sul ruolo storico dei re sostituiti dal Figlio dell’uomo e un allargamento di orizzonte: mare-cielo-terra, anziché una pianura.

In Dn 7, Daniele gode di una visione nella quale si avvicendano quattro grandi potenze sovranazionali. L’esercizio del “loro potere/aram. šāleṭānehôn” è oppressivo, disumano, “bestiale”.

L’impero babilonese è simile a un leone con ali d’aquila, quello medo a un orso con tre costole tra le fauci, quello persiano a un leopardo con quattro ali d’uccello e quattro teste. L’impero greco è simile ad una bestia spaventosa e terribile, dalla forza straordinaria; una bestia diversa dalle prime, con dieci corna, che divora e stritola tutto quello che trova e dilania sotto i piedi ciò che non riesce a ingurgitare.

Le quattro superpotenze storiche potranno aver avuto anche degli aspetti postivi (ricordati e lodati in altri libri biblici), ma nel libro di Daniele il giudizio apocalittico in bianco e nero tranciato su di esse non salva nulla della loro azione storica. La quarta bestia, terribile e potentissima, è uccisa e distrutta, mentre alle altre è tolto il potere e fissato un termine alla loro vita.

Uno simile a un figlio d’uomo

Nelle visioni notturne Daniele vede giungere uno simile a un figlio d’uomo, un individuo di razza umana, opposto alle quattro figure bestiali. La figura che giunge “con/aram.‘im/gr. epi = su” le nubi del cielo è “simile a un figlio d’uomo/kebar ’ĕnāš”. L’espressione aramaica può essere confrontata con simili o equivalenti espressioni ebraiche: ’ĕnôš…ben-’ādām (“uomo… figlio d’uomo”: Sal 8,5); ’iš ben-’ādām (“uomo figlio d’uomo”: Ger 49,18.33; 50,40; 51,43; Gb 35,8); ’ĕnôšben-’ādām (“uomo figlio d’uomo”: Is 56,2). Nel libro di Daniele c’è equivalenza tra “min-’ănāšā’/dall’uomo” (4,22), “min benê’ănāšā’/dai figli dell’uomo” (5,21) e “‘aynînke‘aynê’ănāšā’… – kebar ’ĕnāš/gli occhi come gli occhi di un uomo… come un figlio d’uomo” (7,8.13).

Daniele «non vede un personaggio determinato, dotato di un titolo misterioso, né un personaggio celeste: la figura non discende, ma sale; anche se, dal punto di vista del veggente, essa “viene”. Il personaggio della visione riceve il potere prima concesso a Nabucodonosor, negli stessi termini (4,33; 5,18) ma con la differenza che questo potere è eterno, come quello della pietra di 2,44» (Alonso Schökel).

Interpretando il sogno di Nabucodonosor, nel c. 2 Daniele dice al re: «Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma senza intervento di mano d’uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d’argilla, e li frantumò… Al tempo di questi re, il Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto e non sarà trasmesso ad altro popolo: stritolerà e annienterà tutti gli altri regni, mentre esso durerà per sempre. Questo significa quella pietra che tu hai visto staccarsi dal monte, non per intervento di una mano, e che ha stritolato il ferro, il bronzo, l’argilla, l’argento e l’oro» (Dn 2,34.44-45a).

Il “figlio d’uomo/un essere umano/un uomo” è stato interpretato nei secoli che hanno preceduto la venuta di Gesù e anche al suo tempo come “il Figlio dell’uomo”, una figura apocalittica gloriosa, dotata di potere bellico e giudiziario che, alla fine dei tempi (“in quei giorni”), giudicherà e annienterà il nemico del popolo giudaico.

Le decodificazioni di questa figura da parte degli studiosi sono state varie, oscillando fra un’interpretazione individuale e una collettiva. «Cinque sono le spiegazioni di “Figlio dell’uomo” sostenute in base a riferimenti scritturistici. Esso è inteso come essere angelico, popolo di Israele, gloria di YHWH, nuovo Adamo, Messia» (B. Marconcini).

Il popolo dei santi dell’Altissimo

Sta di fatto che, alla fine del capitolo, viene annunciato: «Allora il regno (malkûtāh), il potere (šāleṭānāh) e la grandezza dei regni (rebûtā’ malkewāt) che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo (‘am qaddîšê’elyônîn), il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno» (Dn 7,27).

L’autore della versione definitiva del libro di Daniele non ha dubbi nell’identificare l’insieme del popolo di Israele come il depositario del potere regale donato da YHWH. Il Figlio dell’uomo è una figura storica che rappresenta una comunità storica. L’identificazione del Figlio dell’uomo con il popolo giudaico perseguitato sembra essere l’interpretazione da preferire, e infatti è stata scelta da molti studiosi.

Il Libro delle Parabole, che costituisce i cc. 37–71 del libro paratestamentario (o “apocrifo”) 1Enoch, presenta invece il Figlio dell’uomo come una figura umana e angelica, anteriore alla creazione; egli sconfigge gli imperi; è l’Unto, il Prescelto, il Giusto. Egli si siede sul trono di Dio e appare su un trono glorioso, è egli stesso, l’Eletto, a giudicare (1En 61,8; 62,3).

Figlio dell’uomo, Messia, re

«Una dimensione messianica implicita risiede, in definitiva, nel fatto che sarà il Figlio dell’uomo a ricevere “potere, gloria, e regno eterno, non distruttibile” (Dn 7,14), al posto dei re umani da Nabucodonosor ad Alessandro Magno…». Il «testo ammette sia l’interpretazione collettiva e umana del Figlio dell’uomo, sia un’identificazione dei santi dell’Altissimo con gli oppressi da Antioco IV. Il testo, chiaramente aperto al futuro, non limita comunque il regno al dominio maccabaico, né, d’altra parte, prescinde dalla vita ultramondana, alla quale conducono le visioni. Dn 7, anche se esclude un messianismo diretto, contiene un senso messianico implicito in forza della cosiddetta teoria della “personalità corporativa”, tenendo presente l’evoluzione che la figura del Figlio dell’uomo subisce nel libro delle parabole (1Enoch 37–71): da un senso umano e collettivo a uno divino e individuale… Il parallelo tra Dn 2 e Dn 7, il triplice passaggio “Figlio dell’uomo”, “santi”, “popolo dei santi dell’Altissimo”, la distinzione dall’Antico dei giorni invitano a trovare la messianicità nella dimensione regale. In Daniele, cioè, accanto all’annunzio del regno di Dio, emerge una figura umana che sale “con” le nubi, probabile reinterpretazione di testi quali 2Sam7 e Is 7–11» (B. Marconcini).

Gesù, Figlio dell’uomo

“Figlio dell’uomo” sarà un titolo che Gesù applicherà molto spesso alla sua persona, come un’interpretazione corretta e profonda della sua identità. In esso però egli includerà, oltre all’aspetto di dominio glorioso e di potere giudiziario inappellabile, anche quello di bassezza umile e servizievole e quello di sofferenza e di morte redentrice. Gli ultimi due aspetti sono assolutamente estranei ai testi dell’AT e a quelli paratestamentari del tipo 1Enoch (I sec. a.C.) e 4Esdra (fine I sec. d.C.).

Il Figlio dell’uomo è venuto a servire: «… il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).

Soffrirà, morirà ma risorgerà: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31).

Radunerà gli uomini nell’ultimo giorno: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo» (Mc 13,26-27).

Egli si situerà a livello del Dio vivente: «Io vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Lc 12,8-9).

Il suo sarà un potere giudiziario inappellabile: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre» (Mt 25,31-32).

Il processo romano

L’evangelista Giovanni struttura la scena della comparsa di Gesù di fronte a Pilato (“il processo romano”, Gv18,28–19,16a) in sette scene, ambientate nel pretorio ma alternate fra un ambiente esterno e uno interno. Al centro del processo romano si situerebbe Gv 19,1-3. È la scena in cui i soldati flagellano, incoronano di spine e irridono schiaffeggiando Gesù rivestito della porpora regale, dicendogli: «Salve, re dei giudei!».

L’ultima scena del processo, situata all’esterno (19,13-16a), secondo lo studioso I. De La Potterie – non seguito però da molti altri – descriverebbe di fatto l’intronizzazione di Gesù, compiuta in pubblico, da parte di Pilato. La sua ipotesi non è seguita da molti, però è suggestiva.

La seconda scena (18,22-38a) è situata all’interno del pretorio. Si discute se il pretorio si trovasse all’interno della Fortezza Antonia, la caserma occupata dalle truppe che sorvegliavano la spianata del tempio (una coorte?, At 21,31), o se esso fosse situato nel palazzo di Erode, nella città alta, occupato dal prefetto (6-41 d.C.)/procuratore (44-66.70-73) romano quando, dalla capitale Cesarea Marittima, saliva a Gerusalemme in occasione delle festività ebraiche più importanti. Con molti altri sostengo quest’ultima opinione.

Re di un altro mondo

Pilato è un prefetto che unisce in sé capacità diplomatiche, cinismo politico e disprezzo per il popolo giudaico e per i suoi capi religiosi, dei quali ricerca però l’appoggio per rimanere in sella. E vi rimase a lungo (26-37 d.C.), segno delle sue abili manovre e della sua capacità di “galleggiamento” in una provincia romana non facile da gestire.

Secondo il filosofo ebreo Filone di Alessandria fu «inflessibile, spietato, ostinato» (Legatio ad Caium 38). All’inizio del suo governo introdusse a Gerusalemme le insegne dell’imperatore, offendendo a morte la sensibilità dei giudei, come fece anche altre volte. Agì crudelmente verso i samaritani, che lo denunciarono al legato di Siria, Vitellio (35-39 d.C.).

Convocato a Roma da Tiberio (14-37 d.C.) probabilmente alla fine del 36, vi giunse poco dopo la morte dell’imperatore. Con questo egli sparì dalla storia documentata. Secondo lo storico cristiano Eusebio, egli si suicidò, secondo altre tradizioni si convertì al cristianesimo. Tertulliano (Apologia XXI 24) lo riteneva «pro sua conscientia Christianus» e, insieme alla moglie, è venerato come santo dalla Chiesa copta.

Con tono irrisorio Pilato si rivolge a Gesù domandandogli se egli sia “re dei giudei”, un titolo politico pericoloso, impiegato dalle persone esterne al giudaismo, nel quale la titolatura usuale era invece “il re di Israele”.

Alla domanda di Gesù se questa sia una sua convinzione o su chi lo abbia informato di questa titolatura di cui si sarebbe arrogato, Pilato risponde irridendolo. Nega di essere giudeo e dichiara responsabili di questo presunto convincimento e consegna/tradimento (paredōkan) il suo stesso popolo e i suoi più alti capi religiosi, gli appartenenti al gruppo dei sommi sacerdoti in pensione o alle famiglie dalle quali essi venivano normalmente scelti.

Gesù precisa allora la natura della sua regalità dapprima in un modo negativo e successivamente in forma positiva.

Gesù nega una sua presunta regalità politica legata al popolo giudaico. Il suo “regno/basileia” non ha le radici in questo mondo (ek tou kosmou toutou) e non trae da esso (ouk ek) la propria connotazione costitutiva. Esso non appartiene alla logica mondana di dominio, sopraffazione, violenza, imposizione di gravami di ogni tipo, privazione di libertà, sottomissioni a poteri esterni e lontani dalle esigenze della popolazione. Non trae la sua esistenza e costituzione dalla potenza politica e militare (come quella romana…). Se il suo regno fosse connotato dalla mondanità dell’eone presente, i suoi ufficiali, i soldati e i suoi sostenitori (hypēretai) avrebbe combattuto “perché non fosse consegnato/tradito/hyna mē paradothō”.

Per la terza volta Gesù nega che il regno, quello suo (hē basileia hē emē, vv. 36[bis].37), sia “di/da/ ek” questo mondo.

Il regno proprio di Gesù può essere inteso sia in senso soggettivo con la sua “regalità”, “sovranità” (Herrschaft, reign, royaume), sia, anche, in senso oggettivo, con il “regno” (Reich, kingdom, règne), cioè con il campo concreto su cui si esercita il suo dominio, l’insieme delle persone e delle cose che sono soggette al suo potere indiscusso. La basileia di Gesù “non è di qui/di quaggiù/enteuthen”; non proviene da questo mondo, ma tuttavia si esercita qui, e non solo alla fine dei tempi ma fin d’ora (nyn).

Re della verità

“Dunque, tu sei re?” chiede Pilato, e Gesù gli risponde accettando per buona la sua terminologia. Non possiamo però percepire il tono della sua voce. Potrebbe tradire un’enfasi constatativa (“sei tu stesso a dirlo” e, allo stesso tempo, un’accettazione con riserva (“sei tu a dirlo, ma non è totalmente vero quel che dici, perché lo interpreti in modo non corretto).

Gesù conferma in forma positiva di essere un re inserito pienamente nella condizione umana (“sono nato”), pur avendo una dignità trascendente (“sono venuto nel mondo [creato]”). La sua regalità soggettiva (Herrschaft, reign, royaume) si rivela essere una testimonianza alla verità.

Nel Vangelo di Giovanni viene impiegato il titolo “Figlio dell’uomo” presente in Daniele, nella letteratura paratestamentaria e in quella dei sinottici.

In Giovanni il titolo acquisisce però una significazione totalmente diversa, una connotazione rivelatoria. Il Figlio dell’uomo è il Figlio di Dio. Egli è uscito da presso il Padre (cf. Gv 16,28), è disceso dal mondo di comunione col Padre nello Spirito (cf. Gv 1,51; 3,13;Gv 1,1ss) per piantare la sua tenda fra gli uomini (Gv 1,14), rivelare il volto, la volontà e il giudizio del Padre (cf. Gv 5,27; Gv 1,18), dare il cibo che dura per la vita eterna (Gv 6,27), cioè la sua carne e il suo sangue (6,53), chiedere la fede in lui (cf. Gv 9,35), vivere l’ora in cui essere glorificato (Gv 12,23; 13,31), essere innalzato (Gv 12,34) e, infine, passare da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1), andando da lui, dal quale era partito, dopo aver amato i suoi fino alla fine (Gv 3,14; Gv 13,1; 16,28).

Gesù ha una regalità solida, ferma, affidabile (cf. la radice ebraica ’mn), perché, pur inserito completamente nella storia (lui è nel “mondo” creato e abitato dagli uomini, cf. 17,11 en tōi kosmōi),  non trae la propria linfa vitale e la propria natura dal “mondo” delle forze ostili e chiuse al Padre (Gv 17,16 ek tou kosmou). Nel Vangelo di Giovanni la verità si identifica con la rivelazione del Padre. Gesù in persona è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), in quanto Rivelatore del Padre.

«Rendere testimonianza alla verità» è l’unico scopo dell’incarnazione del Verbo che era presso il Padre, con eguale dignità e natura. “Testimoniare/martyrein” ha una connotazione giuridica. Comporta l’enunciazione dei fatti di cui si garantisce la veridicità. Gesù, che è “verità” in sé, attesta in modo credibile che anche il Padre è “verità”, realtà su cui si può fare pieno affidamento. «… la regalità rivendicata dal Cristo giovanneo consiste nel fatto che quest’ultimo, pur essendo pienamente uomo in seno alla storia, manifesta totalmente la realtà dinamica di Dio, che è al contempo salvezza e giudizio» (J. Zumstein).

Radici che ascoltano la Verità

La sovranità regale di Gesù consiste nel rivelare il Padre. Questo fatto non è autoevidente, ma richiede l’affidamento della fede.

Fede è affidarsi a Gesù per comprendere se stessi e il mondo creato. Affidarsi a Gesù è ascoltare la sua voce, non volendo avere nel mondo chiuso a Dio le proprie radici da cui ricevere linfa e natura. Chi crede in Gesù e si affida a lui ascolta la sua voce e da lui, dalla Verità, trae il proprio essere, le proprie origini, la propria natura, i propri criteri di giudizio e di vita: “chiunque è dalla verità/pas ho ōn ek tēs alētheias” entra a far parte del popolo che accetta su di sé la sovranità regale del Figlio dell’uomo, del Figlio di Dio.

È il popolo che forma “il regno di Dio/hē basileia tou theou”, il popolo che accetta oggettivamente di essere governato da Dio che è amore e dal Figlio dell’uomo che lo ha rivelato.

Accettare che la propria verità venga detta dal di fuori, è oggi molto difficile da vivere.

Se si accetta la verità che viene dal Padre rivelato da Gesù, ci si scopre figli amati dall’Amore.

È fonte di serenità essere pervasi e sottomessi pienamente all’Amore redentore e filiale.

La regalità di Gesù è davanti a noi, al di sopra di noi, in noi.

Cristo è re e Signore dell’universo.

Vertice del creato e traguardo luminoso del cammino dell’umanità.

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