C’è voluta la lettera del papa alla comunità (firmata il 12 e arrivata il 17 marzo) per dare luce e visibilità a quanti vivono a Bose e attraversano un periodo di fortissime pressioni esterne e defatiganti confronti interni.
«Desidero esprimervi di tutto cuore la mia vicinanza e il mio sostegno in questo periodo di dura prova che state attraversando per vivere con fedeltà la vostra vocazione. Sono bene al corrente di quanto in questi ultimi mesi le gravi difficoltà che avevano portato alla visita apostolica e all’emanazione del decreto singolare si sono purtroppo accresciute a causa del prolungato ritardo frapposto all’esecuzione delle decisioni della Santa Sede ivi contenute… Non lasciatevi turbare da voci che mirano a gettare discordia tra voi: il bene dell’autentica comunione fraterna va custodito anche quando è alto il prezzo da pagare! Così come la fedeltà in tali momenti consente di cogliere ancora di più la voce di Colui che chiama e che dà la forza di seguirlo».
La macchina informativa e il silenzio
Nella comunicazione pubblica, sia interna alla Chiesa e soprattutto esterna, la comunità, il suo vissuto, le sue indicazioni e la sua sofferenza non sembrano avere spazio. Tutto è concentrato sul fondatore, il delegato, il priore (Luciano Manicardi) e la Santa Sede (il card. Pietro Parolin e, sullo sfondo, papa Francesco).
Di sofferenza, prova e dolore sono intrise le sorvegliate comunicazioni che appaiono sul sito del monastero. Le testimonianze di tutti i singoli fratelli e sorelle raccolti nella visita apostolica che hanno dato origine al decreto papale e gli indirizzi espressi da una larga maggioranza nei passaggi successivi non raccolgono alcuna attenzione.
La «scelta del silenzio» è intesa nei media come irrilevanza. Essa contrasta con la logica comunicativa, penalizza le ragioni dei monaci e costringe i comunicati istituzionali a una rincorsa, spesso perdente. Al contrario della macchina informativa ampiamente esperita e utilizzata da molti decenni da parte di Enzo Bianchi, costruita non senza meriti e genialità. In tutti i grandi giornali e strumenti comunicativi l’unica vittima è lui.
Massimo Recalcati scrive, ad esempio, su La Stampa l’11 febbraio 2021: «Un uomo vecchio e malato al quale devono la loro casa a Bose viene esiliato, costretto a vivere senza nemmeno poter mantenere il nome della sua creatura. Nessuno si indigna? Nessun cristiano alza la sua voce a difendere l’inerme, il padre colpito al cuore dai suoi figli con la complicità invidiosa di padre Cencini… Lascino morire il vecchio monaco nel suo eremo sulle colline vicino a Bose. Cessino la persecuzione, non facciano più male a fratello Enzo…».
Un commento diverso è quello di un amico di lunga data di Enzo e di Bose, Daniele Rocchetti, che così scrive su L’eco di Bergamo (10 marzo): «Una scelta (quella del silenzio) che deve essere costata non poco ai fratelli e alla sorelle visto il fango che, in modo quasi ininterrotto dallo scorso maggio in poi è stato gettato sul priore, sull’economo e poi sul delegato pontificio mandato per accompagnare la comunità in questo tempo tribolato. Fango che ha trovato spazio fecondo nei social. Dove, contrariamente a quanto sostengono in tanti, il mainstream ufficiale è sempre stato molto ostile nei riguardi della comunità e delle sue figure di rilievo, anche per il rilancio degli interventi di amici e firme autorevoli a sostegno di Enzo Bianchi sui più importanti quotidiani del nostro paese».
Lo aveva già sottolineato p. Cencini in una intervista ad Avvenire il 2 settembre 2020: «Molti riducono la vicenda Bose a una questione di disposizioni disciplinari per alcune persone, ignorando in pratica la comunità. O sono turbati, e giustamente come dice lei, dalla sofferenza di chi è colpito direttamente dalle sanzioni del decreto, ma senza alcuna attenzione a una sofferenza che a Bose è presente da anni, e che forse per molto tempo è rimasta sotto traccia, non considerata, e che invece va riconosciuta e com-patita. L’attenzione deve andare in entrambe le direzioni. È proprio per questo che stiamo lavorando con tutta la fraternità, a livello individuale e comunitario, e non solo per accogliere e “curare” questo dolore, ma per eliminare il più possibile le radici».
Il no di Bianchi
Nel carteggio pubblico – quello privato, personale o attraverso lettera è assai più nutrito – i due testi più puntuti sono il comunicato di Bianchi del 6 marzo (cf. SettimanaNews: La risposta di Bianchi al papa) e il commento di p. Cencini il 16 marzo (cf. SetttimanaNews: Bose: lo stato delle cose).
Nel testo di Bianchi le affermazioni più significative riguardano: a) l’obbedienza al decreto papale («abbiamo obbedito al decreto» anche se annota «l’allontanamento concreto l’ho realizzato, ma non abbastanza lontano come indicato dal decreto»: curiosa glossa per chi non si è spostato dalla casa abitata da decenni); b) il suo mancato assenso («A queste condizioni… non ho mai dato il mio assenso»); c) la distanza di atteggiamento e di richieste fra il Segretario di stato e il delegato; d) il contratto di comodato del monastero di Cellule non fa sapere l’identità e il numero dei fratelli che lo avrebbero seguito; il comodato è legato all’insindacabile volontà dei rappresentanti di Bose; non prevede l’uso dei terreni agricoli annessi all’edificio; si impedisce ai fratelli di condurre una vita monastica o cenobitica.
Nella sua risposta p. Cencini afferma «la (sua) piena sintonia con la Santa Sede, in ogni sua fase e in ogni suo punto». Ricorda il consenso scritto di Bianchi (13 gennaio) ad andare a Cellule con dei fratelli e delle sorelle. Sottolinea che i cinque fratelli e due sorelle disponibili per Cellule erano del tutto noti al fondatore. Inoltre il comodato gratuito non è affatto arbitrario, ma scioglibile solo con un eventuale uso dei beni difformi da quanto pattuito.
I terreni, sia adibiti ad orto che al lavoro agricolo, sono a disposizione dei monaci extra domum presenti a Cellule e che non vi è alcun divieto rispetto alla vita monastica, ma solo a fondazione di comunità, associazioni o altre aggregazioni ecclesiali. E aggiunge una nota: tutte le spese personali, di mantenimento e di manutenzione ordinaria sono a carico del comodatario, cioè di Bianchi. «Tutto questo in quanto il comodatario stesso dispone di adeguati mezzi di sussistenza personali, come da me appurato, nel corso del mio operato per l’esecuzione del decreto singolare del 13 maggio 2020».
Ciò significa che quanto era stato garantito ai tre fratelli allontanati dalla comunità non è previsto per Bianchi in ragione delle sue sostanze.
Parole imprecise e silenzi da interpretare
Difficile dare ragione dell’opinione pubblica ecclesiale, ferita e scombussolata da eventi di cui conosce solo in parte il contenuto e soprattutto perché interessa persone e comunità grandemente apprezzate e giustamente valorizzate. A partire dal fondatore, Enzo Bianchi.
La sua fondazione, i suoi libri, le sue conferenze, i suoi contatti e posizioni pubbliche ne hanno fatto un riferimento per l’intero post-concilio italiano e un mediatore eccellente fra mondo ecclesiale e società laica. Conoscendo anche fieri oppositori e critici inflessibili. I media ecclesiali sono molto cauti: non difendono Bianchi ma ne ospitano gli scritti. Attendono chiarezza, dando nota delle posizioni ufficiali.
Fra chi è più schierato, sia chi lo difende (come Il Sismografo di L. Badilla) sia chi lo accusa (come il blog di S. Magister) alzano il tiro sulla modalità di governo di papa Francesco. Rimangono da interpretare soprattutto i silenzi. Come quelli dei numerosi interlocutori ecumenici, in particolare nell’Ortodossia. Nessun commento da parte delle Chiese protestanti (a parte alcuni singoli valdesi italiani) e nessuna voce dalle Chiese ortodosse, anche di personaggi che hanno frequentato molto Bose. Silenzio anche da parte del mondo monastico.
A livello personale si fa notare l’anomalia di un non monaco come delegato pontificio. Altri suggerisce una lettura pasquale del travaglio in atto (M. Semeraro). Soprattutto si ricorda il difficile passaggio dal fondatore ai successori («è assolutamente necessario che abbandoni la comunità per un tempo relativamente lungo, per lasciare campo libero al suo successore»).
A livello di cardinali i più attivi alla ricerca di un compromesso sembrano essere stati i cardd. Giuseppe Versaldi, Matteo Zuppi e Gianfranco Ravasi, mentre fra i vescovi si cita il nome di Luigi Bettazzi, ma probabilmente ce ne sono molti altri.
La più colpita è certamente la «generazione Bose», quelli che hanno trovato nel monastero e nelle frequentazioni della comunità alimentazione e motivazione per la propria vita cristiana. Restano convinti dell’ingiustizia imposta al fondatore e dell’inadeguatezza della gestione del conflitto.
Il non detto e l’altrove
Sull’intera vicenda resta molto “non detto e non pubblico” che sembra avere ragione non tanto nell’opacità dell’istituzione e nell’approssimazione della comunicazione (pur veri) quanto piuttosto nella custodia e difesa delle persone e della possibilità di una ripresa per tutti.
Rimane la percezione di uno scarto, di una distanza, fra quanto succede e le nuove sfide. Lo ha intuito, seppure in termini generici, M. Ventura in un commento su “La lettura” del Corriere della sera (20 settembre 2020): «Sono sotto un tremendo peso, uomini e donne di Bose, perché campioni di innovazione e tradizione in un’epoca che vuole più di entrambi. La convivenza tra monaci ortodossi, protestanti e cattolici è una straordinaria novità… ma non basta a chi vuole insieme atei e credenti, e cristiani e musulmani, e magari sogna un’unica spiritualità invece di tante religioni».
La contemporaneità del viaggio di Francesco in Iraq con le ultime vicende di Bose evidenzia la sproporzione fra la sorprendente apertura del cristianesimo (non solo cattolicesimo) all’islam, l’accompagnamento a un rinnovato dialogo fra sciiti e sunniti, la barriera costruita contro la deriva fondamentalista, il ruolo “politico” delle fedi nello spazio pubblico e in ordine alla pace rispetto alle pur apprezzabili preoccupazioni del cattolicesimo occidentale.
Oltre al “non detto e non pubblico” c’è un “altrove e un fuori” che offre una misura diversa a una vicenda, pur emblematica nelle sue miserie e grandezze, come Bose.
Caro padre Lorenzo, la ricostruzione che tu fai della vicenda di Bose, analitica come sempre, tuttavia non mi trova d’accordo.
Mi sembra che nella descrizione della vicenda sia venuto meno un aspetto fondamentale. Certo la sofferenza dei monaci e delle monache va considerata (ma possono parlare, o no?), certo il silenzio è una scelta (ma a che serve mentre tutti intorno dicono qualsiasi cosa?), certo ci sono ora i partiti pro o contro l’uno o l’altro dei protagonisti. Tutto logico, comprensibile, soprattutto molto umano.
Però – insisto – c’è un aspetto alla base di tutto il resto. Te lo esprimo così: non ho scelto io di parlare di Bose. È la Santa Sede ad avere comunicato una decisione su Bose e sul suo fondatore. A monte è stata fatta la scelta di informare su qualcosa che stava accadendo. Per quanto mi riguarda si poteva anche non farlo. Si poteva anche non portare a conoscenza dell’orbe terracqueo che era in atto una sommossa, una diatriba, una querelle in cui i protagonisti si sono dovuti rivolgere al Vaticano per incapacità di dipanarla da soli.
Qui mi sembra ci sia il tema centrale. Una volta imboccata la strada della comunicazione, allora è necessario percorrerla. È necessario dare tutte le informazioni, spiegare, esplicitare cosa stia accadendo. E invece no. Si tira il sasso e si nasconde la mano con scuse formidabili: il rispetto delle persone coinvolte, il rispetto della comunità e del suo dolore e via con tutto un corollario di motivazioni pretestuose.
A questo punto il circo mediatico è inevitabile. Anzi largamente prevedibile.
Allora possiamo chiederci: c’è una regia nel lanciare il sasso e nascondere la mano? Non credo. Penso piuttosto che come al solito l’insipienza abbia fatto da padrona, valutando che non ci sarebbero state tante polemiche. Grande errore. E poi di fronte alla mala parata cosa si fa? Si comunica con il contagocce, dandosi a vicenda del bugiardo, mettendo in azione la versione moderna del paradosso del mentitore, così nessuno capisce più niente.
Intanto si avvia la macchina davvero infernale del pettegolezzo sistematico tra chi dice, non dice, fa finta di sapere e non sa nulla, travolti da illazioni varie del tipo rispettiamo la sofferenza della comunità e via dicendo. Ma questa comunità – 70 persone, sembra – sono tutti lì a tacere per la gioia di soffrire a tutti i costi? Oppure obbediscono a qualche autorità e da adulti non sono in grado di dare segnali di autonomia? Senza contare una situazione è davvero sui generis, con uno statuto canonico che a quanto pare sarebbe da rivedere. Ma qui allarghiamo la questione a temi ulteriori e non mi sembra il caso.
Vorrei riportare il timone al centro: quando decidi di comunicare, allora devi essere coerente, altrimenti meglio stare zitti fin dall’inizio. Qui è stato scelto di dire, allora si vada fino in fondo. Invece assistiamo ad un aspetto veramente deleterio: molti parlano, i protagonisti lasciano fare, nessuno capisce più niente. E le esperienze vanno verso l’eutanasia, che pure la Chiesa condanna duramente.
Perché i protagonisti sono tutti d’accordo su un elemento fondamentale: non far sapere quale sia il motivo o i motivi di contrasto. Un gioco delle parti? Però il gioco delle parti non sembra una virtù evangelica.
Fabrizio Mastrofini
Le relazioni in questa comunità di Bose somigliano ogni giorno di piú a quelle in un call center. Se i monaci non comprendono questo accostamento li invito a fare questa magnifica esperienza per capire quello che voglio dire. Naturalmente senza presentarsi come quelli di Bose ma come disgraziati qualunque. In modo da inquadrare meglio cosa ‘non’ vogliono essere e cosa ‘non’ vogliono diventare prima ancora di capire che cosa vogliono essere e diventare (con o senza Bianchi). A volte un’esperienza reale vale piú di mille meditazioni
Il metodo seguito a Bose è sbagliato in partenza. Se si crede al Vangelo si invoca la grazia per superare la tentazione di una logica puramente umana. Se ci fosse ancora il cardinale Michele Pellegrino avrebbe consigliato diversamente papa Francesco. Non essendo un dogma di fede, in questo caso il papa ha sbagliato (certamente perché mal consigliato). Io prego per il Papa perché lo Spirito Santo gli dia il coraggio di compiere un gesto di umiltà, riconoscere di aver impostato male il problema e radunare a Roma Fratel Enzo, Fratel Manicardi e qualche altro componente della Comunità Che cosa fare? Mettersi in preghiera e non smettere fino a quando il Signore Gesù non avrà sciolto i cuori duri. Un bel dono dello Spirito Santo come l’esperienza di Bose viene resa opaca perché il maligno gode nel vedere l’incapacità di persone esperte in teologia e spiritualità, ma incapaci nel farsi bambini nella sequela. Quanta tristezza. Non avrò mai la possibilità di parlare al Papa, ma posso nella preghiera dire, senza stancarmi, al Signore: “Intervieni e rimprovera queste persone dure di cuore”. Non mi stancherò di pregare.
Grazie, Paolo ! Condivido in pieno.
Anche nella nostra parrocchia, come in tante altre intorno a noi, molti hanno trovato e trovano nella comunità di Bose, un importante luogo di riferimento da frequentare con regolarità e cui ispirarsi per molti aspetti di una vita di fede in cerca di forme adeguate al nostro tempo. Si va a Bose non in cerca di un cristianesimo intellettualizzato, ma di un cristianesimo vissuto, in cui cristiani di diverse confessioni condividono il pane, il lavoro e la preghiera, in cui fratelli e sorelle provano a stare insieme nella fatica che comporta la differenza, in cui il lavoro umile della terra si alterna all’impegno dello studio nell’unico fine di dare alla vita, giorno per giorno, la forma del vangelo. Chi ama Bose lo fa perché lì trova una sorta di respiro e di sollievo, la prova tangibile che un cristianesimo diverso può esistere, anche nel modo con cui si mostra, nel modo con cui celebra, nel modo con cui parla.
Per questo, e per molte altre ragioni, fa soffrire tutti la grave situazione di divisione che si è creata in quella comunità e che ha portato addirittura papa Francesco a doversene occupare personalmente e attraverso dei suoi inviati. La discordia in una comunità guardata da tutti come un riferimento fa stare col fiato sospeso. Ma fanno ancora più soffrire i toni di una discussione, per lo più consumata sui social ancorché generata sulla stampa, che ha assunto interpretazioni piuttosto unilaterali e schemi ideologizzanti nel riassumere il travaglio di una storia lunga e complessa innalzando a simbolo solo le ragioni di qualcuno e demonizzando l’opera di chi ha dovuto mediare in una grave situazione di conflitto. In tutto questo non si può negare che abbiano un ruolo importante alcune voci che per notorietà pubblica hanno facile accesso alla stampa e pronta credibilità presso il pubblico. Più ammiratori di Enzo Bianchi che amici della Comunità di Bose, molte di queste voci hanno insistito nel voler interpretare il momento triste di cui si sta parlando nei termini di un’ingerenza ecclesiastica nei confronti della libertà carismatica della comunità e come normalizzazione di un’esperienza profetica. Il cliché dell’ottusità e della durezza istituzionale, pubblicamente parlando, ha sempre le sue carte da giocare, soprattutto dove le apparenze lo favoriscono e i problemi reali circolano allo stato brado del sentito dire.
In questo caso Bose paga quella notorietà pubblica che la fa sostanzialmente coincidere con la fama del suo fondatore e rende i fratelli e le sorelle che la compongono una massa anonima che scompare nella nebbia del polverone. Sulle ragioni della contesa che divide la Comunità di Bose e sui fatti che hanno potuto generarla nessuno di noi certamente può esprimersi e possiamo solo sperare in quel silenzio che permetta a essa di farvi i conti con franchezza e verità. Ma ci lascia certamente perplessi la scarsa o nulla considerazione che in tutto questo polverone è stata riservata ai fratelli e alle sorelle di Bose, più di settanta persone, ridotti a comparse di un dramma dedicato a un attore solo. Abbiamo l’impressione che quelle presenze non meritino di evaporare al calor bianco della semplificazione mediatica. Essa peraltro, e chi la alimenta, fa un torto ulteriore a chi come noi ama la comunità di Bose e indistintamente resta affezionato a tutti i suoi membri: induce a nostra volta a dividerci come partigiani degli uni o degli altri, tutto il contrario di quanto una testimonianza cristiana dovrebbe fare. In questo senso il silenzio dell’intera comunità, a differenza della difesa mediatica del fondatore, ha chiaramente il merito e la responsabilità di non alimentare ulteriori faziosità (anche se in questo paga con l’impossibilità a difendersi).
In questa dolorosa vicenda, il nostro sentimento è quello della vicinanza alla Comunità di Bose, e quello della speranza che essa possa superare serenamente questo momento difficile, con l’umiltà che le ferite scavano dentro di noi rendendoci più costanti: ai molti che guardano a Bose come un luogo di ispirazione per la propria fede non importa essere di Paolo, di Cefa o di Apollo, ma poter contare su un luogo senza del quale anche la chiesa sarebbe più povera e noi con la chiesa. Vogliamo perciò continuare a frequentare la comunità monastica di Bose, cui non manca niente per essere lo stesso luogo di ospitalità che molti cercano, nella speranza che la nostra presenza, saltuaria e discreta, incoraggi e aiuti i suoi sforzi di riconciliazione.
Grazie!
“……Sono cosciente che quanto si sa e si scrive è solo la minima parte e che c’è forse un sommerso che non permette analisi globali, ma, ponendomi come povero cristiano di fronte a quella minima parte che appare,…….”
«Cari lettori, senz’altro sarete informati di quello che mi sta capitando e di quello che sta capitando a Bose e che riguarda proprio la difficoltà di attuare ciò che scrivo. Pregate per me e per la comunità di Bose perché noi per primi possiamo praticare quanto predichiamo». Ecco quello che avrebbe potuto, dovuto, scrivere Enzo Bianchi, invece nulla. Ora, a fronte di questo disinvolto silenzio un cretino normale come me si domanda: «Ma ci prendono tutti per scemi?».
Prendo lo spunto da queste citazioni che mi hanno colpito per concludere, per smettere di commentare quanto si legge qui e altrove, lo spazio dei commenti è fatto apposta per farli, ma poi c’è sempre qualcuno che disprezza o accusa il commentatore dicendo che sono tutte illazioni, e scrive “….vicende che ci sono molto care, su cui abbiamo informazioni di prima mano, o che toccano argomenti su cui riflettiamo da anni e che richiedono attenzione e profondità. La rete fa leva su emozioni……” si permette di vantarsi di annunciare la vera verità, mentre quando si compiace scrivendo di avere “informazioni di prima mano” fa un ingenuo autogol, qualcuno gli ha passato quello che bisogna dire nel sostenere la tesi difensiva, e si capisce bene chi sarà mai, o ci prende per scemi? Faccio fatica a non indicare i nomi di certi autori, che loro non sono commentatori, giammai, loro no, loro sono autorevoli professionisti del sapere, per chi ha seguito un po’ questa triste vicenda ricorderà senz’altro di aver letto qua e là arringhe di autorevoli personaggi, magari non proprio tutti così autorevoli ma sicuramente in corsa per raggiungere la meta. Cosa serve questo discorso all’incompiuta di Bose? A me pare che non ci possano più stare parole, difese, come abbiamo visto per mesi e mesi a senso unico, quando ogni affermazione è stata smentita dai fatti, dai comportamenti, dalle precisazioni puntuali, poche ma chiare, e senza dover dare in pasto alla curiosità di tanti, strumentalizzata da alcuni come la mancanza di elementi contro. Ma ci prendono davvero tutti per scemi?
resta molto “non detto e non pubblico”
Credo che il silenzio della comunità sia stato uno degli errori. Sarebbe stato meglio e meno doloroso un confronto franco. Purtroppo é probabile che la situazione sia nata proprio dal silenzio, da un vissuto nel tempo non esplicito e veritiero tra tutti i protagonisti, fino ad arrivare all’esplosione del non detto. Ad ogni modo i comunicati di Bose anche quando parlano di sofferenza fanno trasparire l’astio.
Il fatto di prendere le difese di Bianchi é dipeso dal fatto che é lui a perdere qualcosa mentre la comunità cosa perde a parte la faccia??? Una guida che a quanto pare odia? Sicuramente Bianchi non se l’era immaginata cosí, la sua vecchiaia. Bene o male come minimo pensava di restare lí dove tutto é nato. Ora ha dovuto affrontare tre shock assieme, il passare la mano, la vecchiaia con quello che comporta, l’esilio. Per non parlare degli altri fratelli e sorelle mandati via di cui pochi si ricordano. Non ha avuto tutto questo tempo per metabolizzare questi eventi, processo che richiede anni, e di conseguenza si sarà comportato in modo contraddittorio. Non voglio dire che Bianchi é un santo ma qua pare non lo sia nessuno. Per non parlare del fatto che questo modo spiccio e poco chiaro di risolvere dá adito a qualunque cristiano a buttare fuori di casa i genitori quando diventano ingombranti o tediosi per avere mano libera con tanto di benedizione papale.
Ma poi davvero il problema era Bianchi e i suoi fedelissimi, il suo potere, le sue conoscenze, la sua esuberanza o il suo narcisismo? Siamo sicuri che i rapporti tra chi resta siano sinceri e schietti? Che tutti abbiano libera voce e pari dignità? Che la falsità non sia rimasta? E che quindi questo sacrificio sia servito a qualcosa?
Quello che le persone si aspettavano era che si trovasse una soluzione che potesse essere di esempio per tutti, di guida, in queste situazioni difficili. Situazioni comuni a molti in molteplici ambiti. Invece si é trovata la soluzione peggiore, la meno fantasiosa e innovativa di tutte, quella che si usa sempre. Prendere la gente e spostarla di qua e di là. A questo punto piú del silenzio sarebbe stato meglio un processo pubblico dove ognuno potesse esplicitare le proprie ragioni. Oppure la comunità prendeva pubblicamente le distanze da Bianchi e lo estrometteva dalla vita comunitaria esplicitando i motivi, senza bisogno di spostarlo e senza bisogno di intermediari. Per fare pressione su Bianchi perché correggesse atteggiamenti inopportuni in fatto di autorità c’erano varie possibilità, tutte interne alla comunità, che é una comunità di adulti, non di adolescenti né di bambini. Poi come Bianchi riuscisse ad imporsi ad una comunità ostile é un mistero!
Timore riverenziale? Ma se questo timore c’era per Bianchi chi garantisce che non si replichi col successore? Se invece era in atto una scissione, dato che poi é cmq avvenuta, ci si poteva dividere piú degnamente. Lasciamo poi perdere la soluzione migliore, quella in cui tutti imparavano a farsi valere, senza essere succubi di nessuno, restando peró a vivere assieme, che a quanto pare é fantascienza.