Credo si possa essere senz’altro grati a Marco Marzano, docente di sociologia presso l’Università di Bergamo e da diversi anni studioso non banale di quello che, fino a qualche tempo fa, veniva chiamato mondo cattolico (Quel che resta dei cattolici, 2012, Missione impossibile, 2013).
In primo luogo perché, stavolta, ha puntato al bersaglio grosso, dedicandosi a descrivere e analizzare quella che definisce nel sottotitolo del suo ultimo libro la rivoluzione mancata di papa Francesco, con un titolo che è tutto un programma: La Chiesa immobile (Laterza 2018, pp. 163, € 18,00).
L’ha fatto da par suo, vale a dire senza sconti di alcun genere e dopo un cospicuo lavoro di raccolta di materiali, testi su Bergoglio e documentazioni varie, soprattutto di taglio sociologico. Comprensibilmente: la sua lettura è dichiaratamente una lettura sociologica, che affronta la Chiesa cattolica come qualsiasi altra istituzione sociale. O come un’impresa, che viene valutata sui numeri, i profitti e i dividendi.
Da questo punto di vista, l’operazione è ovviamente legittima, e l’interpretazione dello studioso torinese potrebbe apparire impeccabile: dopo cinque anni, a suo parere, è lecito sostenere che le grandi attese che avevano accompagnato la salita al soglio pontificio del primo papa gesuita siano del tutto deluse. Anzi, egli argomenta apertamente che, con la sua capacità di occupare la scena internazionale e di sedurre populisticamente le masse (cattoliche e non), papa Francesco sta furbescamente portando la Chiesa a prendere due piccioni con una fava: «da un lato, aumenta immensamente la sua popolarità, dà smalto alla sua immagine, cattura l’attenzione delle opinioni pubbliche di tutto il mondo; dall’altro, non solo fa scomparire del tutto dal dibattito pubblico il tema della secolarizzazione e della sempre minor rilevanza del cristianesimo, ma oscura, quasi fosse una cosa irrilevante, l’esistenza e il funzionamento dell’organismo che dirige, della macchina ecclesiastica, cioè delle prassi politiche, religiose, culturali e normative nelle quali è immerso quel mezzo milione di presti che non si chiamano papa Francesco» (p. 148). Queste le sue conclusioni, in buona sostanza.
I motivi del fallimento
Nei tre corposi capitoli che costituiscono il volume, ritroviamo i motivi per cui – secondo Marzano – il papa argentino avrebbe fatto cilecca: mancando le riforme che davvero contano (quattro, a suo parere: la riforma della curia romana, il mutamento dell’etica sessuale e affettiva, l’abolizione del celibato obbligatorio per i presbiteri e il nodo della questione femminile), in un contesto di crisi più apparente che reale, almeno sul piano statistico e di quella che, con P. Jenkins, ci siamo abituati a definire Chiesa globale, e limitandosi a una debole politica dell’amicizia con tutti e comunque, a destra e a sinistra (per adottare le categorie della politica, che peraltro ormai neppure la politica tende più ad adottare; romanescamente, verrebbe da dire, insomma: un papa piacione…). In realtà, a proposito di crisi, tale condizione, per i cristiani, dovrebbe essere una situazione – per dir così – normale.
In un testo preparatorio alla conferenza del Consiglio missionario internazionale (IMC) di Tambaram del 1938, il missiologo olandese Hendrick Kraemer sosteneva tale idea nei seguenti termini: «Rigorosamente parlando, si dovrebbe dire che la Chiesa si trova costantemente in uno stato di crisi e che il suo più grave limite è che ne è consapevole soltanto di tanto in tanto». Cosa che avviene – proseguiva – a motivo della «tensione permanente fra la (sua) natura essenziale e la sua condizione empirica».
Perché allora questo elemento di crisi e di tensione lo percepiamo solo di tanto in tanto? Perché la Chiesa «ha sempre avuto bisogno dell’insuccesso e della sofferenza manifesti per divenire pienamente cosciente della sua vera natura e missione». Se intende essere fedele alla sua vocazione, essa è chiamata dunque a fungere – come il suo Signore, del resto – da «segno di contraddizione» (Lc 2,34).
Tornando a Marzano, il tutto è condito, ripetiamolo, di molti riferimenti bibliografici, e con uno stile ficcante, efficace, convincente.
Ma come dev’essere la Chiesa?
Eppure. Eppure, alla fine della lettura, quantunque gustosa, personalmente mi sono trovato in difficoltà. Perché, alla fine, pur concordando con alcune delle letture presenti nel testo, mi pare che i conti non tornino. E che non funzioni il tentativo, qui reiterato, di presentare la situazione della Chiesa nel tempo di Francesco come sostanzialmente identica a quella del tempo di Benedetto XVI, o di Giovanni Paolo II: a quella che registrava il dominio dello spettro del relativismo e un’enfasi costante sulla difesa dei cosiddetti valori non negoziabili. Perché non è così, e chi vive dall’interno e da parecchi anni, spesso con fatica, sempre alternando delusioni e soddisfazioni, un’esperienza ecclesiale, in questa Chiesa feriale e talora bruttina, lo sa bene.
E, in effetti,mi sono chiesto, per capire meglio il mio spaesamento: ma qual è lo scopo ultimo della Chiesa? Aumentare i numeri, i dividendi, la produttività, migliorare le statistiche e incrementare le percentuali di messalizzanti (come sembrerebbe leggendo Marzano); o essere fedele il più possibile al vangelo, a quel suo Signore che non aveva neppure una pietra dove posare il capo e ha finito la sua missione terrena con i suoi apostoli dispersi e decimati, patendo il supplizio più infamante possibile?
Non mi pare una domanda da poco, per situarci realisticamente nell’oggi della Chiesa (ecumenicamente, di tutte le Chiese). Tanto più che, in questa prospettiva, la rivoluzione di Francesco, per quanto ancora in itinere, risulta tutt’altro che mancata, nel suo invito a uscire da presunte certezze consolidate, e a transitare da un’identità ecclesiale fatta di regole e di sacrifici a una plasmata di pazienza e misericordia (non perché conviene, ma perché tale è la logica del Dio biblico).
Segni di novità
A partire da quell’innovativo magistero quotidiano rappresentato dalle eucaristie mattutine di Santa Marta, durante le quali si legge e si scavano le pagine evangeliche con una freschezza e un’efficacia impressionante; per giungere all’immagine di una Chiesa che – si veda il Giubileo di due anni fa, ma si colga soprattutto lo stile che contraddistingue Bergoglio – sappia inverare definitivamente la lettura di Giovanni XXIII nel suo discorso d’inaugurazione del Vaticano II («Ora, tuttavia, la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità»). Passando per la fine del cosiddetto inverno ecumenico (il giudizio non è mio, ma della stragrande maggioranza dei commentatori, di diverse Chiese); per una parresìa inusitata su temi etici vari e spesso delicatissimi; per una serie di prime volte che sarebbe ingiusto – e miope – sottovalutare; per un’insistenza voluta e vissuta sull’urgenza di essere una Chiesa povera e per i poveri; per l’archiviazione della stagione in cui il cattolicesimo italiano si è preteso – vanamente – religione civile per recuperare credibilità nello spazio pubblico… Quando parlo di stile, la cosa va ben oltre i pur rilevanti cambiamenti nella quotidianità che i media hanno puntualmente sottolineato. Il riferimento, infatti, è alla visione suggerita dal teologo Cristoph Theobald, nel rileggere l’intero cristianesimo come stile.
Per capire Francesco, Theobald (che non compare tra le fonti di Marzano), gesuita dalla biografia intellettuale assai diversa da quella di Bergoglio, è fondamentale, a partire dalla sua constatazione che stiamo passando «da una visione dogmatica a una percezione stilistica dell’identità cristiana» (Il cristianesimo come stile, vol. I, EDB 2009, p. 9). Perché ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre: dal suo stile emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, alla fine del regime di cristianità – sono leggibili come una rottura della corrispondenza tra forma e contenuto.
E Francesco ha compreso (direi di più, ha nelle sue corde latinoamericane) che una Chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, ma spazio in cui le persone trovano la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la propria esistenza.
Così, è soprattutto lo sfondo integratore (adottando un linguaggio pedagogico) di questo papato a essere cambiato radicalmente, al di là dell’ovvio rispetto per i predecessori e delle somiglianze linguistico/lessicali dei pontificati passati (modalità di analisi che, considerando la gran quantità di documenti bergogliani prodotti, resi pubblici e analizzati, e scegliendo fior da fiore, potrebbe agevolmente portarci a leggere Francesco, per dire, come un novello Bonifacio VIII, o un qualunque Pio).
Si potrebbe immaginare la catechesi itinerante che ha condotto il papa sulle rotte di un don Milani, un don Mazzolari, un don Tonino Bello, ad esempio, fino a rivalutarne le storie ferite, spesso incomprese dalle gerarchie ecclesiastiche dell’epoca, ma soprattutto la modalità di vivere il vangelo e la sequela di Gesù, fatta da altri pontefici precedenti?
Quando mai avevamo udito parole come quelle consegnate alla redazione de La Civiltà Cattolica il 9 febbraio 2017 – in riferimento al fare teologia – che invitavano a una teologia inquieta, consapevole di essere incompleta e capace di immaginazione? Riforma, del resto, è in primo luogo ablatio, togliere via, non aumentare né complicare, ma semplificare: un’operazione analoga a quella dello scultore, chiamato a togliere materia dalla pietra nuda per far emergere la nobilis forma che vi è contenuta.
Il profumo del vangelo (Evangelii gaudium 34) si diffonde esclusivamente grazie all’essenzialità, alla sobrietà, alla povertà.
E unico criterio di semplicità e di essenzialità è il vangelo, nulla di più. Se si opera una scissione con l’essenziale del vangelo, «l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro maggiore pericolo. Perché allora non sarà propriamente il vangelo che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni ideologiche» (Evangelii gaudium 39).
La questione femminile
Detto ciò, trovo invece calzanti le riflessioni che Marzano dedica alla questione femminile nella Chiesa, e ritengo sia oggi davvero urgente, e improcrastinabile, interrogarsi da parte del magistero cattolico su quale posto sia possibile per la soggettualità attiva delle donne in vista di un corpo ecclesiale collettivo e per la radicazione della fede comune nell’apostolicità fondativa. Su cosa sia necessario per una Chiesa che si va riscoprendo oggi, certo troppo lentamente ma con inedita consapevolezza, come “comunione di uomini e donne, uno in Cristo” (Gal 3,28). E, ancora, data la conoscenza che attualmente abbiamo della lenta e graduale evoluzione delle forme di esercizio e di comprensione e di espressione del ministero che si sono succedute le une alle altre nel corso dei secoli, sulla possibilità di pensare a una trasformazione nelle figure ministeriali, che includa la componente femminile della Chiesa.
“Il tempo è superiore allo spazio”
Concludendo. La lettura de La Chiesa immobile, alla fine, ha rappresentato per me soprattutto l’occasione di ripensare alla grazia di questo papa, che non a caso trova una notevole opposizione (che mi pare l’autore tenda alternativamente, curiosamente, a sminuire e a enfatizzare di volta in volta).
Così, mi viene in mente che, nel quarto capitolo dell’esortazione postsinodale di Francesco Evangelii gaudium (24 novembre 2013), in cui si riflette in merito alla “dimensione sociale dell’evangelizzazione”, si presentano quattro principi che dovrebbero orientare specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune. Un progetto al servizio della pace, della giustizia e della fraternità/sororità:
- il tempo è superiore allo spazio
- l’unità prevale sul conflitto
- la realtà è più importante dell’idea
- il tutto è superiore alla parte.
Direi che soprattutto il primo principio, secondo cui il tempo sarebbe superiore allo spazio, riveste una particolare rilevanza. Ecco come viene descritto nell’Evangelii gaudium: «Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).
Credo che queste frasi funzionino bene per capire come stia operando papa Francesco, e perché il suo obiettivo – più che rivoluzionare in quattro e quattr’otto la Chiesa-istituzione – è di iniziare processi. Di generare aperture.
In altri termini, e pur senza essere dotato della sfera di cristallo: dopo Francesco, non sarà più possibile fare il papa come lo si faceva prima di Francesco.
Difetterò per eccessivo ottimismo, ma personalmente sono convinto che, tra gli effetti del presente pontificato, si stia consolidando un punto di non ritorno. Perché «la sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne» (Francesco, Discorso alla comunità de “La Civiltà Cattolica”, 9 febbraio 2017).
E Francesco questo sta facendo, esaltando qualcuno e intristendo altri. Perché è un uomo e un cristiano, prima ancora che il papa.
Ho letto volentieri le riflessioni di Brunetto Salvarani su “La chiesa immobile”. Basta l’osservazione – pienamente condivisibile – “dopo Francesco non sarà più possibile tornare allo stile precedente”… Come prova del cambiamento profondo e genuino provocato da papa Bergoglio nella Chiesa che sta percorrendo in modo più autentico le strade del vangelo e del Vaticano II! Ancora una volta auspico che “Settimana” continui a riflettere e a diffondere le proprie riflessioni nella comunità italiana.
Grazie infinite a Brunetto Salvarani.
Mi sono trovato perfettamente a “mio agio” nella lettura del suo articolo. Mi hanno fatto gioire i riferimenti a Theobald e al discorso di Papa Francesco alla Redazione de La civiltà cattolica del 09/02/2017.
Mi sarebbe piaciuto anche un accenno esplicito (perché implicitamente è presente) al cammino sinodale nella Chiesa, come pure alla rivalutazione della “coscienza” e della dimensione storica dell’uomo e della comunità cristiana… aspetti tipici ed essenziali del pontificato di Francesco.
Grazie.