La pandemia da COVID-19 sta mettendo in crisi la vita sociale ed ecclesiale. La Chiesa, in Italia, sta vivendo un’esperienza totalmente nuova: da alcune settimane sono vietate le celebrazioni comunitarie dell’eucaristia, i funerali, i matrimoni… Tutto questo ha conseguenze che avranno risvolti ben più profondi di quelli già scaturiti, qua è là, da una immediata reazione emotiva.
Questa crisi ci deve far sentire il dovere di rileggere – sotto diversi punti di osservazione – l’esperienza che stiamo vivendo, per comprendere e assimilare ciò che di buono c’è sicuramente in essa.
La formazione
È imbarazzante, in questi giorni, leggere ed ascoltare, singoli o gruppi di cattolici (non esclusi qualche sacerdote) che fanno affermazioni forti. Saremmo tentati, nell’immediato, di dividerci in favorevoli e contrari ma la domanda di fondo è: quale formazione hanno ricevuto i cattolici italiani? È evidente che la risposta è articolata e non riassumibile in poche righe ma credo che, nei tempi e nei luoghi più idonei, sia un impegno ineludibile trovare risposte.
Solo per accennare ad alcuni ambiti prioritari: quale immagine di Dio stiamo trasmettendo? Quale ecclesiologia stiamo portando avanti? Come stiamo spiegando i sacramenti e la vita spirituale? E soprattutto, come di tutto questo ne stiamo facendo e facendo fare esperienza autenticamente evangelica?
In questi giorni non è raro imbattersi sui social o in televisione nell’idea di una religiosità magica, di un dio che vorrebbe un «prezzo» dalle sue creature per proteggerle, di un culto a un dio come deus ex machina, di una spiritualità fatta di oggetti, di formule, di riti, di luoghi.
Lo spazio per una riflessione seria sulla catechesi per l’iniziazione cristiana e per gli adulti e sui programmi delle facoltà teologiche sarebbe davvero molto ampio.
La pastorale
Le misure di prevenzione dall’infezione da COVID-19 hanno dimostrato tante fragilità delle nostre comunità cristiane. Vietate le celebrazioni eucaristiche comunitarie e gli incontri di catechesi, tutto si è bloccato. Ovviamente la paralisi era inevitabile ed è indubbiamente il risultato che si voleva ottenere per salvaguardare la salute delle persone. Ma ci dice anche altro.
Ci dice, ad esempio, che tutta la nostra azione pastorale è concentrata per quelle poche persone (e in continua diminuzione) che frequentano fisicamente le nostre parrocchie e le nostre riunioni senza porsi almeno due domande: e chi non frequenta? Come interpretare questo crollo della partecipazione? Si va avanti perseveranti e fedeli… verso un crash frontale!
Le prime risposte pastorali, in questi giorni, evidenziano palesemente il desiderio dei presbiteri di rimanere accanto ai loro fedeli ma ci dicono anche come lo schema di fondo del ragionamento sia cortocircuitato. Un esempio: sono proliferate le messe in streaming sui social, anche nei giorni feriali, quando è risaputo che gli abituali frequentatori erano solo pochi anziani… che sicuramente non sono in grado si usare le nuove tecnologie di comunicazione.
Uno sguardo sul clero
È innegabile che in questa esperienza, il clero sia un «pezzo» della Chiesa in grande sofferenza.
I vescovi, in queste settimane, sono spesso impegnati nel dover rispondere alle normative governative, alle indicazioni della CEI, alla fatica nel rapportarsi più intensamente con gli altri vescovi «confinanti», al rispondere alle sollecitazioni di preti, religiosi e laici.
Anche i diaconi, impegnati nella carità, nella catechesi e nella liturgia, si ritrovano a dover ripensare, insieme alle loro mogli, nuove forme di ministero o a gestire – in qualche modo – una pausa forzata delle attività.
Ovviamente, fosse anche solo per quantità, molta sofferenza è concentrata tra i nostri preti.
Per alcuni, essere prete senza fare le cose del prete e senza l’«esposizione» quotidiana alle persone può essere motivo di confusione, di frustrazione, di crisi per la propria autostima. Questo concorso di stimoli può determinare un complesso contesto intrapsichico nel prete (alla pari di qualsiasi altra persona) che può spingere la persona verso un vero e proprio disagio psicologico con comportamenti non salubri.
Nel momento in cui l’equilibrio psicologico si compromettesse, anche la vita spirituale andrebbe in sofferenza. È come se la dimensione psicologica sofferente «logorasse» la dimensione spirituale esattamente come quando, se sana, contribuisce alla «sanità» della vita spirituale.
Due rotaie di uno stesso binario
In queste settimane così anomale mi sembra che due «rotaie» balzino agli occhi degli osservatori più attenti della vita della Chiesa.
La prima è la realtà della «carità». Il mondo, attraverso la «filigrana» della carità mossa dalla fede, riesce oggi a intercettare «pillole» di Vangelo. Ovunque si parla dei poveri, degli anziani, degli ammalati, dei senza fissa dimora. Se vorremo, avremo davanti a noi uno spazio infinito da dove ricominciare con un cuore e una mente nuovi!
L’altra «rotaia» la definirei il bisogno di una vita spirituale in chiave comunitaria. Tante persone oggi gridano il loro bisogno di messe, rosari, via crucis, funerali… Se avremo coraggio, potremmo partire da queste domande per aiutare i nostri fedeli a formulare le loro domande più profonde e inespresse sulla vita, sulla morte, sul tempo, sull’amore.
Potremo aiutarli, in una relazione personale (se avremo il coraggio di abbandonare una forma di comunicazione strutturata per rivolgersi alle folle, ormai inesistenti), a entrare in nuovi tipi di comunità «reticolari», leggere, per fare esperienza – tra cristiani «connessi» – di una vita spirituale più radicata nella Parola di Dio e dell’uomo e meno nel codice di diritto canonico e storia della Chiesa (che rimangono un tesoro prezioso ma da gestire con cautela e da chi è preparato a farlo).
Non mi rimane che concludere tentando di rispondere alla domanda che forse, giunti a questo punto, è sorta: il binario costituito da queste due «rotaie» dove ci porterà?
La mia risposta è disarmante: non lo so! Non so dove concretamente potremmo arrivare seguendo questo «binario», ma sono certo che ci porterà lì dove il Signore vorrà. Dobbiamo capire che non è importante la meta ma piuttosto il percorso. In termini più teorici, credo che non siano più importanti i contenuti ma i processi.
Camminare su queste «rotaie» permetterebbe alle comunità cristiane e ai singoli cristiani di entrare in dinamiche sinodali e di discernimento personale e comunitario per recuperare lo Spirito originale del Vangelo, incarnato nel mondo di oggi.
Don Marco Vitale è presbitero della diocesi di Roma; dal 2018 si dedica alla formazione permanente del clero e all’accompagnamento spirituale dei sacerdoti. È membro della redazione della rivista Presbyteri e guida di esercizi spirituali ignaziani.