La Chiesa francese affronta di nuovo lo scandalo degli abusi in assemblea generale e una inchiesta di La Croix illumina il caso emblematico dei fratelli domenicani Thomas e Marie-Dominique Philippe. La conferenza episcopale, riunita in via straordinaria on-line (22-24 febbraio), per approfondire il tema della responsabilità collegiale nei confronti delle vittime degli abusi si prepara a decisioni operative per l’assemblea del mese prossimo (22-26 marzo a Lourdes).
Un tempo di riflessione facilitato da Elisabeth Pelsez e Henry Rousso (membro la prima e presidente il secondo del progettato museo memoriale del terrorismo) e dalla biblista sr. Sophie Ramond. Oltre ai vescovi partecipano una trentina tra vittime, responsabili diocesani delle «cellule di ascolto» e alcuni esperti.
Ancora una volta la presenza delle vittime si è rivelata decisiva. Il loro racconto che parte dalla difficile conquista della parola su quanto è avvenuto e si sviluppa nel dialogo coi terapeuti e le altre vittime per la comprensione dei meccanismi del plagio fino a riconoscere la responsabilità dell’aggressore ha animato in particolare i gruppi di lavoro.
È possibile una responsabilità collegiale, una responsabilità morale dell’istituzione? No, dal punto di vista strettamente giuridico, ma dal versante della responsabilità morale la risposta è sì. C’è quindi una responsabilità non colpevole in termini di diritto positivo. Una organizzazione istituzionale per una serie di concatenamento di cause, per le interconnessioni delle azioni e delle responsabilità e per i condizionamenti ambientali deve assumersi una responsabilità non penale. Con l’attenzione a non vivere tale corresponsabilità come una ambigua forma di de-responsabilizzazione (tutti colpevoli, nessun colpevole).
Come ha detto un vescovo: «Posso sentirmi responsabile per l’oggi e per il domani, ma non riesco a considerarmi responsabile per la mancanza di giudizio dei miei predecessori e per i travisamenti passati dell’istituzione… La responsabilità non significa colpevolezza, ma solidarietà. Come vescovi dobbiamo rispondere di quello che è successo». La richiesta di perdono va indirizzata a Dio per il male compiuto dai membri della Chiesa.
Una delle vittime ha specificato: «Da parte mia non mi aspetto che un vescovo mi chieda perdono. Quello che deve farlo è il mio aggressore, che purtroppo è morto. Mi aspetto invece che la Chiesa riconosca che ha fallito non proteggendomi. Mi piacerebbe sentire una affermazione simile: “Come vescovi di Francia riconosciamo la responsabilità dei nostri padri e domandiamo perdono a Dio del male commesso da alcuni membri del clero verso i piccoli”».
Affrontare le responsabilità
C’è un debito morale verso le vittime nel riconoscimento della loro sofferenza e del loro diritto a una qualche riparazione. I vescovi e quanti rivestono autorità sono responsabili per la loro funzione. Se per educare un bambino ci vuole un villaggio, anche per abusare di lui c’è un villaggio che lo permette. Vi è quindi una responsabilità collettiva per prevenire gli abusi e proteggere i più deboli.
L’accumulo di molte disattenzioni e di gesti impropri potrebbe configurarsi come una struttura di peccato. E questo vale ben oltre le autorità responsabili. È compito anche del popolo di Dio. La prossima assemblea episcopale di marzo dovrebbe arrivare all’elaborazione di un dispositivo in grado di rispondere al problema per i prossimi anni in ordine agli abusi.
Ma in ottobre è annunciato il rapporto della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa (Ciase) che ha già raccolto circa 6.000 casi. In previsione delle prevedibili reazioni alcuni vescovi hanno suggerito di posticipare le decisioni a quel momento. Sembra archiviata l’idea di un forfait unico per le vittime e ci si orienta per calibrare l’eventuale aiuto in ragione dei casi.
Il caso emblematico dei fratelli Philippe
Una ampia inchiesta del giornale La Croix (22 febbraio) è dedicata alla figura di due fratelli, ambedue domenicani, Tohmas e Marie-Dominique Philippe. Il primo è stato l’ispiratore e il riferimento di Jean Vanier (cf. SettimanaNews: Il caso Jean Vanier: il dolore e l’enigma). Il secondo è il fondatore degli istituti religiosi afferenti alla Congregazione Comunità di san Giovanni (cf. SettimanaNews: Un istituto, un libro e una lettera).
Ambedue accusati di abusi e comportamenti inappropriati e ambedue censurati già negli anni ‘50, ma poi ripescati e promossi a una notorietà ecclesiale significativa (in particolare il secondo). La loro vicenda è ora al vaglio di quattro indagini ecclesiali. Da parte dell’Arche (la fondazione di Vanier), della comunità di San Giovanni e dei domenicani (sul versante storico e su quello teologico).
P. Thomas avvia nel 1946 un centro di formazione internazionale chiamato Eau vive a Parigi, inteso come una «scuola di saggezza» dove proporre un insegnamento di teologia tomista e una iniziazione alla vita contemplativa. Folle di studenti e le elites cattoliche (fra cui J. Maritain, che poi si staccherà) accorrono e sostengono. Nel 1951 arrivano le prime denunce di abusi da parte di due donne.
L’anno successivo gli viene tolta la direzione che passa a J. Vanier (che contrariamente alle disposizioni manterrà una sistematica relazione con p. Thomas) e nel 1956 è gravemente censurato dal Sant’Uffizio: non potrà più celebrare i sacramenti e avere un ministero. Processo e censura sono sottoposti al segreto. Dalla carte prodotte al capitolo generale della Comunità di San Giovanni nel 2019 emerge che il dicastero romano colpisce non solo l’abuso sessuale quanto soprattutto la giustificazione teologica che lo sostiene e cioè la pretesa dell’interessato di attingere in via del tutto particolare alla volontà di Dio nei suoi confronti e nei comportamenti abusanti, anche se difformi dalla dottrina comune della Chiesa.
Thomas presume di aver avuto una illuminazione particolare il 20 ottobre 1938 davanti un quadro della Madonna a Trinità dei Monti: l’unione di Maria con Gesù che lo invita a una sorta di matrimonio mistico fra lui e le sue penitenti. Una pretesa che coinvolge anche una sorella, anch’essa domenicana, che copre le azioni di Thomas con le suore a lei sottoposte. E persino uno zio, domenicano, che verrà ugualmente censurato seppur meno gravemente in ragione dell’età e della salute.
E il fratello Marie-Dominique? Anche lui viene colpito anche se non si hanno ancora certezze circa i suoi comportamenti negli anni ‘50. Le denunce arriveranno per fatti avvenuti vent’anni dopo.
Arche e comunità san Giovanni
Di fatto nel 1963 p. Thomas è di nuovo a fianco a Vanier nella direzione dell’Arche e nel 1975 Marie-Dominique fonderà la comunità di San Giovanni. Tutto sembra archiviato e le denunce scomparse.
«C’è stata una interruzione nella trasmissione delle informazioni? – si interroga l’autrice dello studio, Céline Hoyeau. Una perdita di memoria delle decisioni? Una dimenticanza voluta? Negligenze? Complicità? ». Lo diranno le inchieste in atto. Si può intuire qualcosa rifacendosi al clima ecclesiale di quegli anni, alla gestione segreta dei fatti, alla manipolazione della memoria, alla crescita esponenziale delle due istituzioni.
All’indomani del concilio tramonta il modello autoritario della gestione ecclesiale e vanno in frantumi molte convenzioni secolari. L’idea che le norme possono essere riscritte diventa comune. La famiglia domenicana francese è travolta, come l’insieme del clero e della vita consacrata, da profonde divisioni e da dolorose fuoriuscite. Si aprono sperimentazioni, alcune assai generose altre discutibili.
I superiori si riferiscono più alla tolleranza e all’incoraggiamento che alla denuncia e ai divieti. Per di più sono all’oscuro di quanto era successo qualche lustro precedente. Da Roma era venuta una rigida consegna del silenzio che lasciava spazio a congetture assai fantasiose. La scomparsa dei testimoni diretti ha fatto il resto.
Tanto da incoraggiare le voci di un annullamento delle sanzioni e di spiegazioni diverse. Le disposizioni romane sarebbero state una sorta di vendetta procurata da quanti ricordavano come nel 1942 dopo le censure di p. Chenu, Congar e di altri insegnanti a Soulchoir (l’istituto teologico domenicano) subentrarono come “normalizzatori” p. Thomas e Marie-Dominique Philippe, oltre a Garrigou-Lagrange.
Del resto p. Thomas scrive una accorata lettera a Giovanni XXIII per chiedere di tornare in Francia (allora ospite di un convento italiano) per dedicarsi ai malati mentali e ai poveri nell’Arche. Ma nei suoi confronti non c’è mai stata una formale riabilitazione. I domenicani lo considerano ormai ai margini e lo affidano alla fondazione di Vanier. Il clamoroso sviluppo de l’Arche fa il resto.
Il clima dell’abuso
Qualcosa di simile succede anche per Marie-Dominique che, nell’arco di una decina d’anni, nel 1985, può contare su 163 fratelli, mentre l’ordine sembra nell’impasse. Quando arrivano le denunce alla fine degli anni ‘90 il vescovo di riferimento. Mons. R. Séguy manda inutili segnali a Roma attraverso la nunziatura.
Uno dei primi denuncianti, p. J-M Garrigues annota: «Ci si può domandare, come per i Legionari di Cristo, se non fossero il card. A. Sodano, allora segretario di stato, o mons. S. Dziwisz, segretario personale di Giovanni Paolo II, che intervenivano per fermare i dossier. Dziwisz come il card. Rodè della congregazione dei religiosi facevano fatica a credere a denunce verso persone che sembravano difendere il papa e la buona dottrina».
Per oltre un decennio p. Marie-Dominique fu ricevuto dal papa ogni anno con i suoi novizi e mantenne, per una dispensa del tutto eccezionale, l’appartenenza all’ordine domenicano nonostante fosse fondatore e superiore generale di una nuova congregazione. Giocando sul suo ruolo di fondatore e di superiore (fino al 2001), sul consenso delle istanze vaticane, sull’assoluta devozione dei suoi e sull’appartenenza formale ai domenicani agì indisturbato.
Solo dopo la sua morte (2006) nel capitolo generale del 2013 si ammettono le gravi manchevolezze del fondatore. In una lettera della Congregazione dei religiosi del 2016 si indicano alle sue congregazioni i passi da fare per superare gli scandali del passato e si fa riferimento all’ambigua teorizzazione sull’ «amore di amicizia» che riprende le pretese gnostiche e pseudo-misticheggianti del fratello. Richiamando l’evangelista Giovanni e l’etica di Aristotele p. Philippe ha «come caratteristica di implicare due tipi di esperienza: interna ed esterna».
Facile immaginare come l’esperienza esterna possa diventare esperienza fisica in contesti dove il potere, il narcisismo e una comunicazione non libera impediscono di svelarne l’ambiguità, coprendo lo scandalo. Quella dei due fratelli Philippe è una storia emblematica per alcune delle pagine più oscure della nostra Chiesa.