Non ci sentiamo più «esperti in umanità» come proclamava Paolo VI alla fine del concilio e con l’enciclica Populorum progressio (1967), siamo solo dei servi e delle serve, ricostruttori dalle rovine: è quanto scriveva sr. Veronique Margron tre anni fa, davanti alle denunce degli abusi. Presidente della Conferenza dei religiosi e religiose di Francia ha ricevuto, assieme al presidente della Conferenza episcopale, mons. Eric de Moulins-Beaufort, il Rapporto prodotto dalla Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa (Ciase) dalle mani di Jean-Marc Sauvé il 5 ottobre scorso.
Teologa e psicologa, da sempre in prima linea contro le violenze sessuali nella Chiesa, sembrava schiacciata delle 2.500 pagine del documento. Con la voce rotta dall’emozione ha detto: «Com’è possibile commentare positivamente un disastro? Cosa dire se non provare un infinito dolore, una vergogna nella carne, un’indignazione assoluta?… È necessario il silenzio nel più profondo di sé per raccogliersi davanti a ogni vita spinta nell’abisso, davanti a crimini massicci commessi nella Chiesa, nella mia Chiesa. Davanti a un popolo sbriciolato dalla violenza dell’effrazione».
Un mare di vittime
I dati del Rapporto sono noti. La stima prudenziale è di 216.000 vittime nell’arco temporale dal 1950 al 2020. Esse sono 330.000 se si comprendono anche i laici collaboratori nelle istituzioni cattoliche. I sacerdoti predatori sono stimati fra 2.900 e 3.200, su un insieme che, nel periodo, ammonta a 150.000 preti. Il 3%. Fuori del cerchio familiare e amicale, quel 3% che, nella letteratura scientifica su altri paesi può arrivare al 5-7%, costituisce l’ambito dove le vittime sono più elevate rispetto alle altre istituzioni pubbliche (colonie, scuole, sport ecc.). Ad ogni predatore corrispondono 63 vittime. Sul piano dell’intero paese si stimano in 5.500.000 le vittime di violenza sessuali fra minori e adulti vulnerabili.
La commissione è partita nel novembre del 2018. Composta da 22 commissari nominati direttamente dal presidente Sauvé, nessuno dei quali era prete o vittima, ha lavorato per oltre 30 mesi a titolo volontario, per 26.000 ore di lavoro. Quattro le sottocommissioni.
Tre i filoni maggiori.
Il primo è stato l’approccio diretto alle vittime: una linea telefonica a loro dedicata, l’audizione in seduta comune o con almeno tre commissari di esperti e di vittime (circa 200), con un tour in 14 città, fra le principali del paese.
Il secondo filone ha interessato gli archivi, sia ecclesiastici (diocesi e congregazioni religiose, maschili e femminili) sia laici (tribunali, polizia, istituzioni collegate).
Il terzo: una vasta indagine sociologica su un campione di 30.000 persone distribuite in tutto il paese. Il costo complessivo: circa 3,5 milioni di euro. Il frutto: un Rapporto di 546 pagine e 2.000 pagine di annessi, in particolare le testimonianze.
Declinare l’abuso
I 70 anni oggetto di indagine sono stati distribuiti in tre periodi: 1950-1970; 1970-1990, 1990-2020.
Nel primo ventennio il fenomeno è massiccio, nel secondo si registra una diminuzione, nel terzo una piccola crescita, dovuta a una maggior possibilità di denuncia.
Le configurazioni più comuni sono: l’abuso in parrocchia, nella scuola, nella famiglia, nell’ambito educativo. Più recenti: l’abuso terapeutico e l’abuso carismatico o profetico.
Prima del concilio, il fenomeno è sotterraneo, ma rappresenta il 55,9% dell’intero periodo in esame. Gestito per intero all’interno della Chiesa, è caratterizzato dal silenzio, da una totale disattenzione verso le vittime e da censure canoniche che non raggiungono il 10% dei casi denunciati. La preoccupazione era la protezione dell’istituzione ecclesiastica e l’occultamento della vittime. La prassi comune era lo spostamento dei predatori.
Fra il ’70 e ’90 una crisi radicale fra il clero sposta le attenzioni e il fenomeno della violenza sessuale decresce vistosamente: il 22,1% delle vittime del settantennio considerato. Sono gli anni del rinnovamento conciliare, di profonde mutazioni sociali, di crescita della figura femminile e dell’attenzione ai bambini e ai ragazzi. «Ogni tentativo di mettere in relazione le violenze sessuali a quest’epoca della Chiesa cattolica con la permissività dello spirito del maggio ’68 non regge» (par. 0276). Le vittime sono ancora tenute in disparte, mentre a livello sociale cresce il riconoscimento a loro dovuto. Gli aggressori individuati sono invitati a curarsi in istituti interni.
Nel trentennio successivo le vittime si attestano sul 22% del totale, con circa 47.500 minori colpiti, mentre sono in forte crescita i processi penali. A partire dagli anni ’90 c’è una progressiva revisione dell’atteggiamento della Chiesa cattolica. Le vittime entrano nelle pratiche relative agli abusi, ma non è data loro parola fino al 2010. Dal 2000 la Chiesa è via via sollecitata da Roma a porre attenzione ai fatti. Il riconoscimento del ruolo centrale delle vittime comincia nel 2010. Prendono forma le prime associazioni di quanti hanno conosciuto la violenza dei chierici. «Se la sofferenza delle persone ferite non è riconosciuta nel suo giusto posto, o ignorata, il rischio è di attutire le responsabilità individuali e quelle istituzionali» (par. 0798).
Non casi, ma sistema
I numeri e le tendenze accennati convincono la Commissione ad affermare che la violenza sessuale è un fatto sistemico nella Chiesa. «Come si è visto, l’analisi porta a qualificare i fatti osservati dalla Commissione non senza una qualche severità: il carattere sistemico del fenomeno studiato dalla Ciase, già evidenziato, non è in dubbio perché, pur percependo segnali chiari, i responsabili della Chiesa cattolica non hanno saputo o voluto guardare in faccia ai problemi, prevenirli e trattarli con il vigore richiesto. È importante aprirsi alla ricerca delle cause del fenomeno.
Chiedendosi come si è potuto arrivare lì, la Commissione, senza evitare di collocare i fatti nel contesto delle epoche interessate, ha approfondito il suo studio su due serie di elementi specifici per la Chiesa cattolica. Da una parte, il diritto canonico e la sua sostanziale inadeguatezza rispetto al trattamento delle violenze sessuali commessi dai chierici. In secondo luogo, e in termini più radicali, la rimozione, gli snaturamenti e le perversioni facilitati dalla dottrina e dall’insegnamento della Chiesa cattolica, suscettibili di aver favorito violenze sessuali» (par. 0644).
La Chiesa «deve addossarsi una responsabilità ad un tempo individuale e sistemica. Misure di giustizia riparativa devono trovare posto nella procedura penale, mentre non è necessario allungare la prescrizione. La Chiesa deve mettere in opera una procedura di riconoscimento delle violenze commesse, anche quelle prescritte, e indennizzare i danni provocati. La governance della Chiesa deve essere riorganizzata per diventare più pluralista e contenere i rischi di abuso di potere. Il percorso formativo è una leva privilegiata e da mobilitare per la prevenzione» (par. 0082).
Da vittime a testimoni
Nel corso dei lavori la Commissione ha fatto esperienza della necessaria centralità delle vittime. Per capire bisogna ascoltarle. «Nel corso dei mesi si è progressivamente imposta una convinzione: le vittime hanno un sapere unico sulle violenze sessuali e solo loro possono condurci a diffonderlo. Non era più solamente un’inchiesta, la cura o la denuncia alle autorità giudiziarie, ma una questione di empatia e di comprensione profonda del nostro mandato. Le persone era vittime. Sono diventate testimoni e, in tal senso, attrici della verità. È grazie a loro che il Rapporto è stato pensato e scritto. È stato fatto per loro oltre che per i nostri mandanti. Su questo scambio singolare e impalpabile è stato costruito, senza che questo non fosse chiaramente pensato fin dall’inizio» (par 0012).
Senza le vittime, «senza la loro parola, la nostra società sarebbe ancora nell’ignoranza o nella negazione di quanto è successo» (par 0013).
Lo spostamento di attenzione dal fatto e dall’imputato alla vittima e alle sue esigenze è il cuore della giustizia riparativa che si può esprimere in molti modi. Essa «a differenza della giustizia penale che è centrata sulla condanna del colpevole, mette al centro delle preoccupazioni la vittima e la riparazione dei torti che ha ricevuto. Là dove la giustizia penale ha per obiettivo di reprimere le infrazioni e punire i colpevoli, la giustizia restaurativa persegue il riconoscimento delle persone vittime e la riparazione del danno ricevuto piuttosto che la punizione dell’infrazione.
Mentre il diritto è largamente costruito attorno ad attese circa l’avere e non risponde alle attese della persona che attraverso indennità, le violenze sessuali che toccano l’intimo delle vittime non possono limitarsi a questo tipo di riparazione. Esse producono un blocco esistenziale, impediscono la creazione di legami con altri, di costituirsi come soggetto libero. Una capacità che, una volta perduta, non può essere ricostruita se non grazie a una forma di giustizia che tende, attraverso il riconoscimento, a ricostruire questa capacità di essere e di creare relazioni».
L’approccio permette di affrontare delitti che sono ormai in prescrizione e che difficilmente darebbero modo alle vittime di produrre prove e testimoni, mentre favorirebbero la parola nei confronti dell’istituzione ecclesiastica. Gli indennizzi non sono uniformabili, ma vanno calibrati sulle singole esigenze. Anche il perdono entra nel processo, senza forzature sia verso le vittime, sia verso gli attori e la Chiesa.
Le suore
Fra gli elementi meno sottolineati nella ripresa dei media vi sono gli abusi alle suore, in particolare nelle nuove fondazioni, e i temi propriamente ecclesiologici e teologici.
La violenza contro le suore è ancora sottotraccia. Esse appaiono fra i 151 adulti che hanno risposto all’appello della Ciase. Fra di essi il 21% sono uomini e il 79% donne. Fra queste 32 sono suore. Il numero è piccolo ma la Commissione lo segnala come indicativo di un fenomeno da approfondire. Questi abusi si collocano in un continuum proprio al funzionamento di alcune comunità, in cui si denunciano più che violenze sessuali, pressioni improprie d’altro tipo: autoritarismo, abusi spirituali e di confidenza.
I racconti rimandano a comunità che si caratterizzano da scarsi rapporti con l’esterno, dalla sorveglianza delle letture, dal controllo della corrispondenza, dal silenzio imposto. Le visite mediche, le consulenze psicologiche sono affidate solo a medici amici. L’obbedienza è spinta all’estremo. L’asimmetria rispetto alle comunità maschili è molto evidente.
Il periodo iniziale che segna un drastico cambiamento negli stili di vita (vestito, orari, sonno, cibo, hobby ecc.) è quello più delicato. Vi sono momenti di grande turbamento in cui la giovane è particolarmente esposta.
Succede che gli abusi subiti sono a lungo rimossi e, quando emergono, si colpevolizza l’interessata per non averli denunciati prima. Per alcune è difficile identificare subito l’abuso, per scarsità di esperienza. Parlare significa anche esporsi all’accusa di comportamenti seduttivi. Col pericolo di essere rimandate “al secolo”.
Le più adulte vivono questa possibilità come molto pericolosa non avendo né professionalità, ne rapporti amicali e talora anche scarsi contatti familiari. È molto raro che l’aggressore venga punito. E la denuncia comporta un isolamento totale nella comunità. Per la vita di fede l’esperienza dell’abuso è un terremoto. Si sfibra la preghiera e il rapporto con Dio che invece sarebbe un’importante risorsa di guarigione.
Tutto questo è particolarmente grave nelle nuove fondazioni dove si registra una forma di abuso chiamato “profetico” o “carismatico”. La forma settaria dell’identità condivisa, l’assenza di distinzione fra foro interno e foro esterno, l’autorevolezza della fondatrice o del fondatore, la rottura programmata con la vita precedente, l’aura mitica di un carisma nuovo, la teologia giustificatoria convergono nel favorire l’abuso.
In persona Christi capitis
Più volte nel Rapporto si conferma la volontà della Commissione di non porsi “sopra” la Chiesa, di non pretendere di indirizzarne la teologia. Non è casuale l’assenza di indicazioni circa la rimozione del celibato ecclesiastico o l’affermazione di un diritto delle donne ai ministeri istituiti. I riferimenti al magistero di papa Francesco (in particolare sugli abusi) sono sempre positivi. La Ciase è entrata sul terreno teologico solo per alcuni aspetti direttamente afferenti alla questione degli abusi, in particolare sui minori.
All’interno della teologia del ministero si sottolinea il pericolo di un’enfasi impropria, di una collocazione di assoluta priorità sulla comunità. Un’eccessiva identificazione con il Cristo favorisce derive deleterie verso un incontrollabile potere sacrale. Delle tradizionali formule alter Christus, ipse Christus, in persona Christi capitis, la terza resiste meglio alle possibili manipolazioni.
Il celibato non va enfatizzato come qualità sovrumana. In questo contesto la Commissione chiede di valorizzare quanto è stato sottolineato nel sinodo sull’Amazzonia: la possibilità dei viri probati. Uomini sposati come preti avrebbero la funzione di meglio calibrare la prassi pastorale. Nella quarta raccomandazione delle 45 proposte si dice:
«– identificare le esigenze etiche del celibato consacrato in rapporto specialmente all’immagine del prete e il rischio di conferirgli una posizione eroica o dominante;
– valutare per la Chiesa in Francia le prospettive aperte nel sinodo sull’Amazzonia, in particolare la domanda che ad experimentum siano ordinati preti uomini sposati che rispondano alle condizioni richieste da san Paolo ai pastori nella prima lettera a Timoteo».
Molto più severo il giudizio su teologie, come quelle già sotto indagine ecclesiastica, proposte dai fratelli Thomas e Marie-Dominique Philippe che, teorizzando un «amore di amicizia», in relazione all’unione mistica di Cristo con la Chiesa, hanno giustificato in diverse comunità e fondatori pratiche sessuali condannabili.
Sei delle raccomandazioni riguardano le sollecitazioni a modifiche nel diritto canonico: da una più precisa definizione delle forme di abuso alla raccolta delle sentenze, rese anonime, in vista di facilitare il compito dei giudici; dall’istituzione di un apposito tribunale a livello nazionale o delle regioni ecclesiastiche alla diffusione della pratica di collaborazione con la procura della Repubblica.
Fra i suggerimenti per un processo giusto vi è il riconoscimento delle vittime come parte necessaria al giudizio, procedure che prevedano l’efficacia sanzionatoria, una figura “altra” dal vescovo come responsabile del tribunale, prassi rispettose dei diritti di tutti gli interessati, aggressori compresi.
La confessione e i comandamenti
Un tema delicato è quello del segreto confessionale che la Commissione auspica venga tolto sul caso specifico degli abusi (sia per l’abusante come per la vittima). Il confessore sia tenuto come tutti a denunciare i fatti.
Nella raccomandazione (n. 43) si dice: «Trasmettere, da parte delle autorità della Chiesa, un messaggio chiaro ai confessori e ai fedeli indicante che il segreto della confessione non può derogare dall’obbligo del diritto divino naturale di protezione della vita e della dignità della persona, dal segnalare alle autorità giudiziarie e amministrative i casi di violenza sessuale inflitti a un minore o a una persona vulnerabile».
In parallelo, si chiede che il Codice di diritto canonico come il Catechismo della Chiesa cattolica spostino il riferimento degli abusi dal sesto comandamento (Non commettere atti impuri) al quinto (Non uccidere). La collocazione sulla difesa della vita è più coerente con la devastazione della vita della vittima che l’atto abusante pone in essere.
La riflessione teologica più recente ha relativizzato il riferimento ai comandamenti, integrandoli in un percorso complessivo della Scrittura (Commissione biblica, Bibbia e morale, 2008) e con un’ottica antropologica meno normativa (Commissione biblica, Che cosa è l’uomo? Un itinerario di antropologia biblica, 2019). Questo non toglie la pertinenza della richiesta della Ciase.
Termino con una citazione, fra le molte che il Rapporto riporta: «Quando si è violentati o abusati non è interessata una sola parte del corpo. Si prende tutto, anche l’anima. Non potevo più rintanarmi in una parte del corpo poiché c’era stata violenza sulla mia anima, sul mio corpo, sulla mia coscienza, sul mio spirito».
Voi non siete normali, periodo di penitenza??? D’accordo, non avete assoluta percezione della gravità. Avete idea del futuro che le vittime hanno avuto dopo gli abusi? La chiesa mi disgusta, spero si arrivi alla vendita del vaticano.
Sono pienamente d’accordo con Pietro sull’indire pubblicamente un periodo di penitenza, ciò favorirebbe una presa di coscienza da parte dei chierici e di tutto il popolo credente.
Bisogna mettersi un sacco addosso, cospargersi di capo il cenere e fare penitenza come gli abitanti di Ninive.
“I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli.”
Ma noi abbiamo la reale percezione della gravità dell’accaduto e l’irrecuperabile danno reputazione che ne scaturisce?
Perchè la chiesa cattolica non indice pubblicamente un periodo di penitenza per il grande male fatto dai suoi membri?
Io sono disgustato.