«È vergognoso che un leader religioso metta in dubbio la fede di una persona» – così l’allora candidato presidente Donald Trump in risposta alla “scomunica” del papa: «Una persona che pensa solo a fare muri, chiunque sia, e non ponti, non è cristiana».
Da quel maggio 2016 ad oggi, ciò che poteva sembrare improbabile è divenuto realtà: con grande sostegno della destra religiosa del suo paese, il miliardario Trump è divenuto il 45° presidente degli Stati Uniti d’America e i cantieri al confine col Messico si sono aperti. Sembra dunque che la giaculatoria stampata su ogni dollaro lo abbia assistito: «In God we trust» («Noi confidiamo in Dio»). E tuttavia una domanda rimane ancora senza risposta: a cosa crede Donald Trump?
Nella comunità presbiteriana
Se ci si mette sulle tracce della sua formazione religiosa, si incontra il celebre pastore presbiteriano Norman Vincent Peale, autore del libro di successo The Power of Positive Thinking (La forza del pensiero positivo). I genitori di Trump appartenevano alla comunità presbiteriana guidata da Peale a New York City, nella quale anche il giovane Donald ricevette la confermazione.
Lo scorso anno, intervistato da un giornalista della radio locale di Rochenster (WHAM), su quale fosse il suo passo biblico preferito: «Occhio per occhio» – rispose il candidato presidente, lanciandosi immediatamente in una formidabile esegesi della sentenza tratta «dal libro di Mosè nell’Antico Testamento». Che i radioascoltatori non dimentichino – ha ricordato il “novello pastore” – che questa regola indica il criterio da seguire anche nel rapporto con gli «altri paesi che ci deridono … ci rubano il nostro lavoro, i nostri soldi, il nostro benessere». Davanti a queste minacce, «dobbiamo essere molto forti e, in questo, possiamo imparare molto dalla Bibbia».
In un’intervista televisiva rilasciata la scorsa estate, e molto citata, Trump ha innocentemente confessato: «Non sono sicuro, se io abbia mai chiesto a Dio di perdonarmi». Probabilmente una qualche forma di intesa con Dio potrebbe avvenire quando, occasionalmente, frequenta il servizio domenicale e così «bevo un po’ del mio vino e mangio il mio piccolo biscotto» («I drink my little wine and eat my little cracker»).
Sul fronte del rapporto fra religione e società, Trump si sta mostrando del tutto contrario a una netta separazione fra Stato e Chiesa, in linea con la posizione della destra evangelica americana. Il primo bastione da abbattere, in tal senso, è il cosiddetto Johnson Amendmen, che dal 1954 proibisce alle Chiese, in quanto organizzazioni esenti dalla tassazione, sia di partecipare direttamente in campagne elettorali, sia di fare propaganda indiretta per l’uno o per l’altro candidato.
E, da ultimo, nonostante la sua predilezione per l’Antico Testamento, pare che la fede nella difesa dei confini nazionali abbia la meglio persino sull’invito biblico ad ospitare lo straniero («Ricordati che anche tu sei stato straniero in terra d’Egitto»), come mostra la stretta sull’immigrazione rivolta a sette paesi a maggioranza musulmana.
Due mondi
Quell’America che per cultura ama definirsi God’s own country (la terra di Dio) e che anche nel gergo politico ricorre sovente alla sentenza: «God Bless America» («Dio benedica l’America») – impensabile sulle labbra di un leader europeo – sembra dunque aver trovato in Donald Trump il profeta di un Dio nazionale anticotestamentario. Questo Trump ha fatto il suo ingresso in Vaticano lo scorso 24 maggio per l’udienza con il pontefice. Così, al rituale scambio dei doni, dopo i 29 minuti di colloquio privato fra il papa e Trump nella biblioteca pontificia, Bergoglio ha regalato al presidente i documenti del suo magistero (Evangelii gaudium, Amoris lætitia e Laudato si’), soffermandosi (in maniera inusuale) a spiegare l’ulivo inciso sulla medaglia del suo pontificato, corredato da una copia del suo Messaggio per la giornata della pace 2017, che – come è noto – è dedicato al tema della nonviolenza. «Abbiamo bisogno di pace», gli ha risposto di tutto punto il presidente.
Al di là delle molte speculazioni sul colloquio privato fra Bergoglio e Trump, che in questi giorni hanno riempito le colonne di molti giornali, una cosa è certa: nello studio papale si sono incontrati due mondi, due visioni di Dio, della politica e forse della stessa pace. Solo il tempo dirà se la battuta finale del presidente, nell’atto di essere congedato dal papa, sia stata più che una spontanea reazione di circostanza: «Non dimenticherò quello che mi ha detto».
Gianluca De Candia è borsista della von Humboldt Stiftung presso il Dipartimento di questioni filosofiche fondamentali della teologia dell’Università di Münster e collaboratore del direttore del Dipartimento prof. Klaus Müller.
Nessun commento