- Vi è una fantasma in Europa: la paura dell’islam. In particolare del fondamentalismo e della perdita di identità. Come giudicarla?
Vi sono evidentemente segni di una vigorosa ripresa del confronto fra mondo musulmano e mondo non musulmano. Anche se questa tipologia di ascrizioni è fortemente astratta, in molti discorsi e discussioni della maggioranza cristiana e secolare della popolazione il «musulmano» ha finito per diventare l’«altro» tout court, il «non-appartenente».
Questo va di pari passo con la ricerca di identità in un mondo globalizzato, nel quale l’ordinamento che poggiava su tradizioni trasmesse a livello familiare si è irrimediabilmente frantumato. Inoltre, nella nostra società capitalista ognuno deve rappresentare una marca.
Ognuno deve inventare se stesso e ascriversi un’identità. Tutto questo avviene, non da ultimo, mediante demarcazioni e delimitazioni. Il problema però è che queste identità sono virtuali. Quello che intendo dire è che un’identità forte deve essere storicamente radicata e avere a che fare con esperienze concrete, fatte sulla propria pelle, della sofferenza.
Nel capitalismo, invece, tutto – anche la storia – diventa una qualsivoglia marca completamente vuota, la cui mancanza di ogni contenuto viene mascherata attraverso luoghi comuni e slogan commerciali. In questo modo, costruiamo dei collettivi che si basano letteralmente sul nulla.
Slogan come islam, cristianesimo, nazione, e così via, sono sempre più svuotati, eppure è proprio questo vuoto che ci permette di proiettare su di essi qualsiasi cosa. È così che le marche ottengono la loro propria dinamica.
Per quanto riguarda l’islam vi è effettivamente un problema se i giovani musulmani, a motivo di esperienze di esclusione in quanto «altri», iniziano a prendere le distanze da quello che si presume distingua l’Occidente davanti all’islam stesso – come i diritti della donna, la democrazia, la libertà religiosa e così via.
Da distinguere, rispetto a ciò, è un reale pericolo politico posto da raggruppamenti islamisti – per lo più nell’orizzonte del wahhabismo saudita (e del Qatar), ossia la versione fondamentalista dell’islam. Molte moschee in Europa, e sempre più anche in Africa, sono infiltrate da predicatori afferenti al wahhabismo.
È un fatto che dovrebbe generare sdegno che i compagni politici dell’occidente siano proprio gli sponsor principali e i precursori ideologici di un islam violento.
Corano: ispirato perché fa storia
- Nel suo volume «Il tempo e Dio» (Queriniana, Brescia 2018) lei lancia una ipotesi di lavoro assai inconsueta: quella di considerare il Corano come ispirato. Non “opera del diavolo”, ma ispirato. In base a quali considerazioni?
Un passo biblico decisivo per questa prospettiva è il capitolo quinto degli Atti degli Apostoli: il saggio Gamaliele spiega chiaramente al sinedrio che per lui è insensato e sbagliato combattere il cristianesimo nascente. Se si tratta di un’opera umana, allora perirà come tutte le altre; ma se è qualcosa che viene da Dio, allora non può essere distrutto in alcun modo.
Detto altrimenti: Dio è un Dio della storia, e l’islam ha assunto sicuramente una dimensione storica, ossia contrassegna secoli e secoli di operare umano. Questo rilievo per la storia, teologicamente, non può essere spiegato sensatamente senza il volere di Dio (se si volesse contrassegnare l’islam come opera del diavolo si concederebbe troppo al diavolo stesso).
Ma se l’islam è parte del piano storico della salvezza di Dio, se esso si comprende come rivelazione e si rifà all’ebraismo e al cristianesimo (ossia alle religioni che hanno un testo sacro, la Bibbia), noi (la teologia) dobbiamo iniziare a chiedere quale significato teologico pertiene all’islam. Penso che, in questa prospettiva, il pontificato di Francesco sia profetico.
- Senza rinunciare ai suoi fondamenti trinitari e alla piena manifestazione di Dio-misericordia in Gesù, cosa può apportare il Corano alla comprensione di Dio oggi?
Come cristiani non si può rinunciare alla fede nel Dio trinitario. Al tempo stesso, però, bisogna aggiungere che anche noi cristiani crediamo al Dio uno e non siamo triteisti. In merito, non siamo responsabili solo davanti ai nostri fratelli ebrei (Gesù era un ebreo che credeva nell’unico Dio), ma la confessione di fede monoteista ci è richiesta anche davanti all’islam.
Da ultimo, la Trinità è una maniera vincolante di confessare l’espressione del nome biblico di Dio. Io credo in Gesù e nel fatto che in lui è presente la kabod di JHWH, la gloria del nome biblico di Dio. La comprensione, il significato del nome di Dio porta all’esperienza della misericordia di Dio. Gesù è la misericordia divenuta carne di Dio, presso cui dimora il nome di Dio (si veda il motivo biblico della shekhinah).
Ovviamente, tutto questo conduce alla domanda sul significato del Corano per i cristiani, poiché la rivelazione cristiana è conclusa in Gesù. Penso qui a due dimensioni possibili. In primo luogo, credo che il cristianesimo sia essenzialmente orientato all’alterità; questa rende l’«altro» che è musulmano (non nel senso di un nemico estraneo) prezioso. In secondo luogo, Dio pone dei limiti a una pretesa cristiana (ma anche musulmana) di totalità.
L’islam è sorto in un’epoca in cui il cristianesimo, da ultimo, era a servizio della volontà di potere bizantina e dove la croce era divenuta sempre più un simbolo di sottomissione dell’altro (non da ultimo, anche degli ebrei).
Nel cristianesimo l’essere umano ottiene una posizione privilegiata, ma in questo vi è sempre il pericolo dell’hybris, dell’auto-deificazione. Infatti, l’essere vincolati all’altro significa anche l’apprendimento di modestia e umiltà – che dovrebbero essere virtù di tutta la Chiesa e non solo dei suoi membri più deboli.
Verso un dialogo istituzionalizzato: cristianesimo, islam e mondo secolare
- Un dialogo teologico a questo livello cosa chiede ai sapienti islamici in ordine alla fissazione giuridica del testo e alla sua identificazione con un potere statale teocratico?
I sapienti islamici devono soprattutto tornare a imparare a leggere i loro testi senza pregiudizi – come lo devono fare i cristiani. Questo vuol dire rinunciare a una serie di idee, che non sono espresse nel Corano, come quelle che ebrei e cristiani avrebbero falsificato le loro scritture. Corano significa recitare: questo vuol dire che col Corano (come nella Bibbia) non entriamo in uno spazio che è la somma di dottrine catechistiche, ma in un paesaggio affettivo. Questo paesaggio è la parola di Dio della misericordia.
- Si può ipotizzare un parallelo fra Parola-carne in Gesù e Parola-libro nell’islam?
Nel passato, alcuni studiosi delle religioni hanno spesso equiparato Gesù e Maometto, ma la cosa non funziona neanche sul piano musulmano perché anche nel Corano a Gesù viene riconosciuto un ruolo particolare in quanto spirito di Allah (Sura 4,171).
Oggi i teologi e gli studiosi delle religioni comparano Gesù e il Corano, come parola di Dio divenuta carne, da un lato, e libro, dall’altro. A mio parere anche questo tentativo ha non pochi problemi. Io direi che Gesù è la parola della misericordia, ossia la misericordia di Dio. In questo, egli è il primo paraclito (aiuto e soccorso) nel quale vi è la creazione (si veda anche l’idea coranica di Gesù come Spirito, che ha un parallelo in Giovanni poiché anche qui Gesù è logos e paraclito).
Per quanto riguarda il Corano, lo riferirei allo Spirito Santo. Per i cristiani lo Spirito è colui nel quale la parola della creazione diviene leggibile, egli è il canone vivente, la Scrittura vivente che è molto di più che un mero oggetto del nostro studio.
Anche per i musulmani, nella recita del Corano, il mondo diventa percettibile e leggibile.
- Al dialogo dei responsabili ecclesiali e al dialogo della carità delle comunità cristiane si deve aggiungere il dialogo teologico all’interno delle facoltà teologiche? Pensa a una sorta di magistero dei teologi?
No, Dio ci protegga da un magistero della teologia. La teologia deve essere a servizio della Chiesa e anche della società; essa ha una funzione critica e ce l’ha anche e proprio davanti al magistero della Chiesa e alla società.
Se essa stessa avanzasse la pretesa di essere magistero, perderebbe questa sua funzione critica. Importante è che le teologie entrino in dialogo le une con le altre. Avremmo bisogno oggi di nuovo delle teologie alle università statali, anche in Italia, non per un’apologia della Chiesa, ma quale voce critica in una società che è sì secolare, ma che contiene e porta con sé anche mondi simbolici che intellettualmente non sono inferiori (e questo dovrebbero comprenderlo anche i secolari).
- Perché è lo stato liberale e in particolare quello europeo l’unico luogo in cui è possibile una ricerca di questo tipo?
Gli stati islamici sono, con poche eccezioni, o dittature repressive o democrazie tendenzialmente autoritarie. Si può ben dire che il cristianesimo con la sua visione della personalità ha rappresentato un aiuto che ha favorito la democrazia.
Si deve tuttavia aggiungere, che si è giunti a ciò contro un’opposizione ecclesiale massiccia, da un lato, e che, dall’altro, solo con il Vaticano II (che sarebbe stato impossibile senza l’esperienza della II Guerra mondiale) si è arrivati a un riconoscimento positivo della democrazia da parte della Chiesa cattolica.
In ogni caso, abbiamo bisogno di un quadro democratico e anche intellettuale affinché possa mettersi in moto un dialogo spirituale fra cristianesimo, islam e mondo secolare. Questo quadro è configurato, non da ultimo, attraverso l’università che, però, oggi si trova esposta a una forte pressione di stampo neoliberale.
L’Europa e la Chiesa, una nuova vocazione
Inoltre, occorre anche una statualità forte e funzionante. La base di una società democratica, in cui è possibile un dialogo istituzionalizzato fra mondi eterogenei, è lo stato democratico di diritto – che viene messo sempre di nuovo in questione (sia da sinistra che da destra).
L’Europa, che è nata dalle libere università e dallo stato sociale di diritto, ha qui una nuova vocazione come ce l’ha la Chiesa cattolica, che ha assommato una incredibile esperienza storica ed ermeneutica, al fine di portare avanti un dialogo anche con l’islam.
Mi auguro che il pontificato di papa Francesco duri ancora a lungo, perché egli è il volto di una Chiesa del dialogo.
Kurt Appel è direttore del Centro di ricerca “Religione e Trasformazione nella Società Contemporanea” presso l’Università di Vienna, dove dirige il Dipartimento per la ricerca sui fondamentali della teologia (Facoltà teologica cattolica). Per EDB ha pubblicato Apprezzare la morte. Cristianesimo e nuovo umanesimo (2015).