Lo scorso 3 gennaio, dalle pagine di SettimanaNews, ho potuto leggere l’interessante riflessione del prof. Giuseppe Lorizio (qui) e, successivamente, i preziosi contributi del prof. Massimo Naro e del vescovo di Noto, mons. Antonio Staglianò, a commento di quanto pubblicato da Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera circa la crisi attuale del cristianesimo e il presunto silenzio della Chiesa e dell’attuale pontefice.
Ho trattato il tema molte volte nella mia ricerca accademica, cercando di far emergere le chiavi di lettura offerte da grandi studiosi della secolarizzazione come Taylor e da alcuni dei grandi nomi della teologia del Novecento i quali, per la verità, non sono per niente convinti che l’arretramento sociale e la perdita di rilevanza politica della religione cristiana coincida esattamente con una vera e propria crisi della fede e della spiritualità. Al contrario, i migliori studi sul tema suggeriscono una lettura critico-teologica dell’attuale crisi, interpretandola come un «segno dei tempi» per la riscoperta della fede autentica: abbandonare finalmente una religiosità ridotta a cornice culturale e ad etica, per aprirsi a un vero incontro con Cristo e con il suo Vangelo.
Una premessa teologica
Stimolato a offrire un piccolo contributo al dibattito, farei anzitutto una premessa circa il rischio che i presupposti della riflessione restino imprigionati in una lettura socio-politica, dettata da uno sguardo «esterno», che si ferma all’apparenza del fenomeno senza interpretarlo teologicamente. Così, si dà un valore assoluto all’esito delle ricerche sociologiche sulla perdita di mordente del cristianesimo nella società e non si coglie, invece, le possibilità inedite che, proprio così si aprono per la rinascita della fede; infatti, mentre tramonta tutto un certo modo di essere cristiani (J.M.R. Tillard) e volge al declino un certo cattolicesimo convenzionale (A. Staglianò), ecco che si apre uno spazio inedito perché la fede rinasca in modo rinnovato e qualitativamente diverso.
Ciò, faceva dire al cardinal Martini che «forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero» (C.M. Martini, Avvenire 27 luglio 2008).
La domanda – anche in ordine alla nuova evangelizzazione e a come la si intende e la si enuncia – potrebbe essere formulata così: un regime di cristianità, che prevede una società almeno apparentemente orientata sui principi e sui valori cristiani e favorisce lo stretto connubio tra religione e spazi di rilevanza pubblica, sociale e politica, corrisponde realmente a una fede viva, consapevole, adulta, di persone che si lasciano inquietare e trasformare dal Vangelo diventando seme di rinnovamento nel mondo? O non è piuttosto, quel regime, ciò che spesso dietro a un’esteriorità esplicitamente religiosa ha neutralizzato e annacquato la profezia liberante del Vangelo e ha indotto a un cristianesimo ridotto a richiamo etico, a sporadiche pratiche religiose e a ritualità vissute per tradizione, per abitudine e per convenzione sociale?
La fine della cristianità come nuovo inizio
La riflessione teologica – e Lorizio ha giustamente citato Certau e Metz – si è soffermata sull’interrogativo a lungo. Mentre i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni hanno portato al tramonto di una specifica forma di esistenza cristiana nel mondo, caratterizzata da una sovrapposizione tra appartenenza alla Chiesa e alla società di matrice post-costantiniana, c’è chi ha intonato il lamento e continua a perseguire il nostalgico sogno all’indietro di una restaurazione, nella convinzione che la morte di questa religione civile e borghese sia la fine tout court della fede cristiana.
Di sottofondo c’è l’errata convinzione – sui cui ha insistito Severino Dianich – che una Chiesa capace di influenzare cristianamente l’assetto sociale, giuridico, istituzionale e di costume del mondo in cui vive, sarebbe capace di generare automaticamente una maggiore e più convinta adesione delle persone alla fede.
In realtà, è casomai vero il contrario: la stagione più fortunata di tutta la storia del Vangelo – afferma Dianich – è stata quella degli Apostoli, che hanno annunciato il Vangelo in un contesto completamente ostile e non si sono preoccupati di evangelizzare una generica cultura o di modificare l’assetto sociale e le istituzioni politiche quanto, invece, di depositare il seme della Parola nel cuore delle singole persone, nella convinzione che esso sarebbe germogliato e avrebbe generato credenti di cambiare anche la società. (cf. S. Dianich, «Le attese della Chiesa. Rileggendo l’Instrumentum Laboris», Il Regno-Attualità 2012/14, 436-437).
Letta in controluce, quest’analisi suggerisce un altro aspetto da non sottovalutare, se davvero non si vuole tacere la crisi del cristianesimo: una certa debolezza nell’annuncio del Vangelo, l’immobilismo dell’azione pastorale nel comodo criterio del «si è sempre fatto così» e la perdita di slancio missionario della comunità cristiana sono state dovute, almeno in parte, dall’illusoria sicurezza di trovarsi tutto sommato in un mondo «cristiano» e «religioso». Perciò, come afferma Giovanni Ferretti, da paese ospitale che era, la cristianità si è trasformata da paese ospitale a una prigione dalla quale Dio stesso ci chiede un «esodo», per approdare a una fede spoglia di riferimenti culturali e di rassicuranti appoggi sociali, e al contempo più autentica e centrata sul Vangelo.
Il servizio teologico per andare oltre la nostalgia
Naturalmente, la relazione tra fede e contesto storico-cultura è imprescindibile, e non tanto per ragioni di ordine pratico-organizzativo ma in virtù dell’incarnazione del Figlio di Dio. Tuttavia, è altrettanto necessario salvaguardare lo scarto esistente tra il Vangelo e la storia, cioè il fatto che nessuna epoca, nessuna società e nessuna istituzione umana è conforme al Vangelo in senso assoluto. Il cristianesimo resta «altro» o, per citare Dominique Collin, «non esiste ancora» rispetto alle nostre umane esperienze, anche quelle religiose ed ecclesiali. Se non salvaguardiamo questa differenza, la fede si riduce a cultura, la radicalità del Vangelo si riduce a etica e la carica critico-profetica del cristianesimo viene neutralizzata a vantaggio di una religione civile che diventa solo una cornice a sostegno dell’ordine sociale e politico, magari al fine di ottenerne privilegi e di accrescere la propria influenza e prestigio.
Questa prospettiva non è frutto di una visione o di una scelta di papa Francesco, ma affonda le sue radici in un’ampia produzione teologica che annovera fra gli altri anche Rahner con il suo «cristianesimo della diaspora», ma anche lo stesso Ratzinger citato da Della Loggia. Il teologo tedesco, sul finire degli anni Sessanta, affermava con coraggio che la crisi avrebbe fatto perdere molto alla Chiesa, l’avrebbe spogliata di edifici e privilegi sociali, l’avrebbe ridotta numericamente e, proprio grazie a queste perdite, essa avrebbe potuto riscoprirsi come una Chiesa libera, essenziale, ricentrata su Gesù Cristo. Alla fine di questo processo di crisi, annotava Ratzinger, sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che ha già fatto fallimento con Gobel, ma la Chiesa della fede» (J. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 2005, 117).
Da papa, Benedetto XVI è tornato brillantemente sul tema in un discorso tenuto in Germania nel 2011, nel quale afferma che proprio la secolarizzazione viene in aiuto alla riforma della Chiesa perché la libera dalle forme di mondanità: «Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo». Così – chiosava Benedetto – si depone ogni tattica umana e si vive la fede nella sobrietà, «togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine».
La tentazione di ritornare con nostalgia a un presunto tempo migliore e «cristiano», con l’intento malcelato di ritornare a Chiesa che diventa una potenza di questo mondo per ottenere influenza sociale e rilevanza pubblica, è sempre dietro l’angolo. E, anche in Italia, invoca la voce critica e illuminata di pastori e teologi.
La cosa più importante è un confronto libero. Quando ciascuno può parlare potranno anche emergere strafalcioni (ma quelli a cui è stato dato il potere di parlare non hanno portato al crollo questa società?) ma potranno venire aiuti e stimoli ad avvedersi della differenza tra il politically correct ed una sincera ricerca del vero.
A) l’etica è una cosa importante: prima di Costantino i cristiani non servivano nell’esercito. Oggi potrebbero distinguersi perché pagano le tasse, non cercano e non accettano raccomandazioni, pagano i contributi ai dipendenti, praticano l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, non discriminano omo e transessuali, si coordinano per aiutare una famiglia in difficoltà.
B) se l’obiettivo è contare la chiesa cattolica conta : 25mila insegnanti di religione scelti e revocabili discrezionalmente oltre cappellani in varie istituzioni pagati con l’erario, esenzioni fiscali, 8×1000 oltre le scelte effettuate, contributi pubblici ad iniziative sociali e culturali.
C) non capisco cosa si vuole: godere dei benefici del Concordato e passare per mistici e disinteressati?
Caro don Francesco, leggendo la sua interessante riflessione, due temi importanti attirano la mia attenzione: quello dell’attuale crisi del cristianesimo – del «cristianesimo borghese» ha scritto dal suo punto di vista Galli della Loggia, ai cui articoli apparsi sul “Corriere della Sera” nei giorni scorsi anche questo suo intervento offre qui una risposta di tenore teologico – e quello della tradizione. Attorno ai vari possibili sensi della crisi lei ragiona insistentemente; di tradizione in un veloce passaggio. In riferimento a entrambe – alla crisi e alla tradizione – ciò che lei scrive mi dà utilmente a pensare, ragion per cui sono qui a ringraziarla molto.
Vorrei proporre le mie risonanze alla sua riflessione, partendo innanzitutto dalla considerazione della tradizione, da lei opportunamente chiamata in causa sotto il suo profilo più deteriore e, anzi, deteriorato, con cui purtroppo facciamo i conti ai nostri giorni in ambito ecclesiale: la tradizione, cioè, ridotta a mera convenzione sociale (come avverte dal canto suo mons. Staglianò quando parla di cattolicesimo convenzionale, intercettando in questo la vera crisi odierna del cristianesimo e così riaprendo una questione trattata già a ridosso del fatidico Sessantotto da W.H. van de Pol, come ha ricordato don Pino Lorizio a sua volta).
A me viene da distinguere la tradizione dal tradizionalismo: la prima è non semplice istruzione dottrinale, bensì – per dirla con Congar – «una sorta di contagio» e si risolve in «comunicazione vivente», in una testimonianza «attrattiva», «a partire da modelli viventi e vissuti» (La Tradizione e le tradizioni: saggio teologico); il secondo è una mera concezione statica dell’altra. Mi pare una distinzione da sottolineare. Oggi i canali catechistici − che traducono in termini culturali correnti il profilo dottrinale della fede cristiana − sembrano non essere più né efficienti né efficaci. E anche i registri simbolici − liturgici e artistici − sembrano non avere più la loro antica capacità comunicativa, mentre l’indole testimoniale del cristianesimo rimane spesso sottotraccia, sepolta sotto le polemiche attorno alla sua (ir)rilevanza pubblica. L’appello conciliare al rinnovamento talvolta è stato disatteso e persino frainteso e ha portato a scelte pratiche nella liturgia, nella catechesi, nella pastorale che non sempre risultano congeniali alla trasmissione della fede. Per superare questa impasse non basta tentare il ritorno al passato. La trasmissione della fede non consiste nel restaurare il passato dogmatico, simbolico e spirituale del cristianesimo (non parlo del passato borghese), ma nell’attualizzarlo. La tradizione ecclesiale stessa non è una specie di museo, come papa Francesco dice spesso. Prima e più che uno scrigno contenente bellezze e simboli antichi, essa è un’azione vitale, tramite cui si realizza il rapporto fra le generazioni dei credenti. Essa è l’atto stesso del trasmettersi credente da una generazione all’altra. Ciò avviene veramente se la generazione che riceve il messaggio cristiano lo fa radicalmente proprio, apprendendolo di nuovo, senza limitarsi a replicare la comprensione che ne ebbe la generazione precedente e reinterpretandolo profondamente. Può valere, in tal senso, per la tradizione ecclesiale ciò che osservava Rémi Brague in un saggio del 1992 Europe, la voie romaine (tradotto in Italia per i tipi di Rusconi nel 1998 col titolo: Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa): il sentimento di «secondarietà» che Roma ebbe nei confronti della Grecia, cioè la sua consapevolezza d’esser debitrice rispetto al patrimonio culturale greco, le permise di «trasmettere, senza interromperla, ma ricollocandosi al suo interno, una corrente venuta da più in alto».
C’è difatti, anche nella tradizione ecclesiale, un sottofondo di continuità: è il vangelo di Cristo ad essere di volta in volta ricevuto e trasmesso; è lo Spirito che pervade quell’unico vangelo a prolungare la sua eco lungo i secoli. Ma c’è pure l’irrompere della discontinuità: quel vangelo eterno dev’essere ascoltato con l’orecchio dell’epoca in cui esso va risuonando. Questa irrinunciabile novità è la conversione cui tutte le generazioni cristiane sono chiamate, quell’intimo cambiamento spirituale che porta i credenti a immedesimarsi nel Cristo annunciato dai vangeli, finendo perciò per incarnarne a loro volta l’avventura e diventando altrettanti “evangeli”. La fede è veramente tale se è creduta, cioè se è vissuta in personale responsabilità: all’oggettività della fede deve corrispondere la soggettualità del credente. Cristiani non si nasce ma si diventa, affermava nel III secolo Tertulliano.
Il rimando a Brague può aiutarci a passare all’altro tema, quello della crisi. Rileggendo le pagine del pensatore francese sembra d’intravedere una certa affinità tra l’odierna situazione e il crollo dell’impero romano: in entrambi i casi c’è in gioco un epocale mutamento di scenario. Oggi, però, anche i cristiani sono travolti dalla crisi: non soltanto perché la cultura cristiana è fortemente osteggiata, ma molto più perché il cristianesimo stesso ha cessato – nella modernità più avanzata (più invecchiata) – di farsi cultura, finendo anzi per separarsi dalla cultura. La iattura consiste nel tenore esclusivamente dottrinale della fede in età moderna, corazzata ma anche cristallizzata dentro il suo apparato di volta in volta apologetico, canonistico, casistico, rubricistico, a scapito del suo carattere pratico ed esistenziale che solo può davvero motivare dall’interno l’esperienza credente. In ciò sta la crisi, che pure il cristianesimo ormai subisce senza più riuscire a offrire sostegno alla cultura occidentale, la quale – non innervata dalla fede – si deteriora sino a sfaldarsi completamente, trascinandolo con sé nel fallimento: un micidiale circolo vizioso.
Da cui, tuttavia, si può scampare se si recupera il senso “critico” che mi pare costitutivo della stessa fede cristiana. Difatti, la crisi sta tra i cromosomi del cristianesimo, giacché esso fu – già duemila anni fa – non semplicemente spettatore ma causa del tramonto dell’evo antico (mi pare questo testimoni, a leggerlo bene, un documento come lo Scritto a Diogneto). Da quel momento la crisi non ha più finito di travagliare il cristianesimo stesso e la sua storia – e la storia d’Europa, in cui il cristianesimo s’è radicato –, causando un susseguirsi incalzante di autunni e di primavere: pensiamo a ciò che Benedetto da Norcia o Francesco d’Assisi o Domenico di Guzman rappresentarono per l’Europa lungo tutto il medioevo; pensiamo a ciò che Caterina da Siena significò per il papato un po’ dopo il sorgere degli ordini mendicanti; pensiamo a ciò che accadde in Europa con la riforma protestante e con quella cattolica. La fede cristiana può entrare in crisi, certamente. L’epoca della secolarizzazione ce lo dice in faccia senza pudore. Ma anch’essa – la fede cristiana – è motivo di crisi, deve continuamente mettere in crisi il mondo e i sistemi sociali in cui viene vissuta. La fede, perciò, non soltanto viene messa in crisi o non soltanto può essere l’antidoto alla crisi attuale, ma anche e soprattutto dev’essere crisi essa stessa: un’altra crisi, una crisi-altra. Se non mette in crisi i soggetti (individuali e comunitari) che la professano, se non causa crisi, se non induce cioè al discernimento anche spirituale della realtà e di ogni suo ambito, essa non è più quello che fu agli inizi. E smette di essere motore della storia, produttrice di cose nuove.
Grazie caro don Massimo per questo ulteriore commento e contributo. Naturalmente, poiché quando scriviamo in ambiti come questi non possiamo sviscerare teologicamente i diversi aspetti di una questione, ho dato per presupposto la distinzione tra Tradizione e tradizioni, utilizzando il secondo termini. E, anche qui, le stesse tradizioni sono importanti nella misura in cui non si cristallizzano in memorie morte, nostalgiche e immobili, ma diventano memorie vive e creative, capaci di trasmettere e generare. Sul resto, concordo pienamente.
dove si possono trovare i preziosi contributi del prof. Massimo Naro e del vescovo di Noto, mons. Antonio Staglianò?
È realmente una sfida interessante ripensarsi e riposizionare il dialogo con il mondo laico e, direi, perfino all’interno anche dello stesso. Proprio oggi, quando negli USA si consuma il rischio di un colpo di stato, emerge come ci troviamo in un tempo quanto mai opportuno per comprendere che non è la conquista del potere la strada per la promozione e l’affermazione dei valori. Le sfide del tempo presente mettono evidentemente in fuori gioco i sovranismi che, dietro una parvenza di attaccamento all’identità e alla tradizione, in realtà si nutrono di nichilismo. Sta a ciascuno di noi scegliere se lavorare alla costruzione di un mondo nuovo alla sua alba, oppure sprecare la propria vita a rimpiangere quello che non c’è più.