Il “Santo Calice” o “Santo Graal” conservato nella cattedrale spagnola di Valencia è realmente quello usato da Gesù nell’Ultima Cena, oppure si tratta di una fatto leggendario, come hanno sempre sostenuti alcuni?
Fin dall’inizio del cristianesimo i fedeli si sono chiesti dove fosse conservato. Secondo la tradizione, sarebbe stato custodito e usato dagli Apostoli e successivamente, attraverso Antiochia e Roma, sarebbe giunto in Spagna.
I risultati di una ricerca
La ricercatrice spagnola Ana Mafé García è sicura al 99,9% che il calice di Valencia – “Santo Cáliz” come è chiamato in Spagna – è quello autentico utilizzato da Gesù. La ricerca, secondo la scienziata spagnola, dopo secoli di infinite indagini, sarebbe ora terminata nella città del Turia (fiume di Valencia). Così sostiene questa dottoressa di storia dell’arte dell’università di Valencia nella sua tesi di dottorato presentata il 27 febbraio scorso, in cui spiega anche la metodologia seguita, che è quella iconografica.
Mafé ha sostenuto il risultato delle sue ricerche basandolo su prove documentali e scientifiche, partendo dallo studio realizzato negli anni ’60 dal cronista Antonio Beltán, «il quale – sottolinea la ricercatrice – dice delle cose che si sono perpetuate e sono state costatate dal resto dei ricercatori venuti in contatto fino ad oggi con il calice».
La prima di queste è la struttura della coppa che, per la sua forma, è databile al I o II secolo prima di Cristo. «Avevamo chiaro “il quando”, ma non “il dove”; ci mancava il suo documento di identità», ha affermato Mafé.
La seconda prova è stata fornita dallo studio volumetrico, da cui risultò che il calice ha una capacità di “due reviits e mezzo”. Ciò significa che la coppa è fatta secondo misure ebraiche ad hoc. Trattandosi di una coppa ebraica «contemporanea all’epoca di Erode», la datazione la colloca nel periodo del secondo tempio di Gerusalemme, quello costruito nel 515 a. C. e notevolmente ampliato dal re Erode una ventina d’anni prima di Cristo.
È una coppa usata dagli ebrei
«Quelli di noi che hanno avuto la fortuna di recarsi a Gerusalemme sanno che, quando si va nei musei e si chiede di vedere gli oggetti del secondo tempio, ti indicano le basi di quello che è il tempio attuale, per il resto non rimane nulla. Abbiamo la fortuna – afferma Ana Mafé – di avere a Valenza un reperto archeologico di duemila anni fa, legato alla cultura ebraica».
«A Gerusalemme, consultando esperti in materia, abbiamo scoperto dei dati finora sconosciuti. Un esempio è il fatto che il “Santo Calice” è una vera coppa ebraica, che mai prima era stata catalogata come tale. Analizzando il materiale lapideo, abbiamo osservato che è fatto di una pietra catalogata nell’antichità come sardius (= corniola), rappresentativa della tribù di Giuda a cui apparteneva Gesù di Nazaret», afferma la ricercatrice.
Un altro dato riguarda una nuova lettura della scritta al piede della coppa di Valencia. Attraverso un triangolo posto alla base dell’epigrafia, siamo riusciti a risolvere un messaggio rimasto finora criptato: «si allude a Gesù nel suo nome ebraico, in base all’idioma ebraico e a quello arabo aljamiado» (scrittura in alfabeto arabo delle lingue romanze parlate in Andalusia nel periodo del dominio arabo, ndr). Per i risultati ottenuti, Ana Mafé ha voluto utilizzare anche la regola di Laplace, un barometro scientifico delle probabilità, riguardante i problemi tecnici a cui il “Santo Graal” avrebbe dovuto corrispondere secondo le prescrizioni giudaiche del I secolo e la tradizione a ciascuna delle presunte coppe che sono state sottoposte a questa prova.
Ambientato così, il calice di Valencia corrisponde al 99,9% dei requisiti, mentre, per esempio, la percentuale del calice della signora Urraca di León corrisponde solo al 33%. «Questa è solo una regola matematica delle probabilità, la mia metodologia è l’iconografia, quella della storia dell’arte», ha sottolineato la ricercatrice.
«Se prendiamo il Vangelo, la fonte primitiva testuale che parla di questo calice, e lo accostiamo ai documenti oggettivi che ci vengono trasmessi dallo studio della pietra del Santo Calice, troviamo che tutto coincide: è ebreo, parla della regola dell’amore, parla della tribù di Giuda. Se abbiniamo questi elementi, afferma Ana Mafé, vediamo che la percentuale aumenta fino al 99,9% delle probabilità che considerano il calice di Valencia come il Santo Graal dell’Ultima Cena».
Mafé ha spiegato anche che è la prima volta che il Santo Calice valenziano viene catalogato come “kos Kidhhs Esther – 2018 Valencia”, per cui, se si trovasse un altro pezzo simile, «potremmo ora prenderlo come punto di paragone». Lo studio certifica così che è l’unica coppa di quel periodo conservata intera in tutto il mondo.
La Mafé ha presentato il suo lavoro alla presenza della studiosa italiana Angela Di Curzio, esperta delle catacombe dei santi Marcellino e Pietro di Roma, di María Gómez Rodrigo, professoressa dell’Università di Valencia, e di Juan Miguel Diaz Rodelas, prete custode del calice valenciano, il quale si augura – per usare le parole della Mafé – che lo studio «contribuisca a rafforzare le fede in questi momenti di seria difficoltà che sta attraversando la Chiesa» (da ABC).