Carissime sorelle e carissimi fratelli in Cristo,
è trascorso ormai più di un mese dalla mia ordinazione e dal mio ingresso quale arcivescovo di Torino. Durante questo tempo, ho intrapreso il mio nuovo ministero, fatto per lo più di ascolto e di incontri personali, di visite a diverse realtà ecclesiali, di impegni istituzionali…
Tra le attività più significative di questi miei primi passi nel servizio episcopale vanno certamente annoverate lo svolgimento dell’ultimo consiglio presbiterale e dell’ultimo consiglio pastorale diocesano dell’anno. Nell’uno come nell’altro caso, ho cercato di pormi in ascolto di quelle che in entrambi i consessi sono apparse come le «sfide» più impellenti e più profonde che stanno davanti al nostro cammino di Chiesa che è in Torino.
Non si è trattato, tuttavia, di un ascolto meramente passivo. I due consigli, infatti, sono stati stimolati ad esprimersi proprio in ordine a ciò che appare decisivo guardando alla vita e alla missione della nostra Chiesa, oggi e nel prossimo futuro.
Facendo tesoro di quanto emerso in quei contesti, di tante suggestioni, fatiche o desideri espressi da molti nelle più svariate circostanze, di quanto richiamato nei gruppi che sono stati attivati in occasione del cammino sinodale della Chiesa italiana oltre che, ovviamente, di una profonda convinzione personale, mi pare evidente che, tra i diversi aspetti sui quali occorre operare un discernimento ecclesiale e compiere delle scelte concrete, ce n’è uno che è assolutamente prioritario.
La nostra presenza sul territorio
Si tratta del ripensamento della presenza ecclesiale sul territorio. È sotto gli occhi di tutti, infatti, il fatto che il numero dei preti è in calo ormai da decenni e che la loro età media è piuttosto elevata. È meno evidente ai più, anche se non meno significativo, il fatto che anche il numero dei cristiani che vivono una qualche reale appartenenza alla Chiesa è di molto inferiore rispetto al passato. Insomma, si tratta di guardare con lucidità la realtà e prendere sempre più profondamente coscienza che la nostra società non è più «normalmente cristiana».
Eppure, noi siamo ancora strutturati – a partire dalle nostre parrocchie – nell’implicito che tutti siano cristiani; e operiamo, a diversi livelli, sulla base della implicita convinzione che sia così, con il grave rischio di investire tantissime risorse in attività pastorali che sembrano non portare frutto, di non provare ad investire (all’inverso!) energie laddove si tratterebbe di osare qualche percorso nuovo e, soprattutto, di perdere noi per primi il gusto della vita cristiana e di una serena e gioiosa sequela del Signore.
Appare sempre più chiara, dunque, la necessità anche urgente di ridisegnare il nostro modo di esistere, come Chiesa, sul territorio, al fine di continuare qui ed ora ad essere ciò che dobbiamo essere e ad offrire il Vangelo alle donne e agli uomini che incontriamo e lo desiderano. Non farlo, significherebbe rimanere schiacciati da un passato che ci impedisce di compiere la nostra missione nel presente e, dunque, di essere fedeli a Cristo.
Alcuni semplici esempi, posti in forma interrogativa, possono aiutare ad esplicitare quanto su espresso.
Dobbiamo continuare a mantenere semplicemente tutte le infinite strutture di cui beneficiamo (locali, case, chiese, oratori…) anche se – invece che servire a vivere una vita cristiana ed ecclesiale autentica ed essere degli strumenti per l’evangelizzazione – costituiscono un peso insopportabile, per chi è chiamato a gestirle, rubando energie, serenità e gioia?
Possiamo continuare a mantenere tutte le parrocchie, immaginando che vi si svolga tutto quello che vi si svolgeva nel passato, chiedendo ad un prete che – invece di essere parroco di una comunità – lo sia di diverse, senza però cambiare nulla?
Come si può immaginare, facendo così, che i preti possano vivere una vita serena, possano trovare il tempo per coltivare la preghiera e la lettura e offrire un servizio qualificato, possano trovare la giusta serenità per incontrare le persone…?
E come pensare che la loro vita possa risultare attrattiva per dei giovani oggi?
Momento decisivo
Non sono che esempi, per segnalare la decisività del momento e la grande opportunità che il Signore ci offre. Anche perché assumere con serietà questa «sfida» è mettersi in cammino per scovare nuove opportunità, che non sempre riusciamo a riconoscere; ed è la possibilità di riprendere confidenza con il fatto che c’è urgenza per tutti (preti, diaconi, religiose e religiosi, laiche e laici) di metterci in uno stato di «formazione permanente», laddove per formazione non si intende solo la necessaria preparazione teologica, ma un itinerario di preghiera e spirituale, una partecipazione profonda alla vita liturgico-sacramentale, una esperienza comunitaria vissuta.
Alla luce di ciò, mi pare opportuno che nel prossimo anno pastorale, facendo nostro e calando nella nostra specifica realtà il cammino sinodale, lavoriamo a diversi livelli al fine di discernere bene la situazione nelle differenti zone della nostra diocesi, di rintracciare le potenzialità che ci sono e magari non vediamo, di ipotizzare modi nuovi di essere Chiesa nel territorio, di avanzare proposte per «cammini sperimentali»…
Per un lavoro come questo e così decisivo ci sarà bisogno dell’apporto di tutti: anche perché la diocesi è davvero vasta e sarà indispensabile, se non vorremo essere ideologici e applicare un’idea preconfezionata alla realtà, discernere che cosa ci è chiesto di fare nelle diverse situazioni. Un conto, ad esempio, sarà ciò che ci sarà richiesto nella grande città, altro in zone di montagna o di campagna.
Faccio appello a tutti
In questo orizzonte, faccio appello alla buona volontà e alla corresponsabilità di tutti. So molto bene che, per diversi motivi, si può talvolta avere l’impressione, nella Chiesa, di essere richiesti di partecipazione e di proposte, senza che poi si veda un seguito all’incontrarsi, al dialogo, alle proposte avanzate.
So però altrettanto bene che, senza questo rinnovato e leale sforzo, ci sarà difficile nel prossimo futuro condurre una vita cristiana in cui sia evidente a noi stessi e agli altri che cosa siamo, Chi ci anima, che cosa ci appassiona veramente e ci fa essere discepoli del Signore. Per parte mia, farò di tutto perché quello che vi propongo sia il primo passo di un reale cammino di cambiamento.
In questo orizzonte dovrebbe apparire ugualmente evidente che sarà necessario rinsaldare o creare delle strutture di corresponsabilità, che siano l’espressione della vita ecclesiale sul territorio.
È in vista di ciò che ho rinnovato, in una forma nuova, il consiglio episcopale, pensando sin da subito che non esaurisca affatto la corresponsabilità con il vescovo, la quale dovrà invece beneficiare di altre figure di responsabili nelle diverse zone della diocesi. Ma… un passo per volta e, soprattutto, facciamo passi che siano il frutto dell’intelligenza credente e del cuore di tutti noi e siano il più possibile condivisi.
Mentre vi benedico di cuore, uno ad uno, chiedo umilmente a ciascuno di utilizzare il tempo estivo – che si spera più sereno – per pregare per il cammino che si apre, per far emergere riflessioni e pensieri, per domandarsi davanti a Cristo vivente che cosa ciascuno può realmente mettere a disposizione.
Vi saluto nel Signore con tanto affetto, mi affido alla vostra preghiera e vi garantisco, ogni giorno, la mia.
Torino, domenica 26 giugno 2022
Mons. Roberto Repole,
arcivescovo di Torino e vescovo di Susa
Sino a quando gli apparati ecclesiastici decidono tutto loro, senza lasciare spazio ai laici, non cambierà nulla. Gli impegnati * catechisti, catechiste, chi segue gli oratori, le mense, ecc. Devono poter dire e decidere in autonomia, senza aspettare il beneplacito del Parroco, Monsignore ecc. Più evangelizzazione da parte dei prelati, meno interessi pubblici e assistenziali.
A mio parere sono necessari cambiamenti molto più radicali e non solo a livello organizzativo/istituzionale. È necessaria una nuova ” narrazione” del messaggio, una sempre più urgente risoluzione del problema della posizione delle donne, della sessualità.
Le donne non vogliono quote rosa nelle amministrazioni curiali, vogliono capire perché la Chiesa non dona loro un Sacramento. Come si fa ad essere credibili se le donne nella Chiesa sono ancora ai margini ?
Non è necessario solo un trattamento di maquillage, è necessaria una riflessione molto più profonda che diviene sempre più urgente. Preghiamo perché lo Spirito Santo ci illumini.
Mi sembra che nelle strutture parrocchiali le donne siano tutt’altro che ai margini…
Poi il Sacramento dell’Ordine non è un dono da ricevere, ma è un servizio che si compie e a cui Dio chiama
Faccio i miei complimenti al vescovo Repole per tre ragioni. 1) Ha scritto una lettera corta, breve, leggibile e non un trattato come fanno altri vescovi (che credono di essere letti). 2) Nella lettera mostra davvero coraggio perché 3), sulla base delle mie (insufficienti) conoscenze, è il primo vescovo che pone un tema centrale nel prossimo decennio. Le sue domande sono davvero pertinenti, oneste, sincere e autentiche. Complimenti anche al vescovo Repole per la nomina di una donna, laica, a cancelliere di Curia!!
Il vescovo Repole è una persona degnissima e animata dalla più retta intenzione. Ma anche da questo scritto si vede che i vescovi sono imprigionati da una retorica ecclesiale che impedisce di guardare l’abisso senza edulcorare la pillola.
Frasi come: “e prendere sempre più profondamente coscienza che la nostra società non è più «normalmente cristiana».” fanno tenerezza. È come prendere lucidamente coscienza che l’acqua è bagnata e sentirsi di avere compiuto una presa d’atto decisiva.
Le considerazioni sulle strutture e sulla vita e il ministero dei preti sono sacrosante. Tuttavia, le cose più audaci e “avanti” che anche un testo così si sforza di esprimere con una certa consapevolezza sono indietro di almeno 20 anni.
20 anni fa non c’era ancora YouTube, l’iPhone e i social. Ecco: è come se noi volessimo parlare alla cultura di oggi, pensando di essere nel 2002, convinti non solo di essere ancora in tempo, ma all’avanguardia.
Quello di cui bisognerebbe veramente prendere atto è che, salvo un’operazione radicale, umile e da lacrime e sangue, non sarà più possibile in alcun modo recuperare il tempo perduto.