Sul fronte del diritto di libertà religiosa la tanto attesa Fase 2 e, dunque, l’ingresso nell’immediato post-emergenza, ha registrato un primo scaricarsi di tensioni accumulate, anche in questo ambito, nella Fase 1: quella della drammatica esplosione della pandemia.
Già allora la sospensione delle celebrazioni civili e religiose era stata accompagnata da talune osservazioni critiche e da una prassi che ha faticato a trovare il giusto equilibrio interpretativo di disposizioni la cui concreta esecuzione era anche fiduciosamente affidata al “buon senso”, una categoria non sempre in lineari rapporti con il diritto (cf. SettimanaNews).
Nel complesso, però, gli alti numeri del contagio hanno convinto tutte le comunità religiose a sostenere non solo la legittimità ma anche la comprensione degli e il sostegno agli interventi emergenziali e prudenziali dell’Esecutivo.
Ripartire, ma come?
Tuttavia, con il calare – sia detto sommessamente – dei contagi, anche il corale consenso intorno ai provvedimenti governativi è andato scemando in un rapporto di inversa proporzionalità rispetto alle spinte alla riapertura – o alla “riespansione” – provenienti da tutte le rappresentanze degli interessi costituzionali gravemente limitati dai primi dpcm: “imprenditori” piccoli e grandi – anche del mondo della cultura e dello sport – genitori, insegnanti e… comunità religiose, Chiesa cattolica in primis.
L’avvicinarsi della Fase 2 ha accresciuto le aspettative, alimentando tra gli istanti raffronti comparativi che già segnalavano una memoria a breve termine, ancora ben lontana da un tentativo di elaborazione sistematico, anche soltanto iniziale, dell’esperienza in corso.
In particolare, la (scontata) attenzione del Governo sugli aspetti economici della Fase 2, su cui si sono soprattutto concentrati anche gli organismi di consulenza istituiti dall’Esecutivo, ha emarginato la considerazione nei confronti di altri interessi, incluso quello religioso, affidato all’ordinaria interlocuzione del Ministero dell’Interno e di una Presidenza del Consiglio da due anni in attesa di provvedere al rinnovo della sua “Commissione consultiva per la libertà religiosa”.
Questa Commissione sarebbe incaricata, tra l’altro, dello «studio, informazione e proposta per tutte le questioni attinenti all’attuazione dei principi della Costituzione e delle leggi in materia di libertà di coscienza, di religione o credenza».
Inoltre, hanno inciso sulla sensazione di emarginazione e strumentalizzazione delle comunità di fede due altri fattori. Da un lato, in generale, la mancanza di una “politica ecclesiastica” capace di prendere il testimone della cosiddetta stagione delle intese.
Dall’altro, in particolare, la mancata formalizzazione di una “cabina di regìa dedicata”, a cui tutti gli interlocutori confessionali avessero potuto, al pari degli altri rappresentanti di interessi costituzionali, portare in maniera trasparente il proprio contributo nell’attuazione – e progressivo superamento – di provvedimenti così incisivi sulle libertà fondamentali. Ciò è risultato specialmente evidente per la CEI. Quest’ultima, non solo è parsa sentirsi defraudata del suo “statuto concordatario” (in realtà non coinvolto in questo frangente) ma è sembrata trovarsi improvvisamente afona, priva di un interlocutore che ne valorizzasse l’impegno.
CEI e governo
La CEI ha, così, condiviso (anche) la condizione di marginalità provata – pure in tempi “ordinari” in verità – da altre comunità religiose, più abituate al silenzio del Governo e del Legislatore. Si pensi ai musulmani, chiamati a rinunciare, in questi primi giorni di Ramadan, alle loro cene di Iftar ma anche agli ebrei ed agli altri cristiani che pure, come i cattolici, hanno vissuto la Pasqua del confinamento Covid-19.
Nello stesso tempo, la buona volontà manifestata dalla CEI nell’accogliere i primi provvedimenti governativi ha faticato a reggere pressioni interne sempre più insofferenti (amplificate da una lettura unilaterale dell’omelia di papa Francesco della messa mattutina del 17 aprile), così come le provocazioni del confessionismo secolare, riprese anche da altri attori politici, che hanno generato un imbarazzo che i vescovi italiani speravano di superare con l’avvio della Fase 2.
La sera del 26 aprile la pubblicazione del nuovo dpcm e la conferenza stampa del Presidente del Consiglio precipitavano, però, la situazione, trasformando la delusione che stava già covando in una indignazione amara ma anche un poco scomposta.
L’ultimo dpcm, infatti, nel ribadire gran parte delle chiusure e delle sospensioni già precedentemente disposte, si limita a consentire «le cerimonie funebri con l’esclusiva partecipazione di congiunti e, comunque, fino a un massimo di quindici persone, con funzione da svolgersi preferibilmente all’aperto, indossando protezioni delle vie respiratorie e rispettando rigorosamente la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro» (art. 1, lett. i).
Sul “resto”, così atteso da tanti fedeli e dalla CEI, solo il riconoscimento del Presidente del Consiglio in conferenza stampa di una «fitta interlocuzione» incapace, tuttavia, di superare le obiezioni di un comitato tecnico «molto rigido»; il ringraziamento alla CEI (in realtà l’unico ente religioso nominato) e a «tutte le persone che hanno particolare sensibilità religiosa», con l’invito (ancora rivolto implicitamente alla CEI) ad un interlocuzione, nelle «prossime settimane», in grado di «allargare ad altre cerimonie» aperture analoghe a quelle previste per i funerali.
L’infelice comunicazione – che nonostante la manifestazione della partecipata vicinanza alla sofferenza dei fedeli, involontariamente poteva rischiare di far passare la libertà religiosa come un hobby per persone un poco fissate – veniva in parte corretta alcune ore dopo, quando le «settimane» della conferenza stampa si trasformavano in un impegno dei «prossimi giorni» a studiare «un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza». Ma, oramai, con una reattività ben studiata, la CEI aveva già diramato un comunicato di fuoco, pieno di amarezza ma anche, forse, di alcune parole stonate.
“Esigere”
La Chiesa esigeva, «nel momento in cui vengano ridotte le limitazioni assunte per far fronte alla pandemia», «di poter riprendere la sua azione pastorale». Rilevante il termine a quo scelto: non il momento del controllo del contagio ma quello, comparativo, della riduzione di «limitazioni» genericamente indicate.
Il comunicato non teneva conto della graduazione tentata da un decreto in cui per trentadue volte compare l’aggettivo “individuale” e che conferma, in realtà, la maggior parte dei limiti già fissati per quelle attività collettive più diffuse e difficilmente controllabili. La nota sottovalutava, così, la preoccupazione governativa circa il problematico controllo, nella primissima parte della Fase 2, di un’apertura troppo repentina a forme di esercizio collettivo, quant’anche sorvegliato, di libertà.
In relazione alla libertà religiosa, sarebbe stato questo il caso di un via libera alla «messa con il popolo» richiesto dalla CEI. Un popolo in ogni caso ridotto, da selezionare e il cui concorso, congiunto in fasce temporali ben precise e non facilmente dilatabili, non è sempre quantificabile a priori, a differenza di quanto avviene per l’afflusso nei luoghi di lavoro.
“Esigere” è alzare la voce per rivendicare un diritto. Può essere necessario, ma è un verbo da usare con il senso della storia per non trasfigurare il diritto stesso.
“Esigere” porta poi a impoverire gli sforzi passati, ad annacquare la ricchezza spirituale vissuta dai fedeli nei tempi più difficili: è stata forse uno “scherzo” la comunione spirituale? Non è stata parte del medesimo percorso accidentato di una comunità che ha conosciuto nella sua storia pratiche liturgiche differenti e che può conoscere momenti faticosi?
Senza la realizzazione della “tesi” a nulla valeva l’“ipotesi”, il pur piccolo, primo, passo di esequie intanto contemplate ed aperte ad un maggiore concorso di affetti.
L’approccio rivendicativo della CEI ha spinto ad intervenire, secondo diverse gradazioni che riflettono sensibilità e situazioni diverse, le altre comunità religiose. Due confessioni con intesa – e dunque già ai “piani alti” del riconoscimento istituzionale – hanno potuto esprimere il loro disappunto secondo modalità fermamente pacate: è il caso della nota misurata del Rabbino Capo di Roma in merito alla riapertura dei luoghi di culto pubblicata il 27 aprile e della lettera inviata lo stesso giorno al Ministro degli Interni dall’Ufficio di presidenza della Commissione delle Chiese evangeliche per i rapporti con lo Stato.
Ad intervenire per ultimi, invece, i musulmani, a cui è richiesta, in pieno Ramadan, un supplemento di pazienza. Una pazienza sostanzialmente confermata dall’Ucoii ma venuta in parte meno nella nota di adesione alla posizione CEI dell’imam Pallavicini, rappresentante di una COmunita REligiosa ISlamica (COREIS) da anni in attesa di riconoscimento.
“Arbitrariamente”
Questo avverbio esprimeva il peso della delusione, del senso di inutilità, sperimentato dalla Chiesa in Italia. Ma come? Dopo «settimane di negoziato» avevamo presentato «Orientamenti e Protocolli» «nel pieno rispetto di tutte le norme sanitarie». E non è bastato.
Ma l’avverbio da usare era “purtroppo”: malauguratamente, infatti, il virus è ancora tra noi e le «settimane» passate si sono rivelate ancora insufficienti per un’apertura che sarebbe stata inevitabilmente affidata più alla buona sorte che alla buona volontà (Germania ipsa docet). Non è stata paura o timidezza, ma forse la prudenza dell’uomo accorto che controlla i propri passi (Pv 14, 15), specie quando si ha la responsabilità – senza paternalismi – di tutti.
“Autonomia”
Difficile rivendicare una speciale autonomia quando si riconosce di essere, con tutti gli altri, sulla stessa barca. Si coglieva nell’uso di questa parola – più ancora dell’eco costituzionale, più dell’eco concordataria post-1984 – una risonanza lateranense. L’eco dell’Ecclesia e del “suo ordine” violato dal virus ma, soprattutto, dalle norme statali che lo hanno inseguito.
L’utilizzo, tautologico, di questo termine segnala la difficoltà che incontra una piena metabolizzazione costituzionale della bilateralità. Una difficoltà che ha rivelato, in questo tempo di pandemia, radici assai diffuse e profonde. Fatica ad essere metabolizzata una bilateralità non più interpretata come eccezionale privilegio, ma intesa piuttosto, in relazione ai contenuti essenziali e comuni della libertà religiosa, come estrema salvaguardia delle garanzie costituzionali qualora queste tutele comuni dovessero risultare soppresse contra e non già semplicemente limitate secundum Constitutionem.
“Compromesso”
All’insegna di un ritrovato, ma non proprio felicemente, “non possumus”, i vescovi italiani esprimevano l’impossibilità di «accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto» o, forse, più prosaicamente, manifestavano la loro indisponibilità ad accettare… il compromesso, unilaterale, raggiunto – o, meglio, subìto – in questa primissima tappa.
Rifiuto del compromesso che si accompagnava ad un ultimo passaggio in cui i «poveri» parevano forzosamente arruolati nella protesta contro il dpcm. Parole che non fanno giustizia dell’eccedenza di gratuità e carità che la Chiesa in Italia pone al servizio dell’intero Paese.
Tuttavia, come diceva Rossella O’Hara, “domani è un altro giorno”. E questa nota divisiva, come molte altre prima di lei, è già superata dall’instancabile testimonianza di tanti fedeli e dei loro pastori e, come tanti altri errori riparabili, sarà presto riletta come comprensibile inciampo all’interno di relazioni in tempi perigliosi. Del resto, i «prossimi giorni» già annunciati il 26 aprile dal Presidente del Consiglio paiono diventati brevissimi con l’impegno a riprendere le celebrazioni il più presto possibile (si parla già di una nuova data) con le cautele in buona parte prevedibili.
E con il tempo, fino ad una nuova nota, si stempererà l’amarezza generata nel constatare quanta acqua debba scorrere prima di superare taluni “generi letterari” che, come riflessi (istituzionali) condizionati, accomunano uomini di epoche diverse convinti di rendere così un doveroso servizio all’Ecclesia. Ma perché ciò accada occorre superare anche una certa superficialità governativa che rischia di rendere poco credibili annunci solenni, trasformando in pour parler quelle che vorrebbero essere prese di posizione ben ponderate.
Il giorno prima del decreto, il giorno della Liberazione, l’Elemosiniere pontificio esprimeva solidarietà, preghiera e un abbraccio a don Lino Viola da Gallignano. Un gesto che in questo momento di incertezza, che il decreto non può sciogliere, ha ricordato l’abisso che sempre separa la legge dalla Legge eccedente. Quella solidarietà tra “uomini di frontiera” ha ricordato, con Derrida, l’indecidibilità che scaturisce dall’incontro-scontro tra ospitalità della legge e Ospitalità e, si potrebbe dire oggi, tra celebrazioni ex lege e celebrazioni ultra legem.
Una indecidibilità insuperabile e che resta il luogo della ragionevole prudenza e della responsabilità. Una responsabilità non solo dall’alto, ma anche dal basso dei concreti accomodamenti che ogni singola comunità, civile e religiosa, dovrà trovare, lì dove è insediata, per arginare il virus e ricostruire il “vivere insieme”.