La violenza delle persecuzioni antireligiose, interreligiose e dei regimi comunisti ha un parallelo meno noto, cioè la violenza contro la scelta atea in contesti e paesi a forte maggioranza religiosa, spesso islamica. La doverosa condanna delle prime comporta la denuncia anche della seconda.
Dichiararsi atei in paesi musulmani o a forte maggioranza etnico-religiosa (come l’India o Myanmar) significa esporsi a pericoli che vanno dalle multe alle sanzioni amministrative fino a condanne penali (compresa le pena di morte).
In netto contrasto col n. 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU (1948): «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione e di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti».
Nel Rapporto ecumenico sulla libertà religiosa a livello mondiale, firmato dalle Chiese cattolica ed evangeliche tedesche nel 2017, si dice espressamente: «Questa formulazione lascia intendere che la libertà religiosa, di cui qui si discute il diritto con una formulazione ristretta, è da capire in senso più largo: essa comprende le convinzioni di coscienza e gli orientamenti di fondo non religiosi come le convinzioni e pratiche atee e agnostiche» (1.1).
In altri termini, parlare di libertà religiosa significa parlare anche di libera affermazione di ateismo.
Difendere i non credenti
Discriminazioni verso gli atei sono praticate in 85 paesi, in 12 si prevede formalmente la pena di morte e in sette si registra una vera persecuzione. Omicidi in ragione della professione di ateismo sono registrati in India, Maldive, Bangladesh e Pakistan. Il fenomeno è vistoso in particolare nelle società islamiche in cui l’accusa di ateismo può prendere la forma della denuncia di blasfemia, di offesa alla morale, di insulto alla religione, di turbamento dell’ordine pubblico.
Mentre a metà del secolo scorso l’istanza nazionale e socialista ha visto crescere nelle società islamiche nel Medio Oriente uno spazio di rispetto per l’ateismo, nelle generazioni successive l’emergere dell’islam integrale ha marginalizzato e censurato ogni affermazione atea.
Lo scrittore egiziano Ismail Adhan poteva scrivere nel 1937 un articolo dal titolo «Perché sono ateo?». 50 anni dopo, il saggista turco Tursan Dursun è stato ucciso nel 1990 per la sua affermazione di ateismo, come lo scrittore egiziano Farak Foda (1992). Gravi rischi hanno corso lo storico iraniano Hachem Aghajari, il giornalista Kamel Daoud e il ricercatore Nasr Hamid Abu Zaid, costretto a divorziare e a fuggire dall’Egitto. Sono sotto la minaccia di una fatwa gli scrittori Taslima Nasreen e Salman Rushdie.
L’Alto consiglio degli ulema del Marocco e la «casa delle fatwa» in Egitto hanno dichiarato inapplicabile la pena di morte per gli apostati (tutti gli atei sono considerati tali). Il tema, anche se non si vuol vedere, è presente.
Un’inchiesta sociologica condotta fra il 2018-2019 in dieci paesi di Magreb e del Medio Oriente, pubblicata da BBC News Arabic, ha recensito fra i «senza religione» il 13% delle popolazioni. Nel gennaio del 2020 il centro culturale islamico più prestigioso, Al-Azhar (Egitto), in una dichiarazione alla fine del congresso dedicato al Rinnovamento del pensiero islamico ha scritto: «L’ateismo è un pericolo che avvelena la stabilità delle società rispettose delle religioni e dei loro insegnamenti. La pretesa “libertà religiosa” diventa un’arma di conquista intellettuale volta a distruggere le religioni e a indebolire il tessuto sociale… È una causa diretta fra quelle che conducono all’estremismo e al terrorismo».
È importante che nel documento sulla Fratellanza umana, firmato da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azahr (4 febbraio 2019), si sottolinei: la «Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano».
Testimonianze
Il settimanale di La Croix–Hebdo (5 giugno 2020) dedica un ampio reportage alle dirette testimonianze di atei nel contesto egiziano. Con l’avvertenza di percepire il passaggio generazionale. Mentre nel ’900 l’affermazione ateista era legata all’ideologia socialista e ai ceti intellettuali, oggi è recensibile fra i giovani e sulle piattaforme web.
Uno dei più noti è lo youtuber Ahmed Arkan, formato nel salafismo egiziano e poi divenuto ateo. In rete trasmette video di grande impatto: «Ho perduto la fede: cosa fare?», «Come gestire lo choc dell’ateismo?», «Fuggire all’estero?». Così commentava due anni fa la proposta di legge per penalizzare l’ateismo: «Non so se il progetto di legge sarà adottato dal Parlamento. Ma che passi o no il male è già fatto. Il solo annuncio è già un’incitazione ad agire contro i non credenti. È una carta bianca in mano agli estremisti per colpirci».
L’avvocato Ahmed Abd El Nabi racconta della disavventura di un suo cliente il cui nome appare su un giornale nazionale in una lista di atei. I suoi paesani circondano la casa e lo picchiano. La sua denuncia diventa motivo di accusa verso di lui. E il tribunale lo condanna (La Croix, 12 gennaio 2018). Una giovane medico, di famiglia copta, si allontana dalla fede nell’adolescenza. Affronta senza esito alcuni colloqui con un monaco. Vive nel silenzio la sua condizione, coperta appena da una frequenza mensile alla celebrazione della comunità copta.
Unione Europea e libertà religiosa
Di queste voci c’è una flebile eco nelle organizzazioni laiche europee: dalla Federazione umanistica europea all’Unione internazionale etico-umanistica, alla nostrana Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (preoccupata di favorire lo “sbattezzo” e del riconoscimento statuale nelle Intese).
La settimana scorsa è stata formalizzata la decisione della Commissione dell’Unione Europea di cancellare il posto di Incaricato speciale per la promozione e la protezione della libertà religiosa (cf. Settimananews: UE: Commissione senza difesa della libertà religiosa) – segno di una burocrazia europea che non sembra capace di “vedere” le persecuzioni anti-cristiane (250 milioni di persone a rischio), non percepisce il ruolo delle credenze nelle guerre in atto e nella gestione della politica internazionale e dei legami sociali e “regala” a figure anti-europeiste come Orban (Ungheria) e Kaczyński (Polonia) il ruolo di difendere le minoranze cristiane nel mondo.
Dopo prese di posizione politiche, da parte di un gruppo di parlamentari tedeschi e dei rappresentati del PPE al Parlamento europeo, e di quelle di alcuni leader religiosi che hanno ricordato che «le minoranze e i gruppi religiosi vulnerabili sono a rischio e l’Unione deve continuare l’impegno per la libertà di religione, incluso il ruolo di Incaricato speciale» (card. J.-L. Hollerich, presidente della COMECE), notando al tempo stesso che l’Europa sembra avere «un problema con le religioni», pur essendo la libertà religiosa «un valore europeo» (P. Goldschmidt, presidente del Consiglio rabbinico d’Europa), il portavoce della Commissione von der Leyen, E. Mamer, l’8 luglio ha reso noto che la posizione dell’Incaricato speciale, contrariamente a quanto prima deciso, sarà mantenuta in essere.
In questo pendolo dell’Unione Europea in materia di libertà religiosa un qualche ruolo non marginale deve averlo giocato l’incontro avvenuto il 7 luglio a Bruxelles tra i rappresentanti della COMECE e del CEC con l’ambasciatore tedesco presso la Rappresentanza permanente della Germania all’UE, M. Clauss – il cui governo dal primo luglio siede alla presidenza del Consiglio dell’Unione Europea.
Indice sia dell’importanza di una presenza delle religioni nel contesto istituzionale dell’Europa, sia di una maggiore sensibilità della diplomazia politica rispetto alla struttura burocratica per ciò che concerne un’interlocuzione organica e strategica con le comunità religiose nell’orizzonte dei diritti umani – di cui la libertà religiosa, come ricordava l’ex Incaricato speciale J. Figel, rappresenta un vero e proprio litmus test.
L’augurio è che alle parole del portavoce seguano, in tempi rapidi, decisioni effettive da parte della Commissione UE – non solo provvedendo alla nomina del nuovo Incaricato speciale, ma anche dando alla posizione una strutturazione istituzionale che la garantisca davanti a una burocrazia europea certamente efficiente e competente, ma che talvolta appare incapace di sentire il polso politico delle realtà su cui impattano le sue decisioni.