Le intercettazioni relative all’indagine sul magistrato Luca Palamara ci lasciano sgomenti. Anche perché esse sono la coda di quelle che filtrarono circa un anno fa e che, già allora, produssero un terremoto che investì il Csm. Con le conseguenti dimissioni di sei suoi membri e una severa censura del presidente Mattarella.
Fu persino ventilata l’ipotesi di uno scioglimento dell’organo di autogoverno della magistratura. Poi scartata soprattutto nell’avvilente convinzione che, senza nuove regole, lo si sarebbe rieletto secondo le medesime logiche e dunque reiterandone le patologie.
Merita fare memoria delle parole taglienti pronunciate allora dal capo dello Stato che, a norma di Costituzione, presiede il Csm. Egli denunciò «il coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantare influenze (verso lo stesso Quirinale, ndr), di orientare inchieste e condizionare eventi, di manovrare lo stesso Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un altro potere dello Stato».
Di che si trattava? Di nomine ai vertici degli uffici giudiziari (a cominciare dalla madre di tutte le battaglie: quella per il nuovo capo della procura di Roma), nomine figlie di oscure manovre orchestrate in segreti conciliaboli da magistrati e politici nei quali si faceva uso di un linguaggio da caserma; ove sul merito e sulle competenze palesemente facevano premio i commerci tra le correnti ridotte a centri di potere; seguendo la logica della spartizione propiziata anche dalle nomine a pacchetto (questo a me, questo a te, questo agli altri); con il palese inquinamento politico nell’attribuzione degli incarichi; e il dossieraggio mirato a gettare ombre su magistrati candidati a posti di responsabilità per favorirne altri… Con il risultato di screditare il Csm e l’intero corpo della magistratura.
Correntismo degenerato, carrierismo spinto, indebita interferenza della politica. C’è di che sorridere amaramente nel leggere lo statuto della corrente di Palamara Unicost (ma parole quasi identiche figurano in quelli delle altre correnti), che opererebbe «secondo le linee fondamentali fissate dalla Carta costituzionale, nel rispetto del pluralismo ideologico, della partecipazione democratica di base, della tutela delle minoranze, del non collateralismo politico».
Un deprecabile intreccio
Rammentiamo il copione:
- un potente capocorrente che risponde al nome di Palamara, terminale di mille maneggi su Csm e vertici di procure e tribunali; politici sotto inchiesta che si adoperano per influire sulla nomina di magistrati di uffici poi chiamati a giudicarli come Luca Lotti;
- un magistrato, anch’egli a capo di un’altra corrente, Magistratura Indipendente (sic), che gioca sui due tavoli, della corporazione e della politica, come Cosimo Ferri (passato allegramente da FI al PD e ora a IV di Renzi, a smentita della tesi secondo la quale le correnti sarebbero espressive di nobili, distinte e distinguibili visioni della giustizia);
- un intreccio malsano tra settori della magistratura e organi di informazione, che volentieri si prestano a metterci del loro nelle contese interne all’ordine giudiziario, anche solo per ingraziarsi fonti informative preziose;
- l’elezione ai vertici del Csm di Davide Ermini, sino al giorno prima politico molto connotato ed esposto in quanto deputato renziano e responsabile giustizia del PD. In anni nei quali la cerchia renziana disponeva di grande potere e già sperimentava – per dirla con un eufemismo – rapporti non facili con alcune procure.
Una nomina dichiaratamente sortita da un accordo lobbistico-correntizio che metteva capo ai congiurati di cui sopra. I quali, purtroppo con ragione, potevano rivendicare di “avercelo messo lì”, sentendosi così autorizzati a lamentare la circostanza che egli poi non corrispondesse ai loro desiderata.
Quattro questioni
Una brutta storia che suggerisce di isolare quattro questioni.
La prima è l’urgenza di riformare regole e procedure di elezione del Csm al fine di limitare il potere delle cosiddette correnti. Come si diceva, meri gruppi di potere, cordate cui si aderisce essenzialmente al fine di fare carriera. A dire il limite cui ci si è spinti nella consapevolezza della patologia basti notare che, tra le idee avanzate allo scopo di disarticolare i giochi delle correnti, si è affacciata persino quella di una composizione del Csm affidata al sorteggio.
Seconda questione: varare regole atte a scongiurare le porte girevoli di magistrati che entrano e escono dalla politica e viceversa. Opportuno sarebbe che la separazione fosse netta. Anche perché decisamente diverse e, in certo modo, opposte sono le attitudini e la cultura richieste. La politica è contesa tra le parti, la giurisdizione presuppone l’imparzialità. Di sicuro si dovrebbe vietare che i magistrati approdati alla politica rientrassero nei ranghi della magistratura, minandone la terzietà.
Terza questione: la si facesse finita con il brutto vizio di eleggere, da parte del parlamento (in concreto lottizzati dai partiti), ex o attuali politici quali membri laici del Csm. Se non lo si può fissare per legge, si potrebbe tuttavia stabilirlo a modo di patto non scritto ma da tutti praticato. Quando stavo in parlamento, mi adoperai in ogni modo perché si ponesse fine a questa inveterata prassi. Invano. Con imbarazzo, rammento casi nei quali il parlamento è stato incapace per lunghi mesi di provvedere alla elezione di un membro laico del Csm per l’impuntatura su nomi di politici o, ancor peggio, di politici-magistrati a torto o a ragione controversi.
Magari per risarcirli di una loro mancata rielezione alle Camere. Mettendo a verbale una grave inadempienza del parlamento e un vulnus al plenum del Csm. E dando l’idea di un approdo al Csm quale pensionamento d’oro di politici in disuso. Vi sono innumerevoli e bravi professori e operatori del diritto che più opportunamente potrebbero essere scelti al posto loro, se solo i partiti fossero meno voraci, più liberali, più rispettosi dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ordine giudiziario. Tanto più ciò dovrebbe valere per la postazione più alta, quella di vicepresidente del Csm. Concediamo pure che, dalle intercettazioni, risulti che Ermini non si sia prestato ai diktat della cricca che lo aveva fatto eleggere, ma domando: siamo sicuri che quella designazione abbia giovato al prestigio e alla terzietà del Csm e che, dopo lo choc delle intercettazioni, non abbia concorso a procurare imbarazzo al Presidente della Repubblica?
Non è problema di oggi. Anche nella consigliatura precedente del Csm vicepresidente fu Giovanni Legnini, persona per bene intendiamoci, che tuttavia passò direttamente a tale responsabilità da membro del governo in carica e poi, a mandato concluso, di nuovo candidato PD alla presidenza della regione Abruzzo.
Quarto, infine, un profilo del problema vistosamente trascurato: come accennato, lo scandalo ha costretto alle dimissioni sei membri del Csm. Il minimo sindacale, comunque apprezzabile. Essi hanno inteso che la loro permanenza avrebbe gettato ulteriore discredito sull’istituzione-Csm e, più o meno spontaneamente, si sono dimessi. Fa riflettere la circostanza che invece i due politici – Lotti e Ferri – non abbiano fatto una piega, che non abbiano avvertito l’esigenza di un analogo passo indietro. Forse, mi domando, perché il parlamento è considerato istituzione meno meritevole di un gesto che giovasse al suo prestigio. O che, al suo deficit di credibilità, non vi sia rimedio. Così pure è motivo di riflessione che i partiti cui i due appartengono non li abbiano in alcun modo sanzionati.
I magistrati e i loro rappresentanti (Anm) sono nella bufera. I politici che brigavano per influire su nomine cui avrebbero dovuto essere totalmente estranei se ne stanno lì indisturbati al loro posto. Confidando che passi la nottata.
Questo ultimo rilievo ci suggerisce una conclusione. Un caveat. Il pianeta giustizia soffre di una grave malattia, ma attenzione: l’urgenza oggettiva di interventi riformatori potrebbe fornire il destro a settori della classe politica dei più diversi colori per mettere la mordacchia sul principio costituzionale dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. Una minaccia sempre in agguato.
Già in passato abbiamo constatato come il confine tra riforme buone e controriforme nocive sia labile. Sino alla eterogenesi dei fini: riforme ispirate a buoni propositi che hanno sortito effetti contrari.