Kiev, 4 maggio
Nel 2002 il Sinodo dei vescovi della Chiesa greco-cattolica dell’Ucraina prese la decisione di edificare la cattedrale patriarcale e la curia sulla riva sinistra del fiume Dnieper a Kiev. Il Centro patriarcale copre un’area di 1.72 ettari. L’edificazione del complesso ebbe inizio nel settembre 2002. Il 27 marzo 2011 nella Cattedrale della Risurrezione è stato intronizzato l’arcivescovo maggiore sua beatitudine Svjatoslav Ševčuk. Lo incontriamo nella curia, dove i lavori sono ancora in corso. È un uomo affabile. Un italiano perfetto; è lucido nell’ analisi della situazione. Ha tenuto a sottolineare che ha fatto studi di morale alla Pontificia accademia San Tommaso d’Aquino (Roma) dove si è specializzato nella Dottrina sociale della Chiesa, ovviamente sollecitato dalla situazione del paese. Ha risposto a tutte le nostre domande. Qualcuna gli poteva sembrare scabrosa.
Quali sono gli effetti della lunga crisi che attraversa l’Ucraina?
La gente continua a soffrire, anche qui a Kiev, città che riflette quello che si sperimenta nelle varie regioni dell’Ucraina, dal punto di vista sociale e umanitario. La capitale è poi la cassa di risonanza della politica, sia perché qui si prendono le decisioni, sia perché qui si tengono le manifestazioni.
È alto il numero di sfollati. Si calcola più o meno 120.000 persone solo nella capitale e dintorni, contando solo quelli che l’Arcieparchia di Kiev ha in qualche modo aiutati. Quanti siano in totale non si sa. Si calcola che in Ucraina vi siano circa 2 milioni di sfollati. 400.000 circa hanno ricevuto un qualche tipo di aiuto, dal governo o da altri organismi internazionali; gli altri sono stati aiutati dal popolo ucraino. Questa solidarietà popolare è molto vasta, ma non si vede, non si può censire. Un paragone illuminante: l’economia della Germania è circa 30 volte più grande e più forte della nostra. Eppure è andata in crisi e sta minacciando la tenuta dell’intera Unione Europea per aver accolto più o meno un milione di immigrati. In Ucraina abbiamo due milioni di sfollati interni nel contesto di un’economia a pezzi. Nella regione del Donbas – erano concentrati lì i grandi centri della produzione industriale pesante – l’Ucraina ha perso il 25% del suo potenziale industriale. La nostra moneta ha perso quasi l’80% del proprio valore. Durante Euromaidan, la «rivoluzione della dignità», un dollaro costava 8 grivna, adesso ne costa 27. Il salario è lo stesso di prima, ma i prezzi aumentano ogni giorno.
Ma non viene meno la solidarietà della gente. Io stesso non so spiegarmi come riesca ad aiutare gli sfollati, raccogliere denaro per le vittime… I soldati mobilitati dovevano procurarsi da se stessi l’equipaggiamento, perché l’esercito dava soltanto l’armamento. In alcuni casi le mogli andavano in Polonia ad acquistare i giubbotti antiproiettile e li indossavano sotto i loro abiti per portarli di qua della frontiera e consegnarli ai mariti in partenza per le zone di conflitto. Alcuni sostengono che qualche potenza mondiale stia foraggiando il popolo ucraino nel conflitto. In realtà la gente si sta mobilitando da sé perché non viene aiutata e si sente abbandonata sia dall’Europa sia dalla comunità internazionale più ampia. Tutti capiscono che, se non ci diamo una mano noi, se non difendiamo da soli il nostro paese, nessuno verrà a proteggerci. Questa consapevolezza sta risvegliando milioni di persone.
È una solidarietà spontanea, senza etichette politiche né linguistiche né altro. Si trova sempre chi dice: «La vostra è una guerra civile. I vostri ultranazionalisti uccidono i russofoni». Non è vero: più del 60% dei soldati che stanno difendendo l’Ucraina sono russofoni. Questa “aggressione” ha portato il popolo ucraino a stringersi in solidarietà. L’Ucraina – come l’Italia – è un paese con tante regioni, ciascuna con la propria storia. L’Ucraina è stata divisa fra Russia, Polonia, Austria, Ungheria, Romania… Adesso il paese è unito, ma le caratteristiche regionali restano presenti, nella mentalità, nella lingua ecc. Il trauma degli avvenimenti recenti ha risvegliato una “nuova coscienza” della nazione ucraina. Nazione che non si basa sull’identità etnica, ma piuttosto su un patto civile e politico inclusivo e non esclusivo: comprende tutti quelli che vivono in Ucraina: ucraini, russi, polacchi, ungheresi, romeni, ebrei, greci, bulgari… Tutti questi ora si sono attivati per difendere le proprie famiglie.
Vi racconto una storia. Qui nella capitale ha sede l’emittente religiosa digitale ZHYVE. Il suo direttore è un signore nativo di Mariupol (città sul Mar Azov, a 20 km dalla linea di divisione dei territori occupati). Anche Mariupol era stata occupata e i separatisti avevano promosso un referendum per legittimare il passaggio alla Russia. Quando però la gente ha visto i carri armati russi avanzare e sparare contro le case ha cambiato opinione. Adesso Mariupol è un avamposto dell’identità ucraina da quelle parti. A raccontarmi questo non è stato un prete greco-cattolico prevenuto, ma un laico che ha la sua famiglia in quella città e condivide il sentimento comune degli abitanti di quella città. Quando il corpo umano viene attaccato da un virus, l’organismo si attiva per reagire. Così è successo in Ucraina in questi ultimi due anni.
Cosa sta succedendo dal punto di vista politico in Ucraina?
Non riesco a capire. Come è difficile capire cosa succede nella politica italiana… L’Ucraina è un paese post-sovietico, che ha vissuto questi ultimi 25 anni secondo una doppia identità. Da una parte, si andava sviluppando la società civile, che con l’indipendenza si era veramente emancipata: una classe media vivace, capace di rapportarsi con la modernità europea e tecnologica. Dall’altra, l’apparato statale, un relitto del tempo sovietico. Dopo lo scioglimento dell’URSS, dissolta la classe politica comunista, gli ex gerarchi comunisti sono diventati oligarchi, conservando il potere. I dirigenti comunisti avevano accesso diretto al patrimonio statale e, al momento delle privatizzazioni, sono riusciti ad appropriarsi dei beni dello Stato. Il popolo comune, che non aveva accesso alle proprietà statali né sapeva come rivendicare i propri diritti sui beni dichiarati “di tutti”, è rimasto tagliato fuori. In pochi si sono accaparrati i beni di tutti. Quelli che hanno i soldi si creano la loro politica: coltivano i loro interessi, fondano partiti ecc. Ogni formazione politica attuale rappresenta gli interessi di qualcuno degli oligarchi.
Negli ultimi dieci anni si è consolidato questo circolo vizioso che divora lo Stato, generando un vortice di corruzione. Ricordo una commedia nella quale il protagonista aveva inventato una macchina del tempo, grazie alla quale porta Ivan il terribile a vivere nel tempo dei soviet. Aggirandosi per la società comunista, lo zar redivivo poneva a tutti una domanda esistenziale: «A chi appartieni tu?». È una domanda che si potrebbe rivolgere oggi a tutti i funzionari pubblici, che ricevono il necessario per vivere non dallo Stato, ma dal loro “referente”. È una corruzione che sta divorando tutti. Anche dopo la rivoluzione, quando il potere è passato di mano, i nuovi “potenti” hanno definito una regola in base alla quale ogni partito deve vedersi garantito il numero di propri uomini nella compagine governativa. Noi tutti leader religiosi abbiamo denunciato pubblicamente questo come una vergogna.
La società civile è emancipata e sopravanza di una generazione i dinosauri del sistema post-sovietico che, purtroppo, incarnano la politica anche dopo la rivoluzione. Viviamo la stessa situazione della Polonia dopo la caduta del Muro di Berlino. C’è una macchina vecchia, incapace di stare al passo del popolo, e c’è uno che la guida. Bisogna cambiare la macchina, ma non sarà quello che la guida a cambiarla, perché vi è attaccato in maniera simbiotica.
In Polonia, con il movimento Solidarność, appoggiato e in certo modo “guidato” da Giovanni Paolo II, la società civile è riuscita a smantellare il vecchio sistema. Il presidente comunista è rimasto con il volante in mano senza più la macchina e si è mostrato poi contento di firmare ogni accordo di integrazione con la Comunità europea. Però la riforma sia del sistema di governo sia dell’apparato non è iniziata né è stata guidata dai politici, ma dalla società civile. In Ucraina stiamo vivendo una situazione analoga due anni dopo Euromaidan.
C’è un movimento organizzato della società civile o bisogna crearlo? Le Chiese che ruolo giocano?
Il movimento c’è ed è fortissimo. In questo mosaico complesso, alcune Chiese ortodosse – tradizionalmente tentate di stabilirsi come Chiese di Stato – si prestano facilmente a forme di “concubinato”. La Chiesa cattolica, invece, soprattutto la nostra – che mai nella sua storia è stata religione di Stato, anzi perseguitata nel periodo sovietico – è considerata una Chiesa “scomoda”, perché non disponibile a compromessi col governo. Ci sentiamo parte della società civile, la quale chiede a noi un ruolo di leadership. E il servizio di guida, di orientamento che noi possiamo offrire è la Dottrina sociale della Chiesa. Durante gli studi da teologo moralista ci veniva insegnato che la DSC è un «mezzo indispensabile per l’evangelizzazione». Allora non ci credevo; per noi ucraini è una dottrina piuttosto difficile da comprendere. Adesso, per costruire una società giusta, per chiarire i fondamenti morali di un’attività sociale, ho maturato la convinzione che la DSC sia una via indispensabile. Noi siamo molto stimati e ascoltati come Chiese, non soltanto quando parliamo di cose avvenute 2.000 anni fa, ma perché annunciamo il Vangelo incarnato nella vita odierna del nostro popolo.
La domanda esistenziale che il popolo – sempre numeroso nelle nostre chiese – ci pone è: perché soffriamo? L’offerta della nostra vita ha un senso? Cosa sarà di noi? Abbiamo qualche speranza? C’è qualche fondamento che ancora non sia andato distrutto? A questi interrogativi né il presidente né il primo ministro sanno rispondere. Si possono trovare risposte solo a partire dai presupposti della fede cristiana. Se uno non fa politica di potere, ma svela o rivela questi fondamenti, viene stimato e ascoltato. Per questo in Ucraina la nostra e le altre Chiese quando prendono una posizione sono ascoltate. Godiamo di un indice di fiducia del 40%. Questa fiducia ci assegna anche una responsabilità. Il card. Husar diceva: «La nostra Chiesa non ha niente, tranne il buon nome». Siamo così in grado di accreditare alcune iniziative sane.
L’anarchia è una tentazione diffusa. Dopo che Janukovyč ha sparato sulla nostra gente, si è radicata una sfiducia di fondo verso ogni politico, quelli di prima, quelli di adesso e quelli che verranno. Noi leader religiosi ci sentiamo perciò in dovere di organizzare le iniziative della società civile per canalizzare questa energia, questa rabbia, nella direzione giusta.
Io e Filarete del patriarcato di Kiev abbiamo dato vita al Forum nazionale «Trasformiamo l’Ucraina insieme», che sta incontrando un credito crescente. Ha analogie con Solidarność ed è, in effetti, un appello alla solidarietà. Hanno risposto in molti positivamente e in forma impegnata. Abbiamo creato un gruppo direttivo, al quale non hanno accesso i politici. Ci sono credenti di ogni confessione e religione e anche non credenti. È interessante che in questo gruppo promotore sia entrato anche l’ambasciatore UE Jan Tombiński, che conosce bene la storia di Solidarność. Anche rappresentanti dei governi occidentali hanno visto in questo Forum un interlocutore saggio e valido. Hanno considerato che gli uomini al governo resteranno ancora per un po’ di tempo e poi verranno sostituiti. Le Chiese invece rimangono!
Quando noi organizziamo le sedute di questo Forum (ogni 2-3 mesi), invitiamo anche rappresentanti delle ONG. Come avvenne a Maidan, il popolo si organizza spontaneamente. Noi dobbiamo soltanto offrire loro l’opportunità di conoscersi e interagire. Non c’è un leader carismatico; c’è un gruppo direttivo con finalità organizzative e promozionali. Solidarność ci ha ispirato: vogliamo creare un progetto comune di un paese europeo, dar vita a un nuovo patto sociale.
Per quasi un anno né i politici né il governo volevano darci ascolto. I dirigenti ora capiscono che, per avere credito presso il popolo, dovranno accogliere e mettere in atto questo progetto. Negli ultimi due mesi sia il presidente sia i rappresentanti del nuovo governo si sono accorti di questo progetto e hanno aperto il dialogo con il nostro gruppo. Un greco-cattolico del gruppo dirigente è stato nominato ministro della cultura. Sono ottimista, perché la gente ha capito che non esiste uno “zar buono”, che il futuro del nostro paese non dipende dalle potenze mondiali, né dalla bontà o malizia dei politici, ma dal nostro impegno.
Quindi, non vi aspettate una soluzione dalla diplomazia internazionale.
Una qualunque soluzione non sarà mai efficace se l’Ucraina stessa non sarà capace di far nascere il proprio progetto. In queste trattative fra i “grandi corrotti” saremo sempre oggetto di negoziato. Il popolo ucraino è stanco di essere merce di scambio. Noi stessi dobbiamo difendere i nostri interessi, impegnarci per ricostruire e proteggere il nostro paese. Come Chiesa non dobbiamo giocare la politica di potere. La nostra Chiesa greco-cattolica, io come il suo leader, dobbiamo annunciare il Vangelo e il mio strumento è la DSC.
Dal 1° maggio il governo ha alzato il prezzo del gas, sotto la pressione dei governi occidentali, che non tollerano forme di agevolazioni nel mercato. In precedenza vi erano tre fasce di prezzo: quello commerciale, per le attività di tipo industriale a scopo di lucro; il prezzo ordinario e, infine, quello per la gente povera che godeva di un listino ridotto. Noi Chiese abbiamo sempre pagato il prezzo ordinario. All’unificazione delle tariffe, alle Chiese e organizzazioni religiose è stato proposto un prezzo ridotto della metà. Questo ha suscitato un grande dibattito. Perché gli sfollati devono pagare il prezzo intero mentre le Chiese quello ridotto? Era un evidente intento di indebolire il credito delle Chiese. Io ho fatto una dichiarazione: la mia Chiesa deve pagare lo stesso prezzo che paga la gente. Chiediamo che il prezzo sia non agevolato ma giusto. Non vogliamo discutere su quale sia il prezzo; se, però, il nostro popolo paga un certo prezzo perché si dichiara che è il prezzo giusto, mentre alle Chiese si propone un prezzo ridotto della metà, come si può sostenere che il prezzo ordinario sia giusto? Noi Chiese vogliamo pagare il prezzo giusto, non un prezzo di favore.
Il prezzo del gas è competenza del governo e la decisione è stata presa senza dibattito parlamentare. Prima di cambiare il prezzo del gas, sarebbe stata opportuna una discussione, perché la decisione non suoni arbitraria. Senza dibattito non c’è trasparenza, non siamo una società aperta e dipendiamo dagli obiettivi di un primo ministro. Questo non è giusto.
Siete stati gli unici a reagire? Come ha risposto l’opposizione?
Dal punto di vista mediatico, la dichiarazione ha prodotto un effetto esplosivo. La mia è stata una voce solitaria, ma credo dovuta. I capi delle altre Chiese hanno taciuto. Va considerato che erano i giorni di Pasqua e quindi l’attenzione era altrove. Ma sulla rete si discute animatamente e la gente ha visto che la Chiesa può farsi portavoce di un’istanza morale. Le Chiese devono annunciare i principi. Se noi vogliamo una società giusta, combattere la corruzione, essere indipendenti dal governo, dobbiamo assumerci la nostra responsabilità, anche se costa. È stato un esempio di come la Chiesa possa intervenire nelle questioni sociali non a livello politico, ma tenendo fermi i principi di giustizia e assumendo le conseguenze delle proprie affermazioni.
Il conflitto nel Donbas, nei territori orientali, è rivelatore di tensioni più profonde?
L’Ucraina non è solo il Donbas. L’intera società sta vivendo un momento critico, nel quale si risveglia la consapevolezza, ma anche la tensione. L’opinione pubblica mondiale è focalizzata solo sull’area dei conflitti.
Alcuni – specialmente i diplomatici – dicono che nella società post-sovietica non esiste una società civile. Nei paesi sotto dittatura una società civile non ha possibilità di esistere. Per società civile intendiamo le formazioni non familiari, non commerciali, non governative che si organizzano per promuovere alcune iniziative di interesse comune. Nella società sovietica il partito era l’unico interprete e la personificazione stessa degli interessi del popolo. Esisteva un comitato per le Chiese, un Ufficio dei culti, perché le Chiese non avevano personalità giuridica. Man mano che la democrazia, risvegliandosi, prende forma, la pressione del governo o degli oligarchi non può pretendere di essere totalizzante. Si crea lo spazio per le libertà civili e viene occupato. Ci possono essere limitazioni alle libertà civili, ma Euromaidan ha risvegliato l’iniziativa dei cittadini. La società civile è molto attiva, anzi è protagonista di molti processi sociali. L’opinione pubblica ha ritrovato la sua forza. Noi delle Chiese non facciamo parte né del governo né degli oligarchi, ma siamo una presenza organizzata e strutturata della società civile. Le strutture delle Chiese sono importanti, perché possono offrire organizzazione alla società civile. Altrimenti vince il più forte e il più aggressivo.
Dopo l’ateismo dello Stato sovietico, abbiamo assistito ad un risveglio del sentimento religioso negli anni ’90. Ora l’80% della popolazione ucraina si dichiara credente. Ovviamente, non c’è una sola Chiesa che interpreti questo sentimento religioso. Siamo un paese multietnico e multiconfessionale. Le Chiese devono cooperare perché il messaggio che mandano sia autorevole. Specialmente se proponiamo il progetto di un nuovo patto sociale, che, secondo me, deve essere basato sui principi della morale cristiana. Il processo di secolarizzazione avanza; anche in Ucraina trovano consenso alcune istanze “ideologiche” (gender, anticlericalismo…) molto forti in Europa, ma l’80% della popolazione si dichiara credente. La voce delle Chiese, la nostra presa di posizione, la dottrina che noi annunciamo trovano ancora ascolto.
Se vi fosse data l’occasione, scendereste ancora in piazza in forma organizzata?
Devo dire che alcuni sentimenti di protesta esistono ancora e si manifestano in attività vistose. Ma scendere in piazza adesso non conviene. Per questo abbiamo dato vita al Forum, per canalizzare l’energia di protesta in forma positiva. Le Chiese sono scese in piazza al seguito del popolo. Adesso tutti dicono che in Ucraina sta montando un’ondata di populismo. Nuove elezioni vorrebbe dire consegnarsi al populismo. I più avveduti ritengono che non convenga ora affrontare questo rischio.
Risponde al vero che l’“aggressione russa” ha favorito il passaggio di diversi fedeli della Chiesa ortodossa – Patriarcato di Mosca alla Chiesa di Filarete – Patriarcato di Kiev o anche alla Chiesa greco-cattolica?
È un fenomeno molto complesso. Non si può semplificare. È vero che la Chiesa ortodossa – Patriarcato di Mosca per anni è stata usata come uno strumento della politica nazionale e internazionale della Federazione Russa per la divulgazione dell’ideologia. Ovviamente, le armi russe non distinguono se puntano a un russo o a un ucraino. Ammazzano indistintamente. Quanti si riconoscevano nella Chiesa ortodossa – Patriarcato di Mosca, vedendo i propri familiari ammazzati da stranieri intrusi, ha cominciato a chiedersi: «Cosa dice l’autorità morale della mia Chiesa di queste vicende?». Per questa gente il loro patriarca si presentava come il patriarca dell’aggressore.
Kirill, patriarca di Mosca e di tutta la Russia, non si è mai pronunciato sulla situazione in Ucraina?
Di fatto ha benedetto la politica aggressiva della Russia, esplicitamente e implicitamente. In Donbas ci sono molti casi di preti ortodossi russi che portano le armi sotto la veste e hanno sparato contro i soldati ucraini.
Alcuni dicono che anche i preti greco-cattolici hanno sparato.
Possono garantirvi che non è vero. Qualche mese fa abbiamo avuto un incontro con il nuovo capo dei servizi speciali di sicurezza dello Stato; il rappresentante della Chiesa ortodossa – Patriarcato di Mosca lamentava: «Adesso noi siamo addirittura accusati di essere strumenti della politica dell’aggressore…». Il capo dei servizi di sicurezza ha chiesto che venisse immediatamente esibita documentazione. Certo che questa Chiesa si trova adesso in crisi perché una parte dei loro fedeli sta da un lato del conflitto e un’altra dall’altro. Alcuni rimangono («non andiamo in chiesa per pregare il patriarca, ma per pregare Dio»); altri passano ad altre confessioni. Non posso dire che siano in molti ad essere passati alla Chiesa greco-cattolica. Cercano preferibilmente altre Chiese ortodosse. Ad esempio, una volta sono andato a Costantinopoli e ho visitato la chiesa di San Giorgio. Lì ho visto il battesimo di due giovani studenti venuti da Kiev. Il rito era celebrato da un cappellano della missione slava. Al termine del rito ho avvicinato questi ragazzi per salutarli. «Di dove siete?», ho chiesto loro. «Di Kiev», mi hanno risposto. «E perché siete venuti a Costantinopoli per farvi battezzare?». Mi hanno risposto: «Non eravamo cristiani; volevamo essere ortodossi, non nella Chiesa russa però, ma in una Chiesa canonica riconosciuta da tutti». Una parte sta cercando un’alternativa. Alcuni distinguono fra Chiese riconosciute e non riconosciute, il che è un poco complicato per le menti semplici. La stragrande maggioranza abbandona del tutto la Chiesa. Temo che questo gruppo, sentitosi tradito dalla propria Chiesa, promuova in futuro il processo di secolarizzazione.
Noi greco-cattolici sentiamo il dovere di rapportarci con questa Chiesa come fratelli, con la carità necessaria per non ferire le sensibilità. Ma dobbiamo anche capire cosa succede, perché ogni dichiarazione non prudente può causare più danno che aiuto. Cerchiamo di promuovere il dialogo per quanto possibile. Cerchiamo anche di rapportarci con persone concrete, perché non si tratta di un’idea, ma di situazioni di vita. Siamo in presenza di un fenomeno complesso. Da fuori alcuni semplificano dicendo che adesso tutti vanno dal Patriarcato di Kiev. Non è propriamente così. È ormai da diversi anni, dopo la rivoluzione spirituale degli anni ’90, che la mappa religiosa dell’Ucraina si è sostanzialmente stabilizzata.
L’incontro a Cuba fra papa Francesco e il patriarca Kirill, con la pubblicazione di una Dichiarazione, può essere stato voluto e strumentalizzato da Kirill per accrescere la propria visibilità e il proprio credito internazionale?
Nihil novum sub sole (Niente di nuovo sotto il sole). Negli anni ’60, durante la crisi di Cuba, il presidente Kruscev aveva capito che proprio la Chiesa poteva essere la mediatrice per negoziare una soluzione pacifica. Grazie alla prudenza e alla santità di Giovanni XXIII, il mondo che si trovava sull’orlo di una guerra nucleare ha potuto godere decenni di pace. La Chiesa ortodossa russa veniva strumentalizzata dal governo sovietico: dove non poteva andare un diplomatico sovietico andava un vescovo della Chiesa. Sta succedendo ancora oggi. I russi hanno capito che ci si trova sulla soglia di un conflitto globale, specialmente davanti allo scontro internazionale in Siria, dove i politici non possono negoziare a sufficienza. Papa Francesco è molto affine, per carisma personale, a papa Giovanni XXIII e così vengono rispolverati antichi modelli.
Non voglio entrare in politica. Ciò che ha causato grande dolore qui in Ucraina è il fraintendimento: il papa ha affermato di volere una dichiarazione pastorale. Il card. Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha usato il medesimo termine – pastorale – quanto è venuto a incontrare i seminaristi del Collegio ucraino a Roma. Questa dichiarazione pastorale, scritta almeno in parte a Roma, parla della situazione pastorale in Ucraina, ma di fatto la ignora e per la stesura non ha nemmeno interpellato chi ne è coinvolto. Per questo anche gli appelli e i termini usati – che sarebbero dovuti essere indicazioni per l’azione pastorale in Ucraina – sono suonati qui, sul posto, inadeguati, offensivi, fuori luogo. Una pastorale cerebrale, scritta a tavolino, che non rispetta le condizioni di vita della gente, non serve a nessuno. Ed è successo proprio questo. Tuttavia, io capisco e avevo sostenuto l’incontro, che si voleva da anni e che, grazie a Dio, c’è stato.
C’era stato un momento in cui Alessio, patriarca di Mosca, doveva incontrare il papa, ma alla vigilia non si sono trovati d’accordo sulla dichiarazione e l’incontro è saltato. Questa volta invece l’incontro si è tenuto, nonostante le perplessità sul testo della Dichiarazione.
La Chiesa greco-cattolica era l’argomento, la pietra d’inciampo. Ai tempi del patriarca Alessio in Ucraina non scorreva il sangue. La sensibilità della gente era veramente diversa. Supponiamo che fosse avvenuto un incontro allora, anche con una dichiarazione non molto positiva nei confronti dei greco-cattolici, il dolore non sarebbe stato grande come lo è ora. Perché il contesto attuale è molto diverso; il popolo viene ammazzato ogni giorno con armi russe, è cresciuta la sensibilità. Il papa è sempre visto in Ucraina, anche dagli ortodossi, come un faro di luce purissima di verità; un arbitro universale, super partes. Ma con la Dichiarazione questa luce si è offuscata. Noi abbiamo bisogno di questa luce, soprattutto in questo momento di sofferenza.
Bisogna sottolineare che, dopo il nostro incontro con il santo padre, abbiamo ricevuto da lui stesso alcuni messaggi molto chiari: 1) non si può fare l’ecumenismo a spese di una Chiesa cattolica orientale; 2) questa Dichiarazione è “discutibile”, non è una pagina di Vangelo, né una clausola sine qua non di un dialogo; 3) a me personalmente ha detto che non solo sono autorizzato a sollevare obiezioni, ma ho il dovere di farlo. Senza questi tre messaggi sarebbe per me difficile intervenire. In questa Dichiarazione Roma parla, ma ancora non ha parlato in maniera definitiva: Roma locuta, sed causa non finita.
Forse c’è stato un qualche inceppo nella diplomazia vaticana…
La critica che mi sono permesso di esprimere è che i dicasteri incaricati di preparare il testo hanno debordato dalle loro competenze. Quando mi trovo in un campo nel quale non mi sento competente, mi fermo e mi affido a un esperto. Dovrebbe essere così per tutti i funzionari, anche nella curia vaticana, dove le competenze sono molte e prestigiose. Questa Dichiarazione doveva essere solo pastorale, ma poi di fattosi è addentrata ampiamente nel campo politico e diplomatico. Noi siamo sempre aperti al dialogo. È da due anni che siamo coinvolti in questo processo. È importante che, quando si discute un tema così importante, venga coinvolta anche la gente che nelle situazioni ci vive.
Storia della Chiesa greco-cattolica
I primi cristiani fanno la loro comparsa nel territorio dell’Ucraina nel corso delle prime missioni apostoliche nel I e II secolo. Si dice che sia stato l’apostolo Andrea a visitarne i territori, sia salito sulle colline di Kiev e abbia esclamato che il Signore voleva che fossero erette molte chiese sul posto. Gli slavi dell’Est adottano il cristianesimo e vi sono diversi vescovi. I greci, che abitano il Sud dell’Ucraina, seguono anch’essi il cristianesimo e vengono costruiti molti templi. Nel IV e V secolo le tribù slave si spargono nel territorio dell’Ucraina, particolarmente al di qua e al di là del fiume Dnieper. Kiev diventa il centro dell’evangelizzazione dei territori.
IX e X secolo: Secondo la testimonianza di Fozio, patriarca di Costantinopoli, e le cronache bizantine, il principe Askold di Kiev e il suo entourage vengono battezzati nell’860. È il tempo dei fratelli Cirillo e Metodio, chiamati gli “apostoli degli slavi”.
988: è la data che comunemente viene indicata come il passo decisivo per il futuro e l’identità della Chiesa nei territori dell’Ucraina. Ricorda il battesimo del principe Vladimir il Grande, che costruisce templi, fonda librerie e scuole. Kiev mantiene rapporti con la Sede di Roma e con la Chiesa latina. I suoi successori fanno altrettanto. Epoca d’oro per il cristianesimo viene definito anche il regno del figlio di Vladimir il Grande, Yaroslav il Saggio (1019-1054). Ha inizio la costruzione di grandi monasteri e di chiese e viene portata a termine la cattedrale di Santa Sofia. Vengono intensificati i rapporti diplomatici con molti paesi europei. Arrivano i mongoli nel 1240 e la Chiesa resta la sola solida istituzione sociale dell’antica Rus’. Nella disintegrazione mantiene l’entità etnica del popolo. Il suo ruolo è riconosciuto dovunque nei secoli successivi.
1596: L’Unione di Brest. Dopo lo scisma tra Roma e Costantinopoli, nel 1054, si sviluppa in Oriente un vasto movimento di ritorno alla Chiesa di Roma. Varie comunità cristiane ortodosse decidono di riprendere i contatti con la Sede apostolica, pur mantenendo la propria specifica tradizione orientale in campo sia liturgico, sia canonico, sia disciplinare. Nel 1439 si arriva alla cosiddetta “Unione di Firenze”, che però non viene accolta dal principe di Mosca Vasilij II. Verso la fine del 1500, la Chiesa ortodossa ucraina di Kiev, la madre dell’ortodossia russa, vive un periodo di grave crisi anche a motivo della penetrazione della Riforma protestante. Alcuni vescovi premono per far ritorno alla Sede di Roma. Vi sono senza dubbio anche motivazioni di ordine politico e forti pressioni da parte del mondo occidentale. A Brest (Bielorussia) si riunisce un sinodo della Metropolia ortodossa, che chiede l’unione con Roma, promulgata da papa Clemente VIII il 23 dicembre 1595. L’anno dopo, un sinodo ratifica l’Unione (1596). Continua peraltro ad esistere nel frattempo accanto alla Chiesa, che prende il nome di Chiesa greco-cattolica, anche la Chiesa ortodossa ucraina.
1596-1808. L’impero zarista combatte la Chiesa unita a Roma, la greco-cattolica, soprattutto la “zarina” Caterina II (1762-1796), che sopprime tutte le diocesi greco-cattoliche, ad eccezione di una. Nella spartizione della Polonia del 1795 tra Russia, Austria e Prussia, la Chiesa greco-cattolica gode di spazi di libertà in Galizia. Nel 1808 viene restaurata la sede metropolitana della Galizia.
1865-1944. Emerge con prepotenza la figura del metropolita Andrey Sheptysky, che porta la Chiesa greco-cattolica ad un alto livello di influenza. Nato in una famiglia ucraina, si forma nel clima di studi dell’Impero austro-ungarico. Studia legge a Cracovia e a Leopoli. Entra nel monastero dei basiliani, continua i suoi studi di teologia nel seminario di Cracovia e nel 1899 viene nominato vescovo nell’Eparchia di Stanislav e nel 1890 diventa metropolita della Galizia. È un uomo molto colto, appassionato di arte, fonda molte scuole. Si deve a lui la fondazione del Museo nazionale ucraino, che può godere della più ampia collezione di icone in Europa. Egli stesso fa dono della collezione privata di 10.000 oggetti d’arte. È un ardente attivista politico. Membro del Parlamento austriaco e del Parlamento della Galizia (Sejm), si batte per i diritti dei galiziani. Viene imprigionato durante l’occupazione russa della Galizia (1914-1917) e nel periodo post bellico si batte per il riconoscimento dei diritti degli ucraini nella nuova Polonia. Nel 1928 fonda l’Accademia teologica di Leopoli e si prodiga per la riunificazione delle Chiese in contatto con i pionieri del movimento ecumenico di allora, soprattutto con il cardinale belga Désiré-Joseph Mercier. Con uno spirito ecumenico impensabile in quegli anni, introduce una serie di riforme nella Chiesa greco-cattolica. Apre agli ebrei, ne salva molti dall’Olocausto, rischiando la propria vita. In una lettera a papa Pio XII condanna l’ideologia nazista e difende il popolo ebraico. Muore il 1° novembre 1944 ed è sepolto nella cattedrale di Leopoli.
1946: Lo pseudo concilio di Leopoli. Nel 1939 la Galizia, dove la Chiesa greco-cattolica è fiorente, viene annessa all’Unione Sovietica (URSS). Nel 1946, a Leopoli, si tiene il famoso “conciliabolo”, che dichiara nulle le decisioni del Sinodo di Brest con lo scopo di far ritornare alla Chiesa ortodossa russa le comunità passate al cattolicesimo. Non è di fatto un concilio “canonico”, perché non vi partecipa nessun vescovo e solo un sesto dei 1.270 sacerdoti. In soli tre ani, dal ‘46 al ‘49, si attua la soppressione completa della Chiesa greco-cattolica sul territorio dell’impero sovietico. Parte del clero ritorna all’ortodossia russa, parte viene imprigionata e parte entra nella clandestinità. Tutte le chiese dei greco-cattolici, circa 3.000, vengono date alla Chiesa ortodossa russa.
1892-1984: Josyf Slipyj. È una delle figure più eminenti della Chiesa greco-cattolica. Studia nel seminario teologico di Leopoli, viene mandato all’Università di Innsbruck, dove approfondisce la dogmatica. Ritornato in Galizia, fa il docente. Parla bene, oltre che il latino e il greco, il tedesco, il polacco, il francese, l’inglese e l’italiano. Diventa rettore del seminario di Leopoli e più tardi dell’Accademia teologica. Pio XII lo nomina vescovo nel dicembre del 1939. Dopo l’occupazione dell’Armata rossa e la morte di Sheptysky, si trova ad essere il capo della Chiesa greco-cattolica, ma l’11 aprile del 1945 viene arrestato. Si fanno pressioni perché abbracci l’ortodossia russa, ma non cede. Un tribunale militare lo condanna per alto tradimento a otto anni di lavori forzati nei gulag. Passa 18 anni nelle carceri sovietiche, nei gulag e in esilio a Maklakovo. Scrive molte lettere ai fedeli della Chiesa perseguitata e protesta presso le alte autorità sovietiche. Viene di nuovo arrestato nel 1958 e rilasciato il 4 febbraio 1963. Prima di partire per Roma, consacra clandestinamente il rev. Velychkovsky nell’Hotel Mosca. A Roma resta dal 1963 fino al 1984 con il titolo di metropolita, cardinale, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica. Si batte perché alla Chiesa greco-cattolica sia riconosciuta la dignità di “patriarcato”, ma senza successo. Muore alcuni anni prima della legalizzazione della Chiesa greco-cattolica in Ucraina. È sepolto nella cattedrale di Leopoli.
1946-1989: la Chiesa greco-cattolica nella clandestinità. Benché la struttura visibile sia scomparsa con gli arresti dei vescovi, la Chiesa greco-cattolica continua in condizioni di persecuzione. Le consacrazioni episcopali avvengono nella clandestinità più stretta. Sono una quindicina i vescovi consacrati segretamente. Nel 1945-46 il KGB (polizia segreta) condanna 800 preti da 10 a 25 anni di carcere. Stessa sorte per religiosi, suore, laici. Nella clandestinità si tengono, nelle case private, liturgie e incontri di catechesi, si battezzano i bambini, si celebrano le nozze. Quasi sempre di notte. Così pure nei campi dei lavori forzati si continua a praticare segretamente. Vengono distrutti i monasteri e arrestati monaci e suore. Chi riesce, vive in comunità molte piccole, di 3-4 persone per non dare all’occhio. I laici molto spesso sostituiscono vescovi e preti nella trasmissione della fede, mettendo a disposizione con molti rischi le loro case o cantine. Nella clandestinità sorgono vocazioni e ci si prepara all’ordinazione studiando di notte – dopo ore ed ore di lavoro per lo più nell’industria e nelle fabbriche – su quaderni scritti a mano, sotto la guida di sacerdoti che sfuggono al controllo della polizia. Uno studio di sei anni.
1989: Il risveglio della Chiesa greco-cattolica. La legalizzazione – sono i tempi di Michail Gorbačëv – avviene il 4 agosto 1987, dopo un’intensa campagna per il rispetto dei diritti umani condotta da un Comitato, guidato dal prigioniero politico Ivan Hel. Vengono raccolte, nel 1988-89, 120 mila firme. I fedeli escono dalla clandestinità e nel luglio 1988, anniversario del battesimo della Rus’, è un’esplosione. Nel maggio 1989, a Leopoli, le celebrazioni sono imponenti e così nelle altre città e villaggi dell’Ucraina. Il 1° dicembre 1989 avviene l’incontro di Giovanni Paolo II con Gorbačëv. Nel gennaio 1990 si tiene un “concilio” a Leopoli, al quale partecipano numerosi vescovi e più di 200 preti giunti da tutta l’Ucraina. Nel giugno 1990 Giovanni Paolo incontra i vescovi clandestini della Chiesa greco-cattolica. Nel marzo 1991 Myroslav Ljubačivs’kyj chiude ufficialmente il tormentato e drammatico periodo della clandestinità. La Chiesa greco-cattolica viene legalizzata.
2001: Il viaggio del papa Giovanni Paolo II. Dal 23 al 27 giugno il papa compie un viaggio apostolico in Ucraina. Si reca nella capitale Kiev e a Leopoli. Svolge quattro temi: le radici cristiane ed europee della nazione ucraina, il martirio patito nel XX secolo in odio alla fede cristiana, la responsabilità dei credenti nell’edificazione della nuova società democratica e il ruolo del paese nel contesto europeo. Chiama Kiev «culla della cultura cristiana di tutto l’Oriente europeo». Rassicura gli ortodossi contrari alla sua visita, si felicita per l’indipendenza riconquistata, accenna a periodi tristi di lotte e contrapposizioni tra le Chiese. I vescovi, il 24 giugno, vengono esortati a superare ogni tentazione di divisione e di contrasto, a curare la comunione con i presbiteri e ad impartire un’adeguata e aggiornata catechesi. Beatifica 28 persone martiri: vescovi, preti, monaci e monache e un laico, e fa un esplicito riferimento alla persecuzione e all’uccisione di cristiani di altre confessioni. Prima di lasciare l’Ucraina, si dichiara favorevole al suo inserimento, a pieno titolo, in un’Europa che abbracci l’intero continente dall’Atlantico agli Urali.
2005: Il ritorno a Kiev. È il 21 agosto. L’arcivescovo maggiore, Lubomyr Husar, celebra solennemente il ritorno della Sede metropolitana a Kiev. Dal 1596 – concilio di Brest – al 2005 è durato il tempo della separazione. La Sede è lungo la sponda del fiume Dnieper e la cattedrale è dedicata alla Risurrezione di Cristo. I lavori sono ancora in corso. Per la solennità della Pasqua – 1° maggio – sono accorse migliaia e migliaia di fedeli.
2016. È l’oggi della Chiesa greco- cattolica, che conta nel mondo circa 6.5 milioni di fedeli. Il nuovo arcivescovo maggiore, dopo Husar (2011), è sua beatitudine Sviatoslav Ševčuk, nato a Stryi (Leopoli) nel 1970. Studi a Buenos Aires e poi nel seminario teologico di Leopoli (1992-1994). Quindi a Roma fino al 1999. È vice decano della Facoltà teologica dell’Accademia di Leopoli nel 2001. Segretario di Husar dal 2002 al 2005; dal 2007 rettore del seminario Santo Spirito di Leopoli. Nel 2009 viene nominato vescovo ausiliare dell’Eparchia di Buenos Aires, di cui, un anno dopo, diventa amministratore. Parla molte lingue, è cortese e gioviale, sa districarsi nel labirinto delle vicende che caratterizzano l’Ucraina di oggi.
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