Secondo quanto ha dichiarato l’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, Yohanna Petrois Mouche, non c’è da aspettarsi un rapido ritorno dei cristiani ora che la città è stata riconquistata e liberata.
In un’intervista rilasciata oggi 24 luglio, alla Pontificia opera tedesca Kirche in Not, ha affermato che «per il momento è impossibile vivere qui in maniera durevole poiché Mosul è completamente distrutta». Per ora, ha aggiunto, sono venuti solo per qualche ora dei cristiani che avevano vissuto qui prima della conquista delle milizie del cosiddetto “Stato Islamico”, per vedere le loro case. Hanno trovato tutto distrutto. Per molti perciò l’alternativa è di tornare nella piana di Ninive, dove pur essendo stati distrutti i villaggi cristiani, è già iniziata la ricostruzione.
Mosul, ha precisato l’arcivescovo, adesso è ufficialmente liberata, ma in vari luoghi si nascondono ancora dei seguaci del Daesh. «Sono però sicuro, – ha sottolineato – che saranno presto scovati». Ma importante è adesso che cambi l’atteggiamento degli abitanti «che si sono lasciati sedurre dall’ideologia islamista». Secondo l’arcivescovo, tuttavia, è possibile che cristiani e musulmani possano continuare a stare insieme, ma «è necessario imparare a vivere insieme in pace».
Su un ritorno dei cristiani a Mosul si era invece espresso con grande perplessità, l’autunno scorso, l’esperto del Medio Oriente, Otmar Oerhing, coordinatore e internazionale del dialogo religioso della Fondazione Konrad-Adenauer. Fin dall’inizio dell’offensiva per la riconquista della città, dopo aver visitato il paese, aveva dichiarato che, a suo parere, «a Mosul non sarebbe tornato più nessun cristiano». Per delle ragioni molto semplici.
Anzitutto perché la radicalizzazione della popolazione musulmana di Mosul era iniziata già parecchio tempo prima della conquista da parte dello “Stato Islamico”. Le case dei cristiani erano state marcate con dei contrassegni, e i vicini e i colleghi avevano detto che a Mosul non c’era più posto per loro.
In secondo luogo, perché, se i cristiani tornassero, mancherebbe loro il denaro per la ricostruzione; in più non ci sarebbe alcuna garanzia di sicurezza. Non ci sarebbe da sperare neanche sulla presenza di truppe dell’ONU, cosa inaccettabile in uno Stato sovrano. E nemmeno avrebbe effetto «un influsso sul governo iracheno – in particolare da parte degli Stati Uniti – come alcuni capi religiosi pensano».
A suo parere perciò «c’è purtroppo molto da dubitare che possa esserci una riconciliazione ».
Chi invece spera che questa sia possibile è il patriarca caldeo Louis Raphael Sako, il quale fin dall’inizio della liberazione aveva espresso la speranza che la città di Mosul tornasse a essere nuovamente un punto d’incontro multiculturale tra diverse culture, etnie e religioni. E si augurava che dopo la liberazione dallo “Stato islamico” anche nella circostante piana di Ninive venissero rispettati i diritti di tutti i cittadini, dei gruppi popolari e religiosi, e fosse combattuta ogni discriminazione. A suo parere, i cristiani dovrebbero ora cercare di tessere la fiducia verso i loro vicini musulmani.
Secondo dati locali, prima della conquista di Mosul da parte del Daesh, vivevano in città oltre 25.000 cristiani e nella circostante piana di Ninive vi erano molti villaggi a maggioranza cristiana, dove ci sono almeno 13.000 case danneggiate o completamente distrutte.
Il futuro dei cristiani si presenta ora a tinte molto fosche.