Pierbattista Pizzaballa, da due anni e mezzo alla guida del Patriarcato latino di Gerusalemme, ha partecipato al sinodo sui giovani, su invito personale del papa. In questa intervista esprime le sue aspettative da questo incontro, ma parla anche dei problemi attuali della Chiesa in Terra Santa: la recente profanazione di un cimitero cristiano, la controversa legge sulla nazionalità, come pure la situazione dell’ecumenismo e il lavoro di restauro della chiesa del Santo Sepolcro.
– Signor arcivescovo, c’è stato un altro atto di vandalismo contro un’istituzione cristiana in Israele. È stato profanato i cimitero cattolico di Beth Dschamal. I capi della Chiesa della Terra Santa hanno condannato fermamente il crimine e chiesto misure serie da parte dello stato. Si è trattato di un atto isolato, di un’eccezione o dietro c’è qualcos’altro?
Non credo che ci sia una determinata regìa superiore. È vero che in un certo ambiente ultraortodosso israeliano c’è sempre stata una certa ostilità contro il cristianesimo – per ragioni religiose. Soprattutto nella zona di Beth Dschamal vivono molti ultra-ortodossi, e non è la prima volta che lì si verificano delle aggressioni. Il rischio di simili atti è in quella zona sempre più grande – e continuerà ad esserlo. Ma non credo che si tratti di un movimento generale. Ho però l’impressione che i diritti religiosi in Israele stiano diventando un tema sempre meno favorevole a qualsiasi forma di dialogo o di relazione con chi non è ebreo.
– E cosa si aspetta adesso?
Le autorità hanno condannato l’aggressione. Il ministro per lo sviluppo regionale, Zachi Ha-Negbi ha rilasciato una dichiarazione molto energica. Nel governo c’è attenzione e preoccupazione per ciò che è avvenuto. Penso che non si tratti solo di un problema di prevenzione o di condanna. È soprattutto una sfida per l’educazione. Bisogna impedire che assuma una piega anticristiana.
– Alcuni giorni fa, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deplorato la persecuzione e l’oppressione dei cristiani nell’ambiente arabo, e indicato Israele come l’unico paese che protegge i diritti dei cristiani. Cosa dice al riguardo?
Non posso soffrire questa continua rivendicazione politica sulla piccola presenza cristiana, dall’una e dall’altra parte, soprattutto da parte israeliana e palestinese. Non si può trattare il problema della persecuzione o dei diritti dei cristiani come un problema a sé stante. Deve far parte di un quadro più ampio, quello dei diritti individuali e collettivi della società, sia in Israele sia nei paesi arabi.
A mio parere, in tutto il Medio Oriente non c’è ancora la libertà dei diritti collettivi – in alcuni paesi di più, in altri meno. Si tratta di un problema difficile. In Israele, i diritti individuali sono rispettati; bisogna ammetterlo. Ma ciò non significa che la presenza cristiana non abbia dei problemi con le istituzioni.
– Qual è la loro situazione a Betlemme?
In Palestina, i cristiani non sono un popolo a sé stante. I palestinesi cristiani sono palestinesi e vivono nella stessa condizione di tutti i palestinesi. Come minoranza religiosa, sono esposti ai problemi e ai pregiudizi esistenti tra musulmani e cristiani. Ma non si può dire che da parte del governo palestinese ci sia un atteggiamento anticristiano. Sarebbe sbagliato affermarlo.
– Quando, durante l’estate, Israele con una legge si definì stato nazionale del popolo ebraico, senza parlare delle garanzie per le minoranze, lei ha chiaramente espresso le sue critiche. Spera ancora in un cambiamento? E quali sono le conseguenze per la minoranza cristiana?
Non credo che ci saranno dei cambiamenti. Naturalmente, non potevamo rimanere in silenzio: il Patriarcato ha dovuto parlare, con il debito rispetto, ma anche con chiarezza. Ora dobbiamo tener conto di questa situazione e di osservarne gli sviluppi. A breve termine, a mio modo di vedere, non dovrebbero esserci dei cambiamenti. La mia preoccupazione, tuttavia, è che, a lungo termine, la legge finirà col creare una mentalità ancora più rigida, specialmente nel giudaismo religioso. Abbiamo perciò detto che non è sufficiente garantire i diritti individuali. Si tratta di assicurare i diritti collettivi per la comunità cristiana.
– All’inizio dell’anno, le Chiese cristiane hanno temporaneamente chiuso la chiesa del Santo Sepolcro per protestare contro la politica fiscale israeliana. C’è in vista una soluzione, vede dei progressi?
Ci sono sempre degli alti e bassi, ci sono proposte che altri nuovamente rifiutano. Stiamo lavorando per evitare questi scontri.
– Attualmente lei a Roma partecipa al sinodo dei vescovi sul tema dei giovani. Quale contributo hanno portato i rappresentanti del Medio Oriente?
La dichiarazione del giovane iracheno nell’aula sinodale, in cui descrisse la sua situazione e quella della Chiesa, fu molto commovente. Il Medio Oriente non era il tema centrale del sinodo, ma fa parte di un contesto molto più ampio. La nostra situazione ha trovato la necessaria attenzione. Ma non era il tema dominante. I giovani provengono da parrocchie, movimenti e associazioni. Ma pongono tutti la stessa domanda: come va avanti la Chiesa? Ne hanno parlato a Roma con il vescovo dei giovani Stefan Oster, durante il sinodo.
– Cosa si aspetta dal sinodo per i giovani di Gerusalemme?
I giovani in Terra Santa non sono diversi dai giovani in Italia, Germania o altrove. Sono giovani, hanno gli stessi problemi, lo stesso desiderio di cambiare il mondo. Naturalmente, ciò si esprime in un particolare contesto locale. Vogliono una Chiesa meno rigida, meno istituzionale, cosa tipica nei giovani. Naturalmente parlo per sommi capi. Il mondo orientale con tutta la sua dinamica è molto diverso da quello occidentale. E noi dobbiamo fare attenzione come soddisfare meglio le loro aspettative.
– Personalmente, quale contributo ha offerto al sinodo?
Il sinodo ha parlato soprattutto dei giovani che sono lontani dalla Chiesa e che si cerca di raggiungere. Io invece ho parlato dei giovani che hanno una vita religiosa, che credono in Dio, ma non nel nostro. Questo è un problema caratteristico del Medio Oriente, ma è rilevante e riguarda il futuro anche per il resto del mondo A scuola, nell’ambito accademico, come anche nel mondo del lavoro, ci si deve confrontare con una religiosità che è diversa dalla nostra. Ciò richiede un cambiamento nel nostro comportamento.
– I contatti ecumenici a Gerusalemme ultimamente sono stati molto promettenti. Le Chiese sorprendentemente hanno concordato e portato a termine i necessari lavori di restauro nella chiesa del Santo Sepolcro. Ciò continua ancora?
I lavori continuano, anche se con ritmo bizantino, ma vanno avanti. Ora discutiamo del necessario restauro del pavimento nella chiesa del Santo Sepolcro. C’è già un accordo, ma bisognerà vedere come procedere. Tecnicamente è molto complicato, sarà necessario chiudere dei settori. Si tratta infatti di indagini archeologiche. Tutto ciò richiede più tempo. Ma i contatti ecumenici in linea generale continuano anche in altri ambiti.
– Lei è stato per oltre due anni amministratore apostolico del Patriarcato latino a Gerusalemme. Cosa è riuscito a fare, cosa prevede ancora?
Negli ultimi anni sono successe tante cose, sotto due punti di vista. Il primo riguarda la riorganizzazione dell’amministrazione del Patriarcato. È noto che ci sono dei problemi finanziari. Dobbiamo preoccuparci e creare un sistema affinché ciò non si ripeta: cioè creare dei controlli interni, controllare la gestione. In questo siamo accompagnati da una società di consulenza esterna. Entro un anno vogliamo giungere a far chiarezza.
Intanto, la vita della Chiesa continua. Ho visitato nel frattempo due volte – e questo è un altro mio compito fondamentale – tutte le parrocchie e le comunità religiose della diocesi in Israele, Palestina, Giordania e Cipro. È un impegno che richiede molto tempo, ma è molto importante, per due ragioni: per stabilire i necessari collegamenti; ma soprattutto perché desidero conoscere le realtà e farmi un’idea della Chiesa. Credo che nel frattempo il clima sia diventato in maniera significativa più disteso.