Il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, ha confermato il prossimo rinnovo dell’accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi del 2018 con queste parole: «La nostra intenzione è che sia prolungato, penso che si continui ad adottarlo ad experimentum come si è fatto in questi due anni, in modo tale da verificare l’utilità» (15 settembre).
Oltre alla conferma dell’opportunità dell’intesa, l’affermazione suona non come un apprezzamento consuntivo ma piuttosto come un bilancio preventivo. Un modo per dare tempo a verifiche più attente, considerato che l’arrivo del Covid-19 ha rimosso questa possibilità nei mesi decisivi del 2020. Il testo (non pubblico) verrebbe confermato così come giace.
La disponibilità cinese è apparsa evidente già nell’incontro del 14 febbraio scorso fra il ministro degli esteri Wang Yi e il segretario per il rapporto con gli stati della segreteria di stato, mons. Paul Gallagher.
È stata confermata dal portavoce del ministero cinese pochi giorni fa: «Grazie agli sforzi concertati fra le due parti, l’accordo interinale sulla nomina dei vescovi tra Cina e Santa Sede è stato rispettato con successo, dal momento della sua firma, due anni fa». Sembra ormai certo che ai primi di ottobre (l’accordo scade il 22 settembre ma vi è un mese di tempo per il rinnovo) ci sarà l’annuncio. Più una ripartenza che una celebrazione.
Intenzioni ecclesiali e interessi cinesi
Sono note le intenzioni di fondo della Chiesa:
- Rafforzare l’unità dei cattolici con il riconoscimento di tutti i vescovi cinesi. È stata scongiurata la possibilità reale che il governo procedesse a tamburo battente con nomine illegittime e divisive (si parla di una quarantina). La possibilità di un’intesa fra comunità “legali” e comunità “illegali” (o sotterranee) si è allargata nella pratica di questi mesi.
- Perseguire una libertà maggiore per la Chiesa. È l’aspetto più discusso perché le normative amministrative e gli indirizzi politici in ordine alla “sinizzazione” delle fedi hanno portato a vessazioni e controlli poco consoni alla libertà della Chiesa e delle fedi.
- Riconoscimento del ruolo della Cina nel contesto del nuovo ordine mondiale. Per la Chiesa non si può pensare a un futuro di pace nel mondo globalizzato ignorando quello che il paese asiatico oggi rappresenta.
Vi sono due modifiche paradigmatiche che i protagonisti del dialogo sottolineano e che valgono bel al di là del testo. La prima è l’ammissione di un limite di un potere ideologicamente segnato dalla negazione delle fedi rispetto alla persistenza delle stesse. I movimenti religiosi non sono un dato residuale in Cina, anzi ne sono nati di nuovi come il Falung Gong.
Il potere comunista ne prende atto e tenta di volgere a proprio favore (sul versante educativo e di consenso) il potenziale costruttivo delle fedi. Scelta attuata nella forma della “sinizzazione”: operazione che spesso non osserva la libertà interna delle fedi e che viene perseguita con gli strumenti di potere amministrativo ad esse estranei. In secondo luogo: l’ultima parola circa le nomine episcopali cattoliche è un riconoscimento al papa di Roma, ma tendenzialmente è un’incrinatura della pretesa totalitaria del potere ideologico-imperiale.
Qualcuno, fuori del paese, può avere una parola autorevole e vincolante su dei cittadini cinesi. Chi legge l’accordo come un cedimento al governo di Pechino non ne tiene conto.
Vi sono anche interessi cinesi facilmente riconoscibili:
- Vi è un messaggio all’insieme delle fedi (riconosciute e no) sull’opportunità di accedere ad un’azione “armonica” con il potere riconosciuto.
- L’attestazione ripetuta da parte dei responsabili e dei media governativi che l’accodo funziona dice anche il suo contrario. Quantomeno fa intuire che ci sono elementi da chiarire e da approfondire.
- In particolare, nelle difformità registrabili nelle diverse realtà regionali, assai lontane dal centro.
- Rappresenta soprattutto un risultato positivo rispetto alla crescente avversione contro la Cina dei paesi viciniori, ai sospetti crescenti da parte dell’Unione Europea e alla decisione degli Stati Uniti di avviare con l’amministrazione Trump una nuova “guerra fredda” contro l’“impero di mezzo”. Come ha sostenuto il segretario di stato americano, Miko Pompeo, in un discorso il 24 luglio. Le note di Francesco Sisci su SettimanaNews (The Sounds of Chinese War; The Measures of Cold) sono istruttive sul punto.
Difficile dialogo
Le verifiche sull’accordo a cui il dialogo sino-vaticano si applicherà nei prossimi mesi possono apparire del tutto marginali, ma così non è nel quadro complessivo finora evocato. Andrà verificata la registrazione civile dei preti, con gli spazi di tolleranza e di rispetto delle coscienze che la Santa Sede richiede.
Rimangono largamente insufficienti i nomi suggeriti per il servizio episcopale: vanno coperte una quarantina di diocesi. Il riconoscimento dei vescovi clandestini non è ancora portato a termine. Così l’adeguazione delle diocesi alle nuove divisioni territoriali dell’amministrazione. Sono poi numerosi i disagi sollevati in vari modi: forzata assenza dei minori nelle chiese, distruzione di croci alla sommità degli edifici, discussioni sui diritti di proprietà di edifici ad uso comunitario, modalità organizzative dei corsi di formazione per preti ecc.
Una valutazione dell’insieme non dovrà tenere conto soltanto dei molti elementi pratici, ma – come ha sottolineato un analista di spicco, quale Ian Johnson – ci vorranno decenni per un bilancio del dialogo fra la più antica istituzione dell’Occidente e il rinnovato “impero di mezzo” dell’Oriente.
È un accordo celebrato in pompa magna ma di cui non si può sapere il contenuto. È una cosa assurda e paradossale. Meno male che dopo la Prima Guerra Mondiale ci si era proposti di far cessare la diplomazia segreta, che faceva solo danni.
Tutti speriamo che l’accordo funzioni.
Tutti ci fidiamo del Cardinale Segretario di stato.
Sull’accordo però non si può dire nulla perché è segreto.
Noi non sappiamo chi ha l’ultima parola sulle nomine.