Intervista con Marilisa Lorusso, che si è occupata del Caucaso per il Ministero degli Esteri dopo la guerra in Georgia nel 2008, partecipando alla missione civile dell’Unione Europea e alle negoziazioni diplomatiche di Ginevra per la normalizzazione post-bellica. Attualmente collabora con l’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Come esperta d’area contribuisce alle decisioni di concessione del diritto di asilo nelle corti americane e inglesi, producendo report sui paesi di origine: Armenia e Georgia. Rientra negli elenchi internazionali di Rights in Exile, (UK, US) e del Center for Gender & Refugee Studies (US).
- Dottoressa Lorusso può inquadrare – sia pure in estrema sintesi – la guerra del Nagorno-Karabakh?
Il conflitto armeno-azerbaijano del 2020 è conseguenza della situazione che si era creata con la prima guerra per il Nagorno-Karabakh: iniziata con scontri interetnici azerbaijano-armeni nel 1988, si è trasformata in una guerra totale – poi interrotta – per trasformarsi quindi in un conflitto congelato e protratto sottotraccia da quando è stato firmato il Protocollo di Bishkek. La prima guerra si è fermata, ma non è, in effetti, mai cessata.
Di conseguenza, il Nagorno-Karabakh non è mai stato riconosciuto come tale, sebbene di fatto fosse divenuto completamente indipendente dall’Azerbaijan. Nel 1991 era stata dichiarata l’indipendenza. L’Armenia aveva chiuso i confini terrestri e interrotto le relazioni diplomatiche con l’Azerbaijan e con la Turchia.
L’Azerbaijan non ha più esercitato sovranità sul Karabakh, sulle 3 regioni col confine armeno (Kalbajar, Lachin, Qubadli), sulle 3 regioni lungo il confine con l’Iran a sud del Karabakh (Zangilan, Jabrail, Fizuli) e sulla regione lungo il confine amministrativo Karabakh-Azerbaijan, trasformato in una linea di contatto militare (Agdam).
Le conseguenze demografiche sono state rilevanti in Karabakh e nelle regioni circostanti, ove la comunità azera è scomparsa. Il numero totale di azeri che hanno abbandonato l’autoproclamato Karabakh e l’Armenia risulta complessivamente di circa 800.000 persone (ma la cifra più citata, sommando sfollati e rifugiati giunge a un milione). Per contro, più di 200.000 armeni hanno lasciato l’Azerbaijan.
Della risoluzione del conflitto ha cercato di occuparsi l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – OSCE – che ha attivato alcuni organismi, quali il Gruppo di Minsk, costituito da tre co-presidenti mediatori nelle varie fasi della trattativa. La composizione dello stesso organismo non è mai mutata, con la presenza di USA, Francia, Russia e di un rappresentante della presidenza dell’OSCE, incaricata di monitorare il rispetto del cessate il fuoco.
Le parti in conflitto
Le posizioni delle parti possono essere così sommariamente riassunte: per il Karabakh è stata una guerra d’indipendenza basata sul diritto all’autodeterminazione, per l’Armenia pure; secondo l’Azerbaijan è stata guerra interstatale Armenia-Azerbaijan per il controllo del Karabakh: perciò il nuovo conflitto è interpretato da quest’ultimo in chiave difensiva, in vista del ripristino dell’integrità territoriale dello stato (peraltro riconosciuta da quattro risoluzioni ONU del 1993).
Il cessate il fuoco è durato dunque, con maggiore o minore efficienza, per quasi 30 anni, durante i quali sono maturate le cause del secondo conflitto militare.
In Azerbaijan è accresciuta infatti la frustrazione dovuta alla mancanza di risultati nella negoziazione. Le posizioni risultavano inconciliabili. Si è colta la progressiva emarginazione delle figure inclini a trovare una soluzione pacifica al conflitto, poiché l’amministrazione che ha firmato il cessate il fuoco è stata sostituita, anno dopo anno, da una nuova coorte di politici dotata di un diverso background. La crescita economica del paese ha portato alla possibilità di acquistare armi, che a sua volta ha portato alla persuasione di aver raggiunto la superiorità militare sull’Armenia e, in generale, a una posizione internazionale più decisa, sostenuta dalla così detta diplomazia del petrolio e del caviale.
L’Azerbaijan ha potuto poi contare sulla cooperazione sempre più forte della potenza regionale più rilevante, la Turchia. Abbiamo assistito alla radicalizzazione dell’opinione pubblica, intrecciata alla retorica diffusa dell’odio, della ingiustizia subita, della legittimità della riconquista militare.
In Armenia, dal 1998 al 2018, i presidenti sono risultati tutti originari del Karabakh (il cosiddetto clan Karabakhi), il che ha portato la prospettiva del Karabakh direttamente al cuore dello stato armeno. Si è verificata una progressiva assimilazione alla sfera di influenza russa, anche se, ufficialmente, non si è data mai abdicazione totale al metodo politico internazionale del multilateralismo.
Dopo alcuni tentativi di approccio, una quindicina di anni fa, si è registrato un rafforzamento dell’antico complesso dell’accerchiamento e del genocidio armeno a causa delle peggiorate relazioni con la Turchia. Nel mentre è incrementata la cooperazione di quest’ultima con l’Azerbaijan, alimentando le ipotesi armene che la stessa Armenia sia l’unico ostacolo alla creazione del Grande Turan. Voglio dire che, anche in Armenia, abbiamo assistito ad una radicalizzazione della pubblica opinione che ha portato a un atteggiamento intransigente verso qualsiasi ipotesi di compromesso.
Nel Nagorno Karabakh è avvenuto, nel corso del tempo, un consolidamento della statualità di fatto, con una mutata percezione della cintura di sicurezza costituita dalle regioni menzionate: da territori cuscinetto a parte integrante della territorialità della repubblica. Ciò ha portato a nuovi insediamenti nell’area di Karabakhi, e al revanscismo rispetto ad aree ancora sotto il controllo azerbaijano.
Tutto questo – più altri elementi circostanziali – ha causato l’incapacità di negoziare una soluzione pacifica e ha portato alla riconquista militare della così detta cintura di sicurezza e di parte del Karabakh ex sovietico da parte azerbaijana, con una guerra durata 44 giorni che ha avuto quale esito un secondo cessate il fuoco e un nuovo congelamento dello status quo, senza che siano state poste basi solide per una soluzione politica e pacifica del conflitto.
Armenia: paese e Chiesa
- Quali sono i contraccolpi sociali e politici del conflitto in Armenia?
L’Armenia ha perso la guerra, e di conseguenza il governo in carica è sotto accusa. Dalla firma del cessate il fuoco a novembre ad oggi sono state ripetutamente chieste le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan, mentre avvengono regolarmente manifestazioni antigovernative – ma anche, per la verità, pro-governative –, a significare la profonda spaccatura che sta attraversando la società armena.
Allo stato attuale la situazione rimane irrisolta. Un possibile scenario – non scontato – potrà vedere le elezioni anticipate che lo stesso Pashinyan sta auspicando. Recentemente anche l’esercito ha preso le distanze dal governo, significando una pericolosa politicizzazione dei vertici militari e un progressivo isolamento delle forze governative.
- Può ricordare le caratteristiche della Chiesa armena e le sue influenze?
La Chiesa apostolica armena è la Chiesa nazionale del popolo armeno e ne consolida le tendenze nazionaliste, vieppiù dopo la sconfitta militare. Luoghi di culto armeno si trovano in Karabakh e nella cintura di sicurezza passata sotto il controllo azero.
Per capire, dobbiamo conoscere la storia. La Chiesa armena è parte distinta dell’ortodossia orientale, ed è una delle più antiche istituzioni cristiane, poiché il regno di Armenia fu il primo ad adottare il cristianesimo col re Tiridate III, all’inizio del IV secolo. Secondo la tradizione, questa Chiesa ebbe origine dalle missioni degli apostoli Bartolomeo e Taddeo di Edessa nel I secolo. La Chiesa armena ha raggiunto la piena autonomia da Roma e Costantinopoli nel IV secolo dopo aver respinto la formula cristologica calcedoniana. Intorno alla Chiesa si stringe, oltre alla religiosità – ancora molto praticata dal popolo – anche l’identità nazionale. La Chiesa resta molto influente politicamente nel paese.
L’attuale Catholicos Karekin II ha dunque chiesto decisamente le dimissioni di Pashinyan. Negli ultimi anni la Chiesa apostolica armena è stata spesso criticata per il suo, ben percepito, sostegno ai governi precedenti a quello di Pahinyan, nonostante sussista la separazione formale tra stato e Chiesa. Con il corrente governo non si è instaurato lo stesso tipo di rapporto.
Politiche dell’Unione Europea
- E i diritti umani – di cui lei si occupa – come vanno in Armenia?
L’Armenia ha ottenuto l’indipendenza nel 1991, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica. Come tutti gli stati che ne facevano parte, ne porta tuttavia ancora molti segni nella forma di governo. L’Unione Sovietica non prevedeva evidentemente un sistema di protezione dei diritti umani.
La cultura del pluralismo politico – presente e vivace in molte regioni successivamente incorporate nell’Unione – è stata sradicata. In alcuni stati post-sovietici non ha affatto recuperato la sua forza e la necessaria assertività per una sana democrazia. Di conseguenza, la maggior parte degli stati post-sovietici sta ancora lottando contro esecutivi dotati di poteri dilaganti e assai poco tolleranti.
In tale contesto si può considerare l’Armenia che, nonostante certi risultati conseguiti in termini di modernizzazione e di democratizzazione del paese negli ultimi trent’anni, soffre ancora di una vita politica turbolenta, in cui lunghi periodi di stagnazione (ad esempio la leadership politica del partito repubblicano dal 1998 al 2013) si susseguono ad episodi di rivolta e di violenza.
La demonizzazione degli oppositori e la scarsa comprensione delle regole di base del pluralismo politico minano ancora la qualità del dibattito e talvolta minacciano la sicurezza personale degli stessi politici, degli attivisti e dei manifestanti. Particolarmente critica è la posizione delle minoranze sessuali, in un paese estremamente conservatore, in cui l’omosessualità è stata decriminalizzata solo nel 2003. La posizione delle donne è di grande vulnerabilità, la tutela per le vittime di violenza domestica molto lacunosa.
- L’Europa (con l’Italia), quanto si occupa o non si occupa dell’Armenia e del Caucaso in genere?
L’Europa gioca un ruolo in Caucaso solo dove vi sono interessi, come ad esempio in Georgia, ove l’UE ha mediato la fine del conflitto del 2008 e sta attualmente contribuendo a risolvere una profonda crisi politica interna. La Georgia ha espresso anche per via referendaria una spiccata propensione euro-atlantica.
Non si può dire lo stesso dell’Armenia, che con un clamoroso e inatteso voltafaccia – per iniziativa probabilmente personale dell’ex presidente Sargsyan – ha rifiutato di firmare l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea nel 2013. L’Armenia è poi entrata nell’Unione Euroasiatica, l’organizzazione regionale lanciata da Mosca; fa inoltre militarmente parte dell’Organizzazione russa del Trattato di Sicurezza Collettiva. I margini di cooperazione con l’Europa sono perciò ristretti da questo netto allineamento.
Permangono peraltro fra l’Armenia e l’Italia – nel contesto europeo anche con la Francia – profondi legami storici e culturali, a cui si può aggiungere una forte e positiva reciproca propensione.