Pochi minuti dopo la pubblicazione della sentenza del Consiglio di stato che annulla lo statuto di museo della basilica di Hagia Sophia (Santa Sofia) a Istanbul-Costantinopoli, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha firmato il decreto per affidare al culto musulmano la basilica cristiana più prestigiosa dell’Oriente. Su Twitter ha annunciato: «È stato deciso che Santa Sofia sarà affidata all’amministrazione del Diyanet (autorità per gli affari religiosi) e sarà riaperta alla preghiera».
La decisione di carattere politico più che religioso o amministrativo era prevista e largamente anticipata. Dopo due anni di procedure, il Consiglio di stato ha deciso il 10 luglio (non il 2, diversamente da quanto scritto il 4 luglio scorso) di consentire alla spinta politica, annullando il decreto di Mustafa Kemal Atatürk del 1934 che chiudeva l’uso cultuale sia cristiano che musulmano (la basilica costruita dall’imperatore Giustiniano fra il 532 e il 537 ha funzionato come chiesa cristiana fino al 1453, quando il sultano Mehemet II conquista la città e distrugge l’impero).
La Corte non ha indicato vizi di forma dell’editto di Atatürk (non pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, firma incerta), ma di sostanza. Non avrebbe cioè avuto il potere di violare una proprietà (in capo alla fondazione Fatih Sultan Mehmet) registrata per l’uso esclusivo di moschea.
Il segnale inviato da Erdogan ha diverse declinazioni. È rivolto anzitutto ai partiti islamo-conservatori e a una fetta cospicua dell’elettorato, dopo aver perso le elezioni amministrative della città di Istanbul e della capitale Ankara. In secondo luogo, conferma la svolta confessionalista del suo governo e sollecita la sua aspirazione a passare come «correttore» della deriva laicista di Atatürk.
Nel contesto del Medio Oriente alza il profilo della sua ortodossia rispetto al mondo arabo e nei confronti del parallelo sviluppo di Israele. Gioca contro l’Europa, vista l’enorme difficoltà ad essere accettato nell’Unione e scommette su un dissenso “controllato” di USA e Russia. In coerenza con la nuova narrazione nazionalista che identifica gli occidentali, d’intesa con i curdi e i partigiani di Fethullah Gülen (accusato di essere il promotore del fallito golpe del 2016), come i nemici interessati al declino del paese.
Ferita profonda
La decisione ferisce profondamente la sensibilità cristiana, in particolare la tradizione ortodossa e costituisce un segnale negativo nel dialogo religioso e culturale. Violare i simboli religiosi significa avviare processi difficilmente controllabili. A difesa di Hagia Sophia si è sorprendentemente riformata l’unità ortodossa. Voci preoccupate, di ammonimento e di denuncia, sono venute da tutte le sedi patriarcali, in particolare da Costantinopoli, da Mosca, da Bucarest, da Atene e da Gerusalemme.
Dal mondo ortodosso si sono levate voci di critica verso il papa di Roma e l’episcopato turco che non si sarebbero adeguatamente esposti a difesa dello statuto museale della basilica. Politicamente si sono spesi a favore del mantenimento dello statuto attuale sia gli Stati Uniti che la Russia (non direttamene Putin) e l’Unione Europea. Qualche voce di dissenso è registrabile anche all’interno del paese. Oltre alle minoranze cristiane, anche alcuni esponenti dell’opposizione e della cultura, oltre a diversi responsabili della diaspora musulmana nei paesi occidentali. Particolarmente puntuto l’ammonimento dell’Unesco che ha riconosciuto la basilica come patrimonio dell’umanità: «Lo stato deve sorvegliare che alcuna modifica metta in discussione il valore universale eccezionale del bene iscritto nel suo territorio». Il riconoscimento potrà essere ritirato?
La gestione pratica della decisione di far funzionare Hagia Sophia come moschea è ancora tutta da scrivere. Molte le ipotesi: gestione strettamente cultuale, forme mediane per permettere l’enorme numero di visitatori (3,8 milioni nel 2019), moschea al venerdì e poi a disposizione ecc. La prima preghiera formale è prevista il 15 o 24 del mese. Il portavoce di Erdogan avrebbe assicurato il libero accesso dei visitatori e la permanenza delle icone musive cristiane. Il segnale complessivo è particolarmente pesante per le minoranze religiose interne costrette a normative e a controlli sempre più soffocanti. Per poi magari essere chiamate, come successe il 31 luglio 2018, ad attestare davanti all’opinione pubblica internazionale la piena libertà di fede nel paese.
Cf. Settimananews
È così.
Bisogna prendere atto che la pace non piace a tutti.
Qualcuno preferisce il conflitto.