Yosef, figlio di un certo Giacobbe della stirpe di Davide, personalità immensa, da sempre rimasta nell’ombra. Quel tanto che si è detto di lui non è sfuggito al tono melenso ma candido, della vecchia pietà. Non è facile strappare all’usura dell’abitudine una figura a lungo edulcorata, fra quadri a capo letto e verghe fiorite.
Per secoli dimenticato dall’arte figurativa: bisognerà attendere il primo Medioevo per vederlo entrare nelle grandi fila degli avi di Cristo. Soltanto nel 1338 c.a. in Santa Croce a Firenze, T. Gaddi, nel dipingere un ciclo su Maria, ritaglia un intero medaglione e lo dedica al patriarca sovrano, nelle cui mani il nodoso bastone germoglia.
Georges de la Tour, pittore seicentesco, che più di ogni cosa al mondo ha amato nella pittura le notti e la penombra, non poteva che consacrare a Giuseppe il suo primo monocromo. Lo ritrae chino, nel tepore del suo minuscolo laboratorio – del tutto dimentico di colui che lo osserva –, piegato su di una legnosa trave che, sotto le sue mani laboriose, cresce nella foggia di una croce.
L’immaginario artistico lentamente convoca Giuseppe nelle icone della Natività o in quelle amene del riposo in Egitto, ritraendolo però sempre un tantino più indietro alla sua sposa – inscritta invece in un cerchio di luce – mentre lui, malinconico e ligio, riposa in un cono d’ombra.
La storia di Yosef, incastonata fra le sponde di una vita ancor oggi nascosta, rievoca peripezie al rovescio di un monarca decaduto. Con levità egli fa il suo ingresso nel vangelo e altrettanto lievemente ne esce.
Giovane ebreo di Nazareth, terra di nessuno, ce lo figuriamo muoversi, con sovrana calma, nella quiete della sua bottega da artigiano, dove taglia spiana intarsia e leviga già da molte stagioni, fra profumi di resine e nuvole di trucioli e quel piacevole crepitio della legna sotto la pentola. Non è un debole lui: sa fidarsi delle sue mani meticolose e dei loro sempre nuovi miracoli.
Gli occhi pensosi e calmi di Yosef hanno visto molto, e la sua bocca imparato a tacere, alla maniera di quei saggi bottegai che – rarissimi oggi – si trovano ancora in qualche paese.
La sua naturale sapienza s’è irrobustita nel commercio della vita: gli basta una rapidissima occhiata oramai per indovinare, dietro sbrigative commissioni, quella lamentevolezza di un popolo oppresso da uomini impastati di torve leggi. Eppure mai, quest’uomo giusto, ha ceduto all’indiscrezione, legato da una segreta comunione con le attese di Israele.
Nel morbido silenzio della sua bottega, lasciati cadere gli arnesi del suo artigianato, Yosef apprende ad ascoltare di lontano gli ansiti del suo popolo e ad intrecciarli con le promesse di Jahwe.
Ad averne visto il volto, in questi immobili frangenti, lo avremmo saputo incline ad intensa gravità, quanto quella di un monarca a cui siano affidate le sorti del mondo – ma poi, con un gesto mondo e solenne, licenziava quei sussulti di una fu nobiltà.
Da qualche giorno questa solida solitudine vien rotta da un dolce e impalpabile pensiero: Miriam.
L’aria intorno a lei, di sovrana leggerezza, con la quale ella chiese e si congedò, in quel meriggio nella bottega di Nazareth, non riusciva più a lasciarlo. Mai prima di allora aveva subìto una grazia così fascinosa: quella irrealizzabile alchimia fra leggerezza, soavità, vitalità e noncuranza, che la fanciulla di Nazareth irradiava intorno.
Come la vita, dietro il tratto delicato e silenzioso di piccole coincidenze, disegna e rivela la geometria di un destino, così dopo quel primo sguardo l’affinità fra di loro fu presto risaputa in tutto il paese: non c’era donna più indicata per Yosef; non c’era sposo più conveniente per Miriam. La promessa di matrimonio, nel rigore del diritto ebraico, fu atto pubblico e irrevocabile, e da allora ella poté chiamarlo «marito».
Chi avrebbe pensato che fra quella frotta di popolo accorsa per l’occasione, tra donne velate e barbe dai profili caprini, qualcuno più in alto stesse seguendo l’armonico intreccio di questi due giovani amanti? Così prima che andassero a vivere insieme, Miriam si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
Scandalo! Scandalo, che grida vendetta secondo la legge, ma non secondo lui.
Caldi fiotti di lacrime, invano, scendono a placare il rovente di un sogno infranto. Eppure Yosef non può credere sino in fondo al tradimento della sua sposa: il suo sguardo così limpido e innocente, privo di qualunque riguardo per sé, non può saper mentire. Tanto più che Miriam continua a parlargli di incursioni di angeli, nella sua casa, di una ambasciata di Jahwe in persona, di una celeste ombra che l’aveva coperta… ma tutto, in quello stato, non è per lui altro che brusio e accresce il formicolio della sua confusione.
La sua bottega adesso gli sembra l’unico mondo possibile.
«Come consegnare alla legge di Mosè la purezza dei suoi occhi? Chi abita allora quelle viscere ingravidabili? Qual è il mio ruolo in questa storia? Adonai, perché?». Un andirivieni di pensieri iniziano a mulinargli in testa in una ridda confusa e – per quell’unica scappatoia comune a chi molto soffre – lo portano con sé in una pesantezza molto simile al sonno.
Essa, come un fiume carsico assai promettente, cullandolo, lo conduce in un regno sommerso, nello spazio ampio e diradato dove angeli si danno convegno, dove ancora zampillano barlumi inattesi: «Yosef, figlio del re Davide, non temere di prendere con te Miriam, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio, e proprio tu gli darai nome Yehoshua: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Dio ama far conoscere i suoi disegni nel sogno – da sempre figura del destino –, in quel regno cioè dove ogni resistenza è allentata; dove per un momento persino la più ruvida durezza diviene malleabile e l’uomo non più padrone in casa propria, leggero per l’ineffabile.
Per questo Yosef, maestro di notti e silenzi, continuerà a ricevere oniriche rivelazioni. Questa infatti è la sua prima inafferrabile visione, ma non l’ultima. Ad esse deve davvero molto: «Alzati! Prendi Miriam, Yehoshua, la lucerna e l’asino e va in Egitto, perché Erode cerca il piccolo per ucciderlo!». E, dopo un lungo viaggio, un altro messaggero notturno lo chiamerà al rientro.
A ben guardare, sono proprio questi sogni ad aver salvato il giovane artigiano di Nazareth dalla tendenza a chiudersi sdegnoso nei propri progetti infranti; sono essi ad averlo sottratto al rischio di murarsi vivo nella propria bottega, unico possibile recinto all’infelicità.
I sogni di Jahwe hanno rivelato a Yosef quale segreto covasse dietro la sua discendenza regale – a lungo dimenticata –, lo hanno investito di un ruolo ad altri irraggiungibile: farsi custode di lei come di un giardino sigillato, e del figlio suo, come di una vigna affidata alle sue cure.
È lui uomo solitario per eccellenza, ma di una solitudine abitata, come in quei segmenti luminosi che hanno trapuntato le sue notti, frenando l’invasione delle tenebre.
La linea della sua esistenza avanza, per una splendida catena di illuminazioni, in una graduale iniziazione al proprio esser solo: le sue mani che carezzavano legno e cuoio, hanno dovuto imparare a non fare altro per tutta la vita; la sua voce, sicura e sensibile, si è astenuta dal parlare, nell’esercizio di un eterno silenzio: a chi avrebbe potuto raccontare la sua storia, l’iniziale tormento ribaltatosi poi in quell’intimo segreto, che era tutta la sua gioia? E a chi altri, se non a Miriam in quelle sere davanti al focolare, avrebbe potuto confidare le attese e i timori per quel loro figlio, ridestate di recente dalle parole del vecchio Simeone?
Ed ella sempre tornava a ripetergli le promesse di un tempo, fatte da Gabriele: «Non temere… sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo». E lui: «Si, … non temere».
L’evangelista Luca, prima di affidare definitivamente all’ombra il nostro Yosef, narra l’episodio dello smarrimento di Yehoshua dodicenne, rimasto ad ammaestrare i dottori del Tempio.
Quale effetto avrà sortito sull’animo del giovane capofamiglia, la risposta del figlioletto alle parole di Miriam, dopo il suo ritrovamento: «Figlio, perché ci ha fatto così? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli a loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo stare nella casa del Padre mio?».
Yehoshua, per Israele, ha raggiunto la maggiore età, intuisce e confessa, al cospetto di Yosef, di aver Dio per Padre: come ad esibirgli il permesso di congedo da quel ruolo paterno mantenuto fino ad allora. Tant’è vero che il putativo genitore, d’ora in poi, sparirà dalla scena e di lui i vangeli non faranno più menzione.
Poco importa se – come afferma una certa tradizione – egli sia morto prima che Yehoshua iniziasse il suo annuncio pubblico. Conta piuttosto che Yosef, gigante dell’incuranza di sé, emerga come genio di una solitudine fiera e umile, affatto risentita, capace persino di rinunciare ai propri diritti, perché Dio glielo ha chiesto, attento ai richiami di suo figlio, come un tempo lo fu ai sogni di Jahwe.
La sua è una figura realmente immensa, perché in realtà non ci vuole molta forza per esibirsi, ma ne occorre molta per ritrarsi. E lui, fino ad oggi, è all’altezza di una così grande discrezione. E non sarà un caso allora se tutti in Israele, riconoscendo Yehoshua, dicessero: «Non è egli il figlio di Yosef, il falegname?».
Gianluca De Candia è Privat Dozent presso il Dipartimento di questioni filosofiche fondamentali della teologia dell’Università di Münster e collaboratore del direttore del Dipartimento prof. Klaus Müller. Ha già pubblicato su Settimana News Il “catechismo” di Donald Trump (2 giugno 2017) e Individualisticamente democratico (7 giugno 2017).