Tra poco sono 25 anni che sono prete. Inizio così, come iniziai circa 15 anni fa, inviando una “lettera firmata” a Settimana, che allora era ancora cartacea e non solo digitale.
La mia riflessione, in questi anni, è continuata. Col passare del tempo, la persona si consolida, almeno da un punto di vista umano e, forse, anche da un punto di vista spirituale. Il che può essere positivo, nel senso che uno è più stabile, ma può essere anche negativo, perché si ha più paura del cambiamento. E oggi cambiare è quanto mai necessario – un “must”, per usare un anglicismo – ed è richiesto anche in tempi rapidissimi, sotto diversi punti di vista.
Comunità in forte trasformazione
In questi ultimi 15 anni sono successe tante cose e tanti cambiamenti sono avvenuti. Non sto a citarli. Quelli che urgono di più su di me – sul mio pensiero, sul mio cuore – sono le forti trasformazioni delle nostre comunità cristiane. Oggi quasi non le riconosco più. Certo, il covid. Ma non solo quello. Il covid è stato un formidabile acceleratore di processi che erano già in atto da tempo.
Se penso a cos’erano le nostre parrocchie negli anni ’80 e ’90 – quando incominciai il mio percorso vocazionale – mi prende una stretta al cuore. È vero. Non si deve guardare indietro con nostalgia. Quello che è stato è stato. Non nascondo che per me non è facile.
Quegli anni – come li ricordo – erano particolarmente vivi e promettenti. C’erano il card. Martini a Milano, e don Tonino Bello, vescovo di Molfetta: solo per fare due nomi che diedero molto alla Chiesa italiana di allora ed erano – non le uniche – fiaccole accese per tanti di noi…
C’era una vitalità sorprendente in quasi tutte le parrocchie, anche le più piccole: ciascuna presidiata da un parroco, magari anziano, tuttavia presente e punto di riferimento per la comunità. La pastorale giovanile era organizzata e radicata sia a livello diocesano sia parrocchiale.
Oggi non è più così. Il panorama dei vescovi italiani non esprime – almeno non mi pare – figure di una forza come quella espressa in quegli anni. E non basta appellarsi a papa Francesco e al suo magistero. Nemmeno il prossimo sinodo nazionale mi pare sia un toccasana: meglio di niente, certo, ma non nutro grandi aspettative.
Le comunità parrocchiali sono state progressivamente aggregate tra loro (le famose “unità pastorali” o “collaborazioni pastorali” o come le si voglia chiamare) e sono affidate a un parroco che generalmente si trova sempre più oberato da svariate responsabilità, spesso di carattere burocratico.
La figura del prete che mi affascinò e che sta all’inizio del mio percorso vocazionale – il prete che vive in una comunità di cui conosce ogni membro, persona per persona – non esiste più. Non è nemmeno più proponibile quel tipo di stile presbiterale. Oggi il prete conosce al massimo quelli che si occupano delle attività parrocchiali: i cosiddetti operatori pastorali. E tutti gli altri? Spesso è semplicemente impossibile raggiungerli: non ce la farebbe mai e deve accontentarsi delle fugaci occasioni offerte per la preparazione dei sacramenti (o dei funerali). Ma non è la stessa cosa.
I nostri seminari hanno numeri sempre più ristretti. Le canoniche, in molti casi, sono vuote o trasformate in luoghi di incontro della comunità, senza una presenza stabile di un prete o di chicchessia: diventano luoghi anonimi, testimoni di un passato e di una forma di Chiesa che non c’è più o è in via di consunzione.
Poi ci sono le nostre chiese, la domenica, sempre più vuote. Eccetto in alcuni momenti, certo. Sempre più vuote, soprattutto, di giovani: un po’ perché i giovani vengono meno a messa, un po’ perché sono oggettivamente pochi. Chiudono gli asili, ma chiudono e si unificano anche le scuole pubbliche perché non ci sono più bambini e ragazzi.
Non siamo una Chiesa in uscita
L’impressione è che – nonostante gli appelli ad “uscire” da parte di papa Francesco – siamo una Chiesa in ritirata, altro che in uscita verso le periferie! Stiamo ritirandoci. Ordinatamente, se si vuole. Ma siamo in ritirata. Ogni volta che muore un prete, il suo posto è preso da un altro (che contemporaneamente però deve reggere anche i posti precedentemente assegnatigli). Si procede per aggiunte progressive. Difficile, in un contesto del genere, fare una pastorale vocazionale convincente: il futuro che si apre per i giovani preti non è certo facile. Lo sanno bene. E vanno aiutati e sostenuti con un’attenzione del tutto particolare.
E i laici? Anche loro, secondo me, sono in ritirata. La loro “ora” è passata da un pezzo – come disse papa Francesco in uno dei suoi discorsi –, ma anche la loro presenza si è ridotta o è in via di assottigliamento. Quelli che si impegnano rischiano di essere sempre gli stessi, sempre meno.
Complessivamente è difficile vedere un futuro, almeno per la nostra Chiesa d’Occidente. In altre parti del mondo non è così, anzi la Chiesa cattolica sembra stare bene e crescere. Ma che speranze e che possibilità abbiamo noi, qui, Chiesa d’Occidente, Chiesa d’Italia?
Ci accapigliamo tra conservatori e progressisti, destra e sinistra, contro o pro papa Francesco, tra questioni di bioetica e questioni di carattere sociale, aborto contro migranti… Uno spettacolo infelice, che ci indebolisce ulteriormente e smentisce il vigore della parola evangelica che invoca l’unità del gregge di Cristo.
E che dire, circa dieci anni fa, della bomba degli scandali per gli abusi sui minori? Uno tsunami che – secondo me – ha lasciato e continua a lasciare uno strascico tremendo sull’immaginario collettivo della gente nei confronti della Chiesa cattolica (e dei suoi ministri).
Sementi preziose
E, quindi, che fare? Il card. Marx nelle settimane scorse ha mandato una lettera di dimissioni – non accettate dal papa – dal suo ministero di vescovo della diocesi di Monaco. Ma è facile andarsene quando la nave sembra stare per affondare. In realtà, se questa è davvero la nave di Pietro, non potrà essere inghiottita dai flutti.
Il minimo che si possa dire è che si deve aver fede, “vedendo come se si vedesse l’invisibile”. Accettando che le cose non siano più come un tempo. Che non si vedano sviluppi fruttuosi e promettenti, almeno per ora, almeno nell’immediato futuro. Siamo chiamati – ce lo ripetiamo continuamente – a scorgere il positivo che c’è anche oggi, guardando ad esso come ad una sorta di profezia per il futuro.
È un tempo, il nostro, che ci chiede una fede enorme. Forse ci domanda – questo tempo – di tornare a credere in Dio (!) e non nelle nostre capacità, nei nostri mezzi o strutture che abbiamo creato in secoli di “Chiesa militante”.
In questo tempo dovremmo diventare tutti dei mistici, uomini e donne veramente spirituali. Forse solo questo ci salverà dalla depressione o – per usare un termine della tradizione cristiana – dalla peggiore malattia dell’anima del credente che è l’accidia.
Non vedo alternative. Forse – come mi confidò uno studioso cattolico – quello che ci attende è lo stesso destino delle Chiese del Medio Oriente e del Nord Africa: spazzate via probabilmente perché implose “dal di dentro”, non perché soverchiate da un messaggio migliore. Chi lo sa… Speriamo di no.
Ci si può avviare al tramonto in tanti modi, disse qualcuno. Perdendo un pezzo alla volta, con rammarico o rancore, maledicendo il mondo e la vita. Oppure lasciando dietro di sé una scia di sementi preziose, come una specie di benedizione. E chissà che un giorno, quando le condizioni lo consentiranno, queste sementi non possano di nuovo germogliare.
Condivido in pieno l’idea(le) di una Chiesa in uscita, e del valore di alcune figure di vescovi, e non solo, che nel passato anche non lontano hanno offerto dei sentieri su cui in camminarci. Tutti. Ma anche su questo ci sono pareri molti diversi; rispettabili, ma davanti a tanti diversi pareri è difficile prendere una strada comune. E poi la grande esigenza è dare corpo a delle idee bellissime come la Chiesa in uscita. Si tratta di evitare un rischio: quello di ridurre queste intuizioni a degli slogan, che mancano però di riflessione condivisa (dare corpo alle idee è compito da condividere, è stile sinodale) che aiuti a vedere quali stili cambiare, quali scelte operare. La pastorale non è come un elettrodomestico: si rottama quello “vecchio”, si installa quello nuovo, si impara ad usare i comandi e dopo poco tutto è diverso, nuovo, fedele alle domande (e anche qui si aprirebbe un discorso non semplice!) che derivano dai nostri fratelli e sorelle. Infine… i tempi: non abbiamo la soluzione pronta e non possiamo pensare che in tempi strettissimi avremo dei risultati fantastici. Come non possiamo pensare che ci siano almeno a livello numerico le stesse presenze di prima. Annunciamo il Vangelo a tutti; lasciamo liberi ognuno di aderire.
Sì siamo una Chiesa in ritirata perché diciamo e facciamo le stesse cose. Il rischio serio è quello di chiudersi in esigue roccaforti con pochi preti e fedeli che difendono strenuamente la dottrina. Ma tutta la dottrina cattolica, che si insegna nei seminari, serve all’uomo contemporaneo? Credo sinceramente di no ma il vangelo risponde alle domande profonde dell’uomo? Credo proprio di sì per cui bisogna ripartire dal vangelo e la Chiesa deve accogliere le persone a cui ha chiuso porte e finestre. Se riteniamo che il vangelo è solo per chi vive in situazioni regolari stiamo difendendo la dottrina , ma stiamo tradendo il messaggio evangelico. Apriamo le porte e le finestre delle nostre chiese e si riempiranno perché saranno ospedali da campo, che prendono come modello il Cristo Buon Samaritano. Gesù dice che non si può mettere vino nuovo in otri vecchi (Matteo 9,17).
È errato contrapporre il Vangelo alla dottrina. La dottrina non è altro che una “spremuta” di Parola e Tradizione autentica
Se fosse così molti santi non avrebbero avuto una vita così difficile e la chiesa sarebbe radilmente diversa da quella attuale. Non nascondiamoci spesso il vangelo viene tagliato e manipolato e vogliamo un Gesù addomesticato alle nostre dottrine per questo per secoli i vangeli sono stati sepolti ma il Vaticano II ce lo ha ridonato di nuovo.
Caro Marco, la fa un po’ troppo semplice e si chiama restaurazionismo. La vera chiesa quindi sarebbe scomparsa più o meno dal terzo secolo per ricomparire nel 1965. E allora San Massimiliano Kolbe martire del nazismo e della carità non lo avrebbe mai conosciuto il Vangelo (addomesticato dalla cattivissima Chiesa cattolica?) E Madre Teresa? E San Filippo Neri? E Charles de Foucald? Come dice bene don Francesco Vangelo e dottrina non si contrappongono. D’altronde il Vangelo è una dottrina d’amore che obbliga a prendersi cura dei poveri e a vivere sobriamente, ma anche a una radicale fede in un solo vero Dio, alla castità, alla lotta per la salvezza eterna che non è scontata. Il Concilio Vaticano II ci insegna a vivere e spiegare nel mondo moderno queste cose, non certo a cancellarle.
Caro ‘parroco’, sono prete da cinquantatré anni. Se permetti mi sento vicino a te da ‘nonno’, con una profonda empatia per la tua fatica a vedere un futuro per la nostra Chiesa. Ma più che una Chiesa in ritirata, mi sembra di vedere una Chiesa ‘vecchia’ (di almeno due secoli diceva il Cardinal Martini). Una Chiesa di vecchi può essere una Chiesa in uscita? Pensando ai miei primi entusiasmi (un po’ sessantottini, vista l’epoca) e ai tuoi degli anni ’80 e ’90, mi vien da dire che è una idea da Papa venuto dai confini del mondo. Ma se la associo all’immagine dell’ospedale da campo, mi sembra che sia già uscita non poco là dove le tante iniziative caritative e sociali raggiungono, consapevolmente o no, il Signore Gesù che attende di essere incontrato nei poveri e negli ‘scartati’. Ne ho esperienza: dopo diciotto anni di Oratorio e tre/quattro parrocchie (l’ultima era formalmente una ‘unità pastorale’) frequento realtà di questo genere e ammiro il coraggio dei ‘vecchi’ volontari che tengono botta in attesa dei rincalzi, che cominciano a venire.
Il Cardinal Martini diceva che la carità è via a Cristo.
Il Cardinal Martini mi ha anche educato a ‘familiarizzare’ con il Vangelo. Nella mia formazione seminaristica la Bibbia era oggetto di studio. La spiritualità era imitazione dei Santi. Poi ho scoperto Teresa di Lisieux che non ne poteva più di esortazioni e di buoni esempi. E ha osato (per quei tempi) riaprire il Vangelo. E ho frequentato don Bruno Maggioni che nella umanità di Gesù (che offre il suo splendore man mano che si ‘familiarizza’ col Vangelo) vede non ciò che nasconde ma ciò da cui traspare la divinità di Cristo.
Sono al punto: quale Vangelo. E’ un Vangelo umanamente sorridente quello che viviamo e che offriamo come cura alla umanità ferita (all’ ‘interno’ e all’ ‘esterno’ della Chiesa)? Nell’epoca dei sorrisi vuoti degli influencer che promuovono consumi e illusioni, il sorriso sul volto rugoso di un vecchio riapre il mistero dello Spirito. E comunque tiene aperta la porta della Chiesa e delle nostre parrocchie, sia in entrata che in uscita.
Vorrei dirti tante altre cose, ma dovrei ripetere ciò che ha appena detto su queste pagine Franco Giulio Brambilla. Anche se non riusciamo a vedere grandi risultati, teniamo aperta la porta, caro parroco. Fraternamente, come sacerdote, e paternamente, come nonno. don Erminio.
Chiesa in uscita? O meglio dire Vangelo in uscita… Otri nuovi per vino nuovo,
Da semplice fedele mi chiedo : cosa significa chiesa in uscita? Nel passato lo slancio missionario e penso alle meravigliose figure di missionari che seguirono la Controriforma, i gesuiti, e gli altri, aveva alla sua base l’annuncio : Convertitevi e credete al Vangelo. Andavano e convertivano le genti e le battezzavano. Oggi non si parla più di convertire nessuno, anzi è severamente proibito farlo, ognuno deve rimanere nella propria fede. Convertire per esempio un musulmano al cattolicesimo è bollato come proselitismo. Ma allora se non dobbiamo convertire più nessuno, cosa significa chiesa in uscita? Uscire per promuovere noi stessi? Per apparire giusti e caritatevoli agli occhi del mondo? Guardate noi cristriani come siamo buoni! Se non si annuncia la salvezza che viene da Cristo e non si battezza, cosa facciamo, il marketing e la pubblicità di noi stessi? Per questo la chiesa in uscita come è concepita oggi non funziona e non può funzionare: forse è meglio a questo punto per convertire gli altri convertire prima noi stessi, ritornare alla fede. Non ci può essere slancio in “uscita” se noi stessi siamo vuoti, dubbiosi, privi di fede, stanchi, cinici, se noi stessi ci mettiamo al centro della scena come narcisisti. La chiesa in uscita è un grande bluff.
Caro Gian Piero,
condivido a pieno quanto dice.
E dirò di più: ho una certa esperienza diretta del sud del mondo e posso dire che la fede sta scomparendo anche lì. Le Filippine ormai sono in via di secolarizzazione, il sud America è perduto, la fede in Africa è spesso piantata in modo molto fragile (e appena si scopriranno anche lì abusi verso minori sarà una ulteriore emorragia), in India la chiesa è devastata da divisioni interne. Non si può negare che la perdita di sacralità del culto e la debolezza dottrinale e morale dei missionari abbiano spinto centinaia di milioni di persone verso l’agnosticismo o verso i fondamentalisti protestanti.
Sarebbe il caso di fare pace tra conservatori e innovatori e da un lato aprirsi a una maggiore attenzione agli ultimi e dall’altro ritornare a una liturgia ad orientem e al Vangelo della salvezza, con tutte le sue faticose richieste.
Ma dovremo essere noi laici a impegnarci, i seminari sono spesso un disastro e i preti del futuro potrebbero essere burocrati che non credono nemmeno più in Dio. Comunque confidiamo in Dio e in Maria: la preghiera costante non viene mai delusa.