Descrivere la prassi ministeriale dei diaconi oggi nelle Chiese locali italiane è un’impresa molto complessa. La finalità e le modalità di attuazione di questo ministero risultano alquanto diversificate e, nel cammino finora percorso, permangono ancora tante difficoltà da superare.
Prendere in considerazione, inoltre, il ministero diaconale nell’attuale contesto storico ed ecclesiale del nostro Paese significa innanzitutto avere la consapevolezza delle profonde sfide che la società, segnata da una forte complessità e da una diffusa incertezza, pone oggi alla Chiesa.
Qualche accenno storico
È del dicembre 1971 il documento fondamentale della reintroduzione del diaconato nella Chiesa italiana: La restaurazione del diaconato permanente in Italia.
Secondo l’indirizzo del documento, il diacono doveva promuovere una presenza pastorale capillare e diventare l’animatore di comunità minori, viste soprattutto come articolazioni delle parrocchie. Questa era l’esigenza prioritaria espressa dall’episcopato italiano fin dall’inizio del ripristino del diaconato. Infatti, veniva richiesta ai diaconi una presenza nelle comunità minori o in piccoli gruppi, cioè là dove la gente vive la sua esistenza quotidiana.
Siamo negli anni ’70 e proprio in quel periodo ci sono state interessanti esperienze in parecchie diocesi italiane, dove l’organizzazione delle parrocchie in comunità ecclesiali di base portò alla nascita di zone di influenza ecclesiale chiamate diaconie (ne stiamo parlando oggi come di una novità), mettendo in atto la prassi pastorale dei Centri di ascolto, la presenza per le visite pastorali dei vescovi, le missioni popolari. Questo fenomeno mostra l’efficacia di un metodo personalizzato, basato su rapporti più informali e su una più diretta possibilità di accoglienza e di dialogo con tutti.
Molti e interessanti erano i temi che avevano in questo ministero il loro punto focale e si prendeva sempre maggiore coscienza della missione del diaconato. Inoltre, negli anni del dopo Concilio, c’erano in Italia poche comunità ecclesiali e pochi teologi interessati a rispondere alle questioni di fondo sul significato, sull’identità e sulle funzioni del ministero diaconale.
Dopo un’assenza di quindici secoli, di fatto la restaurazione del diaconato poteva risultare una decisione problematica e, in ogni caso, ci si aspettava che sollevasse questioni e stimolasse riflessioni o, almeno, che innescasse reazioni vivaci. In alcune comunità, tuttavia, fu possibile registrare un interesse fruttuoso e un deciso impegno a capire questo ministero. Da queste comunità venne il maggior contributo ad una rinnovata lettura e comprensione del dettato conciliare sulla restaurazione del diaconato.
Cosa è successo negli ultimi anni?
Spesso, è stato registrato un evidente divario tra le linee programmatiche, da un lato, e le scelte pastorali, dall’altro, che hanno portato ad una prassi ministeriale eterogenea in ragione di una visione ecclesiale del diaconato che potremmo definire in certa misura oscillante.
In altre parole, alcuni tendono a ricollocare i diaconi dentro lo stato laicale di tutto il popolo di Dio, sottolineando con forza la loro peculiare distinzione sia dai presbiteri che dai vescovi; altri, invece, vogliono implementare la presenza e la considerazione dei diaconi riportandoli dentro una visione strettamente clericale che finisce per risultare disagevole e carica di nuove conflittualità.
Inoltre, alcune Chiese meno interessate ad approfondire o a tutelare l’originalità dell’identità diaconale, impegnano spesso i diaconi solo per rispondere a taluni bisogni pratici, sottovalutando così l’identità sacramentale del ministero in cambio di un “profitto” immediato a livello pastorale.
La conseguenza di tali scelte è stata una discontinua programmazione e realizzazione, con iniziative non sempre omogenee davanti alle quali il ministero stesso corre il rischio di essere primariamente forgiato secondo un bisogno pastorale contingente anziché in coerenza con la sua dimensione originaria di servizio della/alla Chiesa. E si deve ammettere che il lavoro dei teologi in Italia ha spesso mancato di cogliere l’importanza di tale ministero. Oggi sembra che ci sia una maggiore attenzione anche se non sempre adeguata e puntuale.
Cominciava, dunque, un cammino complesso del ministero diaconale, ancora in atto, che si è via via qualificato anzitutto come impegno per il discernimento e la formazione.
L’Italia è attualmente il Paese europeo col maggior numero di diaconi (precede la Germania con 2.463, mentre, nel 1995, la situazione era invertita 2.016 diaconi in Germania, 1.966 in Italia). Siamo terzi nel mondo dopo Brasile e Stati Uniti.
I dati ci dicono che i diaconi sono più che raddoppiati negli ultimi quindici anni. In Italia ce ne sono 4.654 (i candidati sono più di 1.500), distribuiti su tutto il territorio nazionale con una presenza in ben 223 (97,35%) diocesi su 227. Si registra, pertanto, un significativo movimento di evoluzione che oggi ha raggiunto quasi la totalità delle Chiese locali (solo 4 diocesi non hanno i diaconi). Vi è una prevalenza al centro (1.832) e al sud (1.649) cioè il 39,52% e il 35,57% rispetto al nord (1.155) 24,91%).
Per quanto riguarda i dati generali
L’87,41% è costituito da diaconi coniugati, i celibi sono appena l’8,42%, vedovi lo 0,35% e i diaconi religiosi lo 0,82%. Nei candidati diminuiscono ancora i celibi e i religiosi costituendo i primi il 7,21% e i secondi lo 0,15%. I pensionati costituiscono il 35,19%, il che sta a dire che l’età media dei diaconi è inferiore all’età media dei presbiteri. Notevole è il livello di cultura generale. Lo si rileva dai titoli di studio; il 25,40% di media inferiore, il 54,19% di media superiore, il 20,41% di laurea.
Interessante è anche la scala delle professioni: al primo posto è la categoria degli impiegati con il 32,69%, seguono gli insegnanti con l’11,18%, i professionisti con il 6,67% (si comprende la percentuale esigua), gli operai con il 5,57%, gli imprenditori con il 3,43%, i commercianti con il 3,29%, i militari con l’1,43%. Ci sono anche i disoccupati con lo 0,64%.
Per la formazione dei diaconi è assicurato dappertutto il tempo di propedeutica, tempo dedicato particolarmente al primo discernimento. Circa la durata di tale tempo, per il 71% delle diocesi risulta di un anno, per il 21% di due anni, per un restante 8% il tempo varia secondo le condizioni degli aspiranti. Quanto invece al tempo di formazione nella triplice dimensione spirituale, teologica, pastorale risulta per il 44% di tre anni (oltre il tempo propedeutico),
per il 39% di quattro anni, per il restante 17% di un numero vario di anni che vanno dai cinque fino agli otto.
Responsabili della formazione sono il delegato vescovile per il diaconato permanente presente in quasi tutte le diocesi, affiancato per il 22% dal direttore per la formazione e/o da un gruppo di formatori (59%) dei quali per oltre il 20% fanno parte gli stessi diaconi.
Il rito della candidatura degli aspiranti al diaconato nella maggior parte delle diocesi si fa subito dopo il periodo propedeutico, ma in 31 di esse si attende la conclusione del corso teologico o dopo che gli aspiranti hanno ricevuto i ministeri del lettorato e dell’accolitato per un più sicuro discernimento. Le spose dei candidati sono coinvolte variamente e non sempre nel cammino formativo e non sempre sufficientemente.
Da tempo, e soprattutto dopo il documento CEI del 1993 (I diaconi permanenti nella Chiesa in Italia. Orientamenti e norme), ma soprattutto dopo la pubblicazione dei Direttori delle Congregazioni, molte diocesi hanno pubblicato o adeguato un apposito Direttorio destinato a tradurre le disposizioni e le indicazioni dei testi magisteriali in rapporto alle situazioni e alle istanze locali.
Ruoli e prassi concrete
I diaconi esercitano il loro ministero prevalentemente nelle parrocchie per il 71,66%; il 15,48% è costituito da un servizio diocesano; il 9,13% da un servizio interparrocchiale (vicaria, zona); appena il 3,73% all’interno di gruppi e movimenti. È interessante notare che molti diaconi sono al servizio di parrocchie dove non risiede più il parroco. Solo il 14,26% svolgono un servizio a tempo pieno; l’83,42% svolgono un servizio a tempo parziale e il 2,32% un servizio saltuario. Attualmente il ministero diaconale è sbilanciato sulla liturgia con il 43,9 %, segue la carità con il 29,6%, per ultimi vengono l’annuncio e la catechesi con il 26,5%. Per quanto riguarda l’ambito della carità, l’impegno nel sociale occupa appena il 4,13% e quello nel sindacato lo 0,90%.
A partire da qui si deve rispondere anche alle molte domande in relazione al ripristino del diaconato. I diaconi sono realmente ordinati in relazione al loro compito originario? O vengono utilizzati essenzialmente, nel quadro delle necessità di fatto esistenti nelle nostre comunità, per tappare dei buchi venutisi a creare soprattutto a causa della diminuzione delle vocazioni presbiterali?
Ma ci si chiede anche se nelle nostre comunità poniamo – o abbiamo posto – le giuste priorità. Che valore ha per tutti noi la diaconia, che non può essere coperta semplicemente mediante il lavoro altamente meritorio della Caritas?
È molto interessante, considerare – anche dal punto di vista della frequenza – ciò che i diaconi fanno rispetto alle “funzioni ministeriali fondamentali” (liturgia, catechesi/evangelizzazione/predicazione, carità) e come ordinano il loro servizio pastorale in relazione a queste diaconie.
Le prassi ministeriali
1) Non esistono praticamente attività pure, cioè attività appartenenti solo alla diaconia o solo alla liturgia o solo alla catechesi/predicazione. Ciò dimostra che, anche dal punto di vista teologico-pastorale, siamo di fronte ad una fluidità operativa nei vari settori della vita ecclesiale.
2) Colpisce il fatto che i diaconi dedicano più tempo alle attività con scarso contenuto diaconale piuttosto che a quelle con forte contenuto diaconale.
3) I diaconi trovano più facili i compiti ritualizzati rispetto a quelli che richiedono un servizio più impegnativo: così, ad esempio, la celebrazione del battesimo (la trova facile il 91%), l’amministrazione dei sacramentali (82%), le omelie (80%), i matrimoni (80%), i funerali (78%). Chiaramente la ritualizzazione semplifica il lavoro.
Tendono, invece, a evitare ciò che è meno facile: catechesi sacramentale (solo il 48% la trova facile), il lavoro con i bambini e i giovani (45%), la formazione degli adulti (45%), l’insegnamento della religione (42%), le celebrazioni della Parola (87%), l’assistenza ai malati e agli anziani (80%), la pastorale carceraria e oggi direi una nuova frontiera diaconale: l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.
Al di là dei numeri, mi sembra interessante adottare, però, uno strumento di indagine in grado di andare oltre le cosiddette evidenze statistiche e fare invece una ricognizione agile e sintetica degli stili diaconali emergenti che di fatto caratterizzano, a livello di progettualità e di concreta ministerialità, il cammino ecclesiale dei diaconi nelle nostre comunità. Cioè, evidenziare quei tratti ricorrenti e quei problemi emergenti che, in questi cinquant’anni di ministero diaconale, sembrano contraddistinguere la diaconia ordinata.
Ma è necessario ancora fare qualche precisazione. Uno sguardo ravvicinato alla pastorale delle Chiese locali svela che ci troviamo di fronte ad una realtà esperienziale diversificata: da una parte, il dato dell’estrema varietà delle condizioni pastorali delle singole Chiese locali; dall’altra, l’eccessiva, e a volte ingiustificata, prudenza pastorale e una discrezionalità vocazionale. Si tratta di un cambiamento di mentalità che merita di essere approfondito, per comporre gli aspetti contraddittori presenti sul territorio.
Le differenze visibili derivano non solo dalla diversità socio-economica delle singole aree (nord, centro e sud), ma anche dalle diverse concezioni teologiche di questo ministero – sia nella teoria che nella pratica – che, conseguentemente, portano ad altrettante forme di realizzazione del diaconato.
Anche se le modalità di impostazione e di sviluppo del diaconato appaiono differenziate e, per molti versi, ogni realtà locale costituisce un caso a sé, è possibile, tuttavia, individuare determinati problemi e alcune tendenze comuni a tutte le diocesi, grandi e piccole, partendo dall’avvicendarsi delle generazioni di diaconi e dalla fluttuante nomina dei delegati vescovili.
Quattro diverse generazioni di diaconi
Dal Concilio ad oggi si sono succedute quattro diverse generazioni di diaconi.
La prima generazione basava il suo servizio sul trinomio Chiesa, eucaristia e carità, che permetteva di coniugare il ministero liturgico con il servizio ai poveri. Il contributo offerto da questa generazione di pionieri fu importante sul piano della testimonianza, ma risultò tuttavia ancora debole a livello della formazione teologica e ministeriale.
Dentro la nostra Chiesa c’era, durante quegli anni, un atteggiamento poco favorevole alla restaurazione del diaconato: una parte dell’episcopato mostrava interesse ad accogliere i molti vantaggiosi servizi del diacono senza accettare, d’altra parte, i necessari cambiamenti che la presenza dei diaconi implicava dentro le comunità.
Le prime Chiese aperte a questa presenza furono Napoli, Torino e, in particolare Reggio Emilia, dove don Alberto Altana instancabilmente spese le sue energie in un prezioso lavoro promozionale in favore del diaconato.
La seconda generazione (anni ’80) promosse la crescita del diaconato in molte diocesi, nelle quali i vescovi centrarono lo sviluppo di questo ministero sull’importanza di un processo di formazione globale – umana, teologica e ministeriale –. Furono così creati appositi istituti con corsi precisi e docenti specializzati, ma questo processo di istituzionalizzazione, per un altro verso, indebolì in certa misura la cura caritatevole dei poveri. In questo periodo il diaconato guadagnò una forte solidità culturale, ma perse il riferimento eucaristico della carità necessario per incontrare i fratelli bisognosi, in quello slancio missionario che era invece naturale per la prima generazione.
La terza generazione di diaconi (dagli anni ’90 in avanti) fu molto attenta all’importanza del processo di formazione, ora più equilibrato anche grazie alle chiare indicazioni contenute nei documenti fondamentali del magistero. Sia i vescovi che i presbiteri cominciarono ad apprezzare il ruolo suppletivo dei diaconi, interpretandolo come un aiuto concreto – più o meno provvidenziale – per rispondere alla carenza di sacerdoti. Di conseguenza, proprio per il forte accento posto sul servizio liturgico, il rischio maggiore della terza generazione è quello di essere soprattutto affascinati dagli aspetti esteriori delle vesti e delle cerimonie liturgiche, mostrando scarso slancio missionario e mantenendo una certa distanza proprio dai poveri e dai bisognosi.
La quarta generazione (anni 2000) ci offre diaconi che hanno raggiunto un certo equilibrio nel loro ministero. La formazione si è attestata in quasi tutte le diocesi, nonostante il Processo di Bologna, con la frequenza presso gli ISSR e le Facoltà teologiche con percorsi che vanno dai 4 ai 5 anni. Tanti sono i pensionati. C’è adesso un maggior coinvolgimento nella pastorale della carità e della salute. Infatti, diversi sono i diaconi chiamati a livello diocesano a ricoprire il ruolo di direttori delle Caritas e degli uffici per la pastorale della salute. Rimane sempre forte uno sbilanciamento sul servizio liturgico con le conseguenti difficoltà di rapportarsi con i parroci. È sempre meno lo slancio missionario e il coinvolgimento delle spose.
Il delegato vescovile
In questo contesto bisogna spendere anche una parola sui delegati vescovili per il diaconato. Va precisato subito, che «responsabile ultimo del discernimento e della formazione è il vescovo», come scrivono i vescovi italiani nel documento succitato al n. 12b. Interessante è anche l’invito discreto
perché il vescovo, pur servendosi dell’azione di un delegato, cerchi di «conoscere personalmente quanti si preparano al diaconato».
La ragione è semplice: il vescovo ha la guida della Chiesa particolare e a lui, come centro visibile di comunione, fanno capo tutti i diversi ministeri. Tuttavia, soprattutto per ragioni pratiche, il vescovo esercita ordinariamente questa premura tramite un suo delegato. Anche se non possiamo parlare di generazioni di delegati, sicuramente in questi anni c’è stato un avvicendamento piuttosto frequente nella nomina dei delegati i quali, oltre a questo compito, hanno in diocesi tanti altri impegni. Quello del delegato è un compito determinante e fondamentale per la promozione e l’accompagnamento del ministero diaconale nella prassi ministeriale. Il problema è che, spesso, il delegato si sente troppo solo e tra due fuochi (diaconi e presbiteri).
Il rapporto tra diaconi e parrocchie/presbiteri
Il rapporto tra diaconi e parrocchie/presbiteri costituisce sicuramente un dato estendibile a tutte o quasi le realtà diocesane: è nella parrocchia che il diacono vive primariamente il suo legame con la Chiesa locale. Ma, se la parrocchia è, da una parte, il “luogo privilegiato/ordinario” dove si realizza il ministero diaconale, essa è, dall’altra, anche il terreno sul quale i diaconi incontrano problemi (soprattutto nei rapporti con i presbiteri, ed in particolare con i più giovani) e difficoltà che, nella maggior parte dei casi, sembrano riconducibili ad una sostanziale mancanza di fiducia in relazione a responsabilità pastorali da affidare in parrocchia proprio ai diaconi.
La carenza di presbiteri è una delle urgenze più serie della Chiesa italiana e la conseguente crescita delle comunità senza presbitero ha portato ad una nuova modalità di servizio del diacono: presiedere le celebrazioni domenicali in assenza di presbitero. Inoltre, in alcune diocesi, soprattutto al nord, si è avviata l’esperienza di comunità affidate in solidum ad un gruppo di presbiteri e diaconi, formando le cosiddette unità pastorali (poco decollate).
Bisognava dare più spazio alla centralità che, nell’esercizio dei ministeri, acquista la Chiesa locale. Anzitutto lo stretto rapporto con i vescovi: un rapporto da tradurre in ascolto e in dialogo intorno alle istanze e agli impegni prioritari di carattere diocesano. Questo aiuterebbe i diaconi a comprendere che la parrocchia – e la parrocchia di origine – di per sé non è l’ambito prioritario da privilegiare se non in via transitoria. Anche per evitare che il diacono venga considerato una sorta di “vice-parroco” o di ministro dimezzato. In questo tempo, però, bisogna riconoscere che in alcune diocesi i vescovi hanno affidato la direzione degli Uffici della pastorale della salute, della Caritas, della pastorale carceraria e della famiglia ai diaconi. Siamo però ancora agli inizi.
Con questa panoramica ho cercato di presentare molto sommariamente quali sono state le spinte progettuali e quali intendimenti ecclesiali hanno segnato il ministero diaconale, lasciando intravedere, insieme alle luci, anche le zone d’ombra.
Quali i problemi aperti?
Se, di fatto, le funzioni del diacono partecipano alla natura specifica dei tria munera Christi propri di tutto il popolo di Dio, esse devono essere esercitate con il carattere specifico del ministero ordinato. Anche l’attività laicale professionale o di lavoro ha un significato diverso da quella del laico, proprio per il suo collegamento con il ministero.
La novità che emerge dal Direttorio del ’98, e che non è stata colta e valorizzata, è l’indicazione in cui si chiede che già al momento dell’ordinazione si affianchi sempre un’investitura pastorale specifica, che metta in risalto le funzioni proprie del diacono così che queste vengano partecipate a tutta la Chiesa locale e non siano viste, quale elemento sostitutivo dell’impegno di altri o come un fatto privato.
Non si può negare che le tre diaconie (evangelizzazione, liturgia e carità) siano state accompagnate da molte riflessioni, come è altrettanto evidente che le stesse si mostrino non colte pienamente. Pertanto, si può intravedere l’esistenza di un ministero, che sembra marginale rispetto alle tre diaconie sopra dette. Così, spesso la diaconia della carità passa al di fuori del ministero diaconale e si trova ormai sempre più spesso un’utilizzazione dei diaconi negli uffici e negli incarichi diocesani per svolgere opere di assistenza, o a volte anche di sola manovalanza, che non hanno relazione alcuna con il ministero diaconale.
Purtroppo, la diaconia liturgica si risolve in un certo presenzialismo rituale, più attento al formalismo delle sacre cerimonie che realmente partecipe del mistero liturgico. Accanto alla diaconia liturgica della Parola non si è visto normalmente alcuna opera di evangelizzazione o di catechesi da compiere nei punti caldi e nelle zone di confine e di periferia della vita ecclesiale. Complessivamente si potrebbe avere la sensazione che il diacono goda di una posizione influente all’interno della Chiesa, ma in alcune situazioni siamo di fronte ad un’assenza del ministero diaconale, direi una presenza debole.
Quale ministero fortemente estroverso, il diacono dovrebbe esercitare la sua evangelizzazione nel mondo; essendo uomo del relazionato sociale, deve realizzare – come scrive papa Francesco – un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale all’interno della società che includa tutti e non escluda nessuno.
Dunque, da dove derivano le persistenti e diffuse zone d’ombra che hanno portato quasi a fraintendere il senso e il ruolo della diaconia (non del diaconato)?
Anche se in questo contesto non si ha modo di approfondire ampiamente le cause di questo disagio, mi pare si possa dire che sono riconducibili a tre irrisolti e ben precisi nodi ecclesiali:
- Scarsa conoscenza di una teologia della ministerialità ordinata e del sacerdozio comune dei fedeli;
- Inadeguati e difformi criteri di discernimento vocazionale alla diaconia;
- Confusa e improvvida collocazione del ministero diaconale all’interno di una conduzione pastorale spesso guidata da esigenze prammatiche.
Da questi nodi mi sembra derivino tutte le altre problematiche attuali che devono essere oggetto di riflessione, di studio: dalla formazione teologica e dal discernimento vocazionale alle concrete forme di esercizio del ministero, dalla relazione con i movimenti ecclesiali oggi emergenti al complesso rapporto con i presbiteri e con i vescovi; dalle modalità di un’effettiva formazione permanente all’avvio di percorsi formativi mirati, al ruolo della famiglia in ordine alla vita ministeriale dei diaconi uxorati, alla maggiore attenzione ai diaconi celibi, per evitare l’estinzione o la tentazione di ordinarli presbiteri.
Conclusione
Un diaconato più aderente è possibile e, se è possibile, allora bisogna avere l’audacia – insieme – di realizzarlo. La situazione profondamente cambiata rispetto ai tempi passati invoca da parte della Chiesa e soprattutto dai diaconi un supplemento di coraggio e di profezia.
Contro le molteplici situazioni di smarrimento e di paura di questo tempo, i diaconi devono essere capaci di affrontare e di generare – in nome della speranza e coi loro gesti concreti – pensieri freschi e nuovi nell’animo di tutti e di vincere, innanzitutto, il senso di apatia e di assuefazione che sembra a volte pervadere la vita delle nostre comunità e la mentalità di alcuni diaconi. La lezione del passato ha bisogno di essere ripresa in mano, con spirito nuovo e rinnovato entusiasmo.
Il Concilio, riecheggiando una frase di Teilhard de Chardin, ha detto che il futuro sarà di coloro che avranno presentato al mondo il più grande e più probante messaggio di speranza. La speranza per il futuro del ministero diaconale nella Chiesa italiana, dunque, è che la diaconia sacramentale sia un segno luminoso di testimonianza e di profezia, in mezzo alle povertà e ai bisogni del nostro tempo.
Questo è il percorso della diaconia: dal cuore della Chiesa al cuore dei “Fratelli tutti”.
Cf. SettimanaNews
L’attenzione all’esercizio del ministero e al suo rapporto con la comunità cristiana rappresenta uno dei temi centrali seguiti da SettimanaNews, sia per offrire spunti di riflessione sia per aprire un dibattito pubblico sulle trasformazioni che il ministero sta conoscendo – e su quelle a cui la Chiesa dovrebbe urgentemente mettere mano in vista di una sua significativa presenza nella vita della fede nel prossimo futuro.
S. Armanni: Caro prete…
R. Zanon: Cara Sara…
L. Maistrello: Crisi dei preti, riflessioni e proposte
Il problema del diaconato in assoluto e in generale è di una sola natura e cioè che l’esercizio dei tria munera non può dipendere dalle paturnie del presbitero a cui il diacono è affiancato e, stante le disposizioni e indicazioni canoniche a questo riguardo, il ministero della liturgia, carità ed Eucaristia, devono essere esercitate in sintesi e non una a scapito dell’altra.
Oggi solo se vi è un presbitero illuminato che non ha timore di ombre diaconali il ministero può essere esercitato nella sfera del servizio.
E ancora; sino a quando non si darà pieno compimento al canone 6 del Concilio di Calcedonia, ovvero a una precisa missione canonica affidata al diacono che, tradotto nell’attuale Diritto Canonico, statuisce che alcuno può essere ordinato per nulla, la restaurazione del diaconato sarà solo un vento dello Spirito Santo soffocato sul nascere.
Empirico, generico e vago, alla fine resta l’equivoco del diacono “chierichetto troppo cresciuto” o controfigura del prete, il quesito irrisolto del proprium diaconale. Mi sembra che anche fermandosi a lavori molto accessibili, siano possibili riflessioni sulla teologia del diaconato azzardando qualcosa di più (Dario Vitali “Diaconi che fare” Fabrizio Mandreoli “Note di riflessione contestuale sulla teologia del diaconato”)