Don Francesco Cosentino aggiunge una terza riflessione alle due già pubblicate su Settimananews a firma sua e dedicate al tema della «crisi del prete» (cf. Settimananews 2 e 14 luglio). Don Francesco Cosentino, 38 anni, presbitero della diocesi di Catanzaro-Squillace, è attualmente officiale presso la Congregazione per il clero e docente incaricato presso la Pontificia Università Gregoriana.
Da qualunque prospettiva si affronti la crisi del prete, se non si vuole scivolare in una lettura superficiale e sociologica del ministero, la domanda che ritorna è quella della sua identità: chi è il prete?
Abbiamo iniziato a parlarne negli interventi precedenti all’estate e ci siamo soffermati sul valore dello “scarto” e sull’importanza di riconciliarci con esso. Il limite, in molti casi, è una benedizione non solo per proteggere se stessi e “non bruciarsi” ma, più in positivo, per avere a disposizione, pur dentro stanchezze e scoraggiamenti, energie creative attraverso cui ripensare in modo sempre nuovo il ministero.
Alla realtà dello scarto sono connaturali alcune sfide di natura umana e spirituale, che variano a seconda delle condizioni anagrafiche, biografiche ed ecclesiali del prete.
La cura di sé
Il prete giovane, che arriva carico di aspettative e di desideri coltivati negli anni, spesso si scontra con una realtà diversa da quella immaginata; può sentirsi deluso, scoprirsi inesperto, sentirsi isolato. La sfida è tanto faticosa quanto di grande valore: imparare a non idealizzare né se stessi, né la Chiesa che mi sta intorno. E ci si scopre ogni giorno bisognosi di imparare e di essere afferrati dalla mano di Cristo. Si viene così forgiati, anche se talvolta a caro prezzo, in quell’umiltà che è un tratto tipico del cristiano e del pastore.
Ciò non toglie che, nella Chiesa, occorra puntare sul sostegno e sull’accompagnamento dei preti, soprattutto dei più giovani. L’ho sentito scandire da Papa Francesco, il 1° giugno scorso, durante l’assemblea plenaria della Congregazione per il clero: «Non lasciarli da soli. La vicinanza: i vescovi vicini ai sacerdoti; i vescovi vicini ai preti».
Anche chi è meno giovane – non solo d’età ma come anni di ministero – deve abbracciare delle sfide. Le situazioni pastorali, le relazioni con il popolo di Dio, l’annuncio della Parola e la guida della comunità in contesti sempre più frammentati e secolari, si uniscono alle maturazioni interiori della propria vita, ad alcune diffuse disillusioni che ci abitano, alla rigidità degli schemi pastorali adottati, all’apatia nei confronti della preghiera o del lavoro, a certi pregiudizi che si sono formati nel tempo, e cosi via.
Sottolineo questi aspetti perché – mi sembra – quando si parla del prete, di come dovrebbe essere il suo ministero e della sua crisi, ci si dimentica troppo spesso della sua umanità.
Vorrei dirlo, oltre che ai vescovi, ai fratelli laici: un prete cresce, cambia, invecchia. Talvolta mastica amarezza, frustrazione e solitudine. Altre volte si porta dentro una gioia che desidera condividere e comunicare. Si ammala e si stanca. Sbaglia, certo; ma ha bisogno di una discreta tenerezza piuttosto che di moralismo e giudizio. Insomma, non dimenticate che è un uomo e non un super-eroe.
A volte, farebbe bene anche a noi preti ricordarlo e integrare, come aspetto imprescindibile della stessa spiritualità e della preghiera, tutto ciò che serve per restare umani e prenderci cura della nostra umanità.
Restare aperti
Dentro queste situazioni personali e pastorali, il prete si forgia. Non attraverso un ideale astratto, ma nelle condizioni cangianti della vita e nell’affascinante tempesta delle relazioni umane e pastorali. Qui, la sfida è quella di imparare a restare aperti, senza minimizzare con superficialità le situazioni ma, di contro, senza scivolare nell’atteggiamento cinico e pessimista di chi ha già tirato i remi in barca.
Dinanzi alle nuove forme pastorali, ai problemi inediti della comunità, ai momenti storici della vita della Chiesa, ai nuovi scenari culturali e spirituali, il prete rimane aperto. Con i suoi cinque pani e due pesci, pronto a ricominciare sempre e di nuovo. Senza scegliere mai scappatoie facili, egli rimane in partenza verso una terra straniera che sarà Dio a indicare, in bilico tra la paura del nuovo e il coraggio di osare, con a bordo la capacità di abbandonare ogni sicurezza acquisita – anche quella ecclesiale – per rimettersi in gioco ogni giorno.
Si tratta di “accettare lo scarto”, ma tenendo largo il cuore. Di abbracciare l’universale missione del regno di Dio, ma incarnandola nella limitata cornice della carne e della storia. Di contro, si tratta di entrare con compassione e viscere di tenerezza nella storia degli uomini, ma ricordando di alzare lo sguardo in alto verso la nostra vera patria, che è altrove. Inviati al e nel mondo, ma senza incatenare mai il ministero a quella “mondanità spirituale” che, sotto apparenze religiose e formali, va nella direzione della ricerca di se stessi, del proprio potere e della propria gloria.
Grazie per la condivisione don Giuseppe. E buon lavoro!
Carissimo Don Francesco condivido appieno la tua riflessione sui preti, la crisi e la loro umanità. Essere persone incarnate spesso in una realtà di pseudo religiosità, questo richiede grande coraggio e apertura, come dici tu verso l’alto. Riflettendo sugli ultimi avvenimenti incresciosi e anche tragici che si sono verificati nella nostra diocesi di Mileto, apprezzo molto quello che dici riguardo l’umanità del sacerdote: spesso non ascoltati nemmeno dai propri vescovi. Continua a scrivere senza perderti in falsi ideali. Grazie. Don Florio