La Francia, come gran parte dei paesi occidentali, soffre di una grave mancanza di nuove vocazioni sacerdotali. Nel giro di un anno il numero delle ordinazioni è diminuito del 15 per cento. Circa due terzi della diocesi non ne hanno avuto nessuna. C’è solo un gruppo che registra una crescita ed è quello dei «tradizionalisti». Un nuovo prete su cinque, ossia il 20 per cento, appartiene infatti a questo gruppo.
Sono i dati del quotidiano cattolico La Croix pubblicati mercoledì 4 luglio scorso. Mentre nel 2017 il numero dei nuovi preti era stato di 133, nel 2018 è sceso a 114. Tra questi nuovi preti, 82 sono diocesani, mentre i rimanenti appartengono ai vari istituti religiosi e alle Comunità di vita apostolica. Nel 2018, 58 diocesi su 96, non hanno avuto nessuna ordinazione sacerdotale.
Le diocesi
Le diocesi con il maggior numero di nuovi preti sono Parigi e Bordeaux, ognuna con 6 ordinazioni. Per Parigi ciò significa però una diminuzione: nel 2016 infatti i nuovi preti erano stati 11 e nel 2017, 10. Seguono poi le diocesi di Lione, Versailles e Frejuis-Tolone, ciascuna con 5 nuovi preti e quindi la diocesi di Évry-Corbeil-Essonnes con quattro ordinazioni.
In controtendenza sono invece le cosiddette comunità «tradizionaliste»: Durante quest’anno, uno su cinque, ossia il 20 per cento dei nuovi preti in Francia appartengono a queste comunità: tre sono state le ordinazioni per l’Istituto del Buon Pastore, due per la Fraternità San Pietro e due anche per l’Istituto di Cristo Re e Sommo Sacerdote. Queste comunità inoltre possono contare su un notevole gruppo di sacerdoti giovani.
Un particolare di rilievo in Francia è l’aumento delle vocazioni adulte. Secondo una rilevazione della Conferenza episcopale effettuata nel 2016, cresce soprattutto il numero di preti ultraquarantenni. Anche il nuovo arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit è entrato i seminario all’età di 39 anni.
Gli istituti tradizionalisti
Gli istituti «tradizionalisti» di cui si parla hanno un’origine recente. Sono:
- La Fraternità sacerdotale San Pietro: è una società clericale di vita apostolica di diritto pontificio. Fu eretta da Giovanni Paolo II il 18 luglio 1988 con sede presso l’ex abbazia cistercense di Hauterive (Svizzera) per i sacerdoti e seminaristi che avevano lasciato la Fraternità sacerdotale San Pio X. Sono sacerdoti che non professano i voti ma che lavorano insieme per una comune missione nel mondo con due particolari obiettivi: la formazione e santificazione dei preti per mezzo dell’esercizio pastorale conformando in modo particolare la loro vita al santissimo Sacrificio della messa con l’osservanza delle tradizioni liturgiche e disciplinari della forma straordinaria del rito romano e l’assegnazione dei sacerdoti al servizio della Chiesa.
- L’Istituto di Cristo Re e Sommo Sacerdote è stato fondato nel 1990 da mons. Gilles Wach e da don Philippe Mora nel Gabon, in Africa. Parte integrante del carisma dell’Istituto è l’uso della liturgia latina tradizionale del 1962 applicata al santo Sacrificio della Messa e agli altri sacramenti. Gli elementi essenziali della spiritualità dell’Istituto sono una grande cura della liturgia, un’assoluta fedeltà alla dottrina della Chiesa e al Papa, e una coscienza viva del ruolo centrale della grazia che opera nella carità.
- L’Istituto del Buon Pastore è una società di vita apostolica di diritto pontificio, costituita l’8 settembre 2006 a Roma dalla Congregazione per il Clero. Celebra la Santa Messa in forma tridentina secondo il messale del 1962. La Santa Sede ha assegnato all’Istituto “l’uso esclusivo della liturgia gregoriana” per la Messa e per tutti i Sacramenti, secondo “i libri liturgici in vigore nel 1962”. La liturgia tradizionale è dichiarata “rito proprio dell’Istituto in tutti i suoi atti liturgici”. L’istituto promuove inoltre una “critica costruttiva” nei riguardi del Concilio ecumenico Vaticano.
I membri di questi istituti non amano di sentirsi definire «tradizionalisti»; si considerano semplicemente «cattolici». Per conoscere meglio il loro pensiero è interessante leggere alcune risposte dell’attuale direttore tedesco della Fraternità San Pietro, p. Bernhard Gerstle, tratte da un’intervista del 24 aprile 2017 e pubblicata sul sito tedesco katholisch.de.
La Fraternità di San Pietro
Questa Fraternità, che lo scorso 9 luglio ha eletto il suo nuovo Superiore generale (p. Andrzej Komorowski), secondo i dati diffusi il 24 ottobre 2016 è composta di 425 membri, di cui 270 preti, 23 diaconi e 132 seminaristi. La maggior parte dei membri è di origine statunitense (140), seguita dalla Francia (114) e dalla Germania (51). Sul piano mondiale è diffusa in 124 diocesi. La formazione dei candidati al sacerdozio avviene a Wigratzbad (Allgäu, Baviera) e a Denton (Nebraska, USA).
– In quali punti la Fraternità San Pietro si differenzia dalla Fraternità sacerdotale San Pio X di Lefebvre?
Innanzitutto bisogna notare che ci sono diverse correnti all’interno della Fraternità San Pio X. Bisogna distinguere tra l’ala moderata e l’ala intransigente. Nel mondo di lingua tedesca, all’interno della Fraternità c’è un maggior numero di preti moderati, desiderosi di evitare una rottura permanente con Roma e interessati a giungere a un accordo. Dall’altra parte stanno gli intransigenti che rifiutano in gran parte il Vaticano II, per esempio la libertà religiosa o il decreto sull’ecumenismo e diversi di essi anche la validità della nuova liturgia. La Fraternità San Pietro, da parte sua, ha intrapreso uno studio senza pregiudizi dei testi conciliari ed è giunta alla conclusione che in essi non esiste alcune rottura con le precedenti affermazioni dottrinali. Ci sono tuttavia vari testi formulati in maniera tale da dar luogo a degli equivoci. Da parte di Roma ci sono stati dei chiarimenti che anche la Fraternità San Pio X dovrebbe riconoscere.
– Ci sono anche altre differenze?
Senz’altro per noi è normativo anche il nuovo diritto canonico del 1983. A questo proposito, mi sembra che anche da parte della Fraternità San Pio X ci sia bisogno di chiarimenti. Così pure, bisognerebbe evitare termini come «Chiesa ministeriale» o «chiesa conciliare». Noi li rifiutiamo perché non solo esprimono una certa distanza, ma anche perché per noi non esiste una chiesa pre- e post- conciliare. C’è solo una chiesa che risale a Cristo. Inoltre, noi esercitiamo sempre il nostro apostolato d’accordo con i vescovi e i sacerdoti del luogo e cerchiamo di vivere con essi in buona relazione fraterna. Quasi ovunque i nostri sacerdoti hanno un buon rapporto con la chiesa locale. Non vogliamo polarizzare o dividere, ma nelle comunità in cui operiamo, cerchiamo di trasmettere ai fedeli un atteggiamento ecclesiale…
– Tuttavia la Fraternità San Pietro viene chiamata «tradizionalista». Le piace sentirselo dire?
Non mi piace affatto questo termine. Noi non siamo “tradizionalisti” ma semplicemente cattolici. E come cattolici apprezziamo la Tradizione. Ma non in modo tale da essere del tutto contrari ai cambiamenti e agli adattamenti organici.
– Quali sono le preoccupazioni principali della Fraternità san Pietro?
Anzitutto la celebrazione della liturgia nella forma straordinaria latina. La ricerca di una degna celebrazione della santa messa, assieme a una fedele predicazione, è un servizio importante per la Chiesa. Nostra preoccupazione principale deve essere la premura per la salvezza delle anime, come di continuo sottolinea Papa Francesco. Dobbiamo sempre far capire alla gente che si tratta della vita eterna che si decide qui sulla terra. Anche il messaggio di Fatima, dove la beata Madre di Dio è apparsa un secolo fa, dovrebbe essere ricordato in questo senso. Purtroppo nei decenni scorsi i novissimi sono passati in secondo piano a favore di temi secondari, così che molti cristiani non sanno più di cosa si tratta in questa vita. Ciò ha portato a minimizzare il peccato e ad una perdita diffusa della pratica della confessione.
– Lei rifiuta la nuova liturgia?
Noi riconosciamo la nuova liturgia come valida e legittima. Ma non possiamo non vedere che molti sviluppi della riforma liturgica si sono resi autonomi, allontanandosi da ciò che è la messa secondo la fede della Chiesa. Spesso il carattere sacrificale passa in secondo piano oppure c’è una mancanza di profondo rispetto verso il Santissimo. Siamo riconoscenti soprattutto a Benedetto XVI che ha richiamato l’attenzione su questi sviluppi negativi. Per esempio, l’orientamento della celebrazione ad orientem e la comunione in bocca e in ginocchio non sono oggi quasi più praticati. Il problema è di sapere se questi cambiamenti della forma esterna non abbiano portato non pochi preti e fedeli a una concezione piuttosto protestante della messa.
– Non sarebbe avvenuto se si fosse rimasti alla “vecchia messa”?
Probabilmente non in questa misura. Certamente ciò non è da attribuire unicamente ai cambiamenti nella liturgia. Anche l’attuale formazione al sacerdozio dovrebbe essere ripensata. Ma la liturgia è una tessera importante nell’insieme del mosaico poiché è l’espressione visibile della fede. Sono esattamente questi i numerosi segni di rispetto e di adorazione che sono collegati con la forma straordinaria della messa, come anche le preghiere ad esprimere il carattere sacrificale della messa e a manifestare in maniera appropriata il grande mistero che si compie sull’altare.
– Cosa pensa della partecipazione attiva dei laici. Come si adatta ciò alla vecchia liturgia in cui il prete è in certo senso l’unico attore e la lingua latina un ostacolo a una partecipazione consapevole?
Bisogna considerare attentamente il documento conciliare sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium. Ci sono infatti delle differenze significative rispetto a ciò che in seguito è stato realmente attuato. Nel documento, per esempio, non è mai detto che la lingua latina dovesse essere abolita. Bisognava soltanto dare un conveniente spazio alla lingua del luogo. Ed è quanto anche noi facciamo, per esempio, nelle nostre messe, leggendo le Scritture in lingua tedesca. I fedeli che vengono da noi hanno tutti un messalino bilingue. Non vedo nella lingua alcun ostacolo a una partecipazione attiva alla messa.
– E la partecipazione attiva dei laici?
A mio parere, il Concilio non intendeva dire che possibilmente ci fossero molti laici come attori liturgici nello spazio dell’altare. Piuttosto che i fedeli fossero più coinvolti nell’evento del sacrificio della messa. Ciò non significa necessariamente vederli attivi, ma che abbiano a partecipare con maggior frutto spirituale. In passato, durante la messa, si recitava il Rosario. Il Concilio ha voluto mettere fine a questa consuetudine ed promuovere una partecipazione più consapevole alla messa.
– Benedetto XVI nel 2007 con la lettera Summorum Pontificum ha liberalizzato l’antica liturgia. Si dovrebbe tornare indietro a prima a della riforma liturgica?
Penso che la vecchia liturgia non si possa semplicemente reintrodurre nelle parrocchie e imporla in una certa qual misura alla gente. Ciò è una cosa che non andrebbe. L’intenzione di Benedetto XVI, a mio parere, fu di fornire una misura per una possibile riforma della riforma. Ambedue le forme del rito possono così arricchirsi reciprocamente. Sono convinto che determinati elementi della vecchia liturgia possono essere benefici per la nuova, ma anche il contrario che elementi della nuova liturgia possono costituire un arricchimento per la forma straordinaria del rito romano: penso per esempio al maggiore spazio dato testi scritturistici nella liturgia della Parola o al silenzio meditativo dopo la comunione. Inoltre bisognerebbe, in un tempo prevedibile, aggiornare il calendario dei santi per la forma straordinaria di celebrazione.
– Contate su una nuova riforma della liturgia?
In questo momento non penso che sia un tema attuale. Papa Francesco non considera la liturgia una sua preoccupazione come lo era per Benedetto XVI. Egli ha altre priorità. Tuttavia c’è da osservare tra il giovane clero una crescita di interesse per la vecchia liturgia. Un numero crescente di preti che celebra almeno occasionalmente la messa nella forma straordinaria. È un fatto che ha delle ripercussioni sul modo con cui la nuova liturgia viene celebrata, così che l’aspetto del sacro acquista sempre più influsso.
– Circolano voci di una possibile riunificazione tra Roma e la Fraternità San Pio X. Qual è oggi il rapporto tra la Fraternità San Pietro e quella di San Pio X e che cosa riserverà il futuro?
Recentemente si sono moltiplicate le voci di una possibile riconciliazione con Roma. Non bisogna dimenticare che da parte della direzione ufficiale della Fraternità Pio X negli ultimi anni c’è stata un’apertura. Alcuni preti cercano un maggiore contatto anche con noi. L’ala moderata è apertamente pronta ad un accordo fortemente propugnato anche da parte di Roma e dell’attuale pontefice. Ma c’è anche un’ala intransigente. La Fratellanza di Pio X dovrà mettere in conto anche molte perdite e persino una spaccatura. Penso che l’attuale superiore generale, il vescovo Bernard Fellay [cui è succeduto lo scorso 12 luglio 2018 don Davide Pagliarani, qui la notizia su Settimana News – ndr], dovrà decidersi tra l’unità con Roma e l’unità in seno alla Fraternità. C’è da sperare che i realisti che stanno alla guida riconoscano che non c’è alternativa alla riconciliazione con Roma.
Le vocazioni italiane per la fraternità san pietro ci sono? Quante?