Omelia di papa Francesco nella celebrazione dei primi vespri della solennità di Maria madre di Dio e Te Deum di rinraziamento per l’anno trascorso.
In questi giorni la Liturgia ci invita a risvegliare in noi lo stupore, lo stupore per il mistero dell’Incarnazione. La festa del Natale è forse quella che maggiormente suscita questo atteggiamento interiore: lo stupore, la meraviglia, il contemplare… Come i pastori di Betlemme, che prima ricevono il luminoso annuncio angelico e poi accorrono e trovano effettivamente il segno che era stato loro indicato, il Bambino avvolto in fasce dentro una mangiatoia. Con le lacrime agli occhi si inginocchiano davanti al Salvatore appena nato. Ma non solo loro, anche Maria e Giuseppe sono pieni di santa meraviglia per quello che i pastori raccontano di aver udito dall’angelo riguardo al Bambino.
È così: non si può celebrare il Natale senza stupore. Però uno stupore che non si limiti a un’emozione superficiale – questo non è stupore –, un’emozione legata all’esteriorità della festa, o peggio ancora alla frenesia consumistica. No. Se il Natale si riduce a questo, nulla cambia: domani sarà uguale a ieri, l’anno prossimo sarà come quello passato, e così via. Vorrebbe dire riscaldarsi per pochi istanti ad un fuoco di paglia, e non invece esporsi con tutto il nostro essere alla forza dell’Avvenimento, non cogliere il centro del mistero della nascita di Cristo.
E il centro è questo: «Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Lo sentiamo ripetere a più riprese in questa liturgia vespertina, con la quale si apre la solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Lei è la prima testimone, la prima e la più grande, e nello stesso tempo la più umile. La più grande perché la più umile. Il suo cuore è colmo di stupore, ma senza ombra di romanticismi, di sdolcinatezze, di spiritualismi. No. La Madre ci riporta alla realtà, alla verità del Natale, che è racchiusa in quelle tre parole di San Paolo: «nato da donna» (Gal 4,4). Lo stupore cristiano non trae origine da effetti speciali, da mondi fantastici, ma dal mistero della realtà: non c’è nulla di più meraviglioso e stupefacente della realtà! Un fiore, una zolla di terra, una storia di vita, un incontro… Il volto rugoso di un vecchio e il viso appena sbocciato di un bimbo. Una mamma che tiene in braccio il suo bambino e lo allatta. Il mistero traspare lì.
Fratelli e sorelle, lo stupore di Maria, lo stupore della Chiesa è pieno di gratitudine. La gratitudine della Madre che contemplando il Figlio sente la vicinanza di Dio, sente che Dio non ha abbandonato il suo popolo, che Dio è venuto, che Dio è vicino, è Dio-con-noi. I problemi non sono spariti, le difficoltà e le preoccupazioni non mancano, ma non siamo soli: il Padre «ha mandato il suo Figlio» (Gal 4,4) per riscattarci dalla schiavitù del peccato e restituirci la dignità di figli. Lui, l’Unigenito, si è fatto primogenito tra molti fratelli, per ricondurre tutti noi, smarriti e dispersi, alla casa del Padre.
Questo tempo di pandemia ha accresciuto in tutto il mondo il senso di smarrimento. Dopo una prima fase di reazione, in cui ci siamo sentiti solidali sulla stessa barca, si è diffusa la tentazione del “si salvi chi può”. Ma grazie a Dio abbiamo reagito di nuovo, con il senso di responsabilità. Veramente possiamo e dobbiamo dire “grazie a Dio”, perché la scelta della responsabilità solidale non viene dal mondo: viene da Dio; anzi, viene da Gesù Cristo, che ha impresso una volta per sempre nella nostra storia la “rotta” della sua vocazione originaria: essere tutti sorelle e fratelli, figli dell’unico Padre.
Roma, questa vocazione, la porta scritta nel cuore. A Roma sembra che tutti si sentano fratelli; in un certo senso, tutti si sentono a casa, perché questa città custodisce in sé un’apertura universale. Oso dire: è la città universale. Le viene dalla sua storia, dalla sua cultura; le viene principalmente dal Vangelo di Cristo, che qui ha messo radici profonde fecondate dal sangue dei martiri, cominciando da Pietro e Paolo.
Ma anche in questo caso, stiamo attenti: una città accogliente e fraterna non si riconosce dalla “facciata”, dalle parole, dagli eventi altisonanti. No. Si riconosce dall’attenzione quotidiana, dall’attenzione “feriale” a chi fa più fatica, alle famiglie che sentono di più il peso della crisi, alle persone con disabilità gravi e ai loro familiari, a quanti hanno necessità ogni giorno dei trasporti pubblici per andare al lavoro, a quanti vivono nelle periferie, a coloro che sono stati travolti da qualche fallimento nella loro vita e hanno bisogno dei servizi sociali, e così via. È la città che guarda a ognuno dei suoi figli, a ognuno dei suoi abitanti, anzi, a ognuno dei suoi ospiti.
Roma è una città meravigliosa, che non finisce di incantare; ma per chi ci vive è anche una città faticosa, purtroppo non sempre dignitosa per i cittadini e per gli ospiti, una città che a volte sembra scartare. L’auspicio allora è che tutti, chi vi abita e chi vi soggiorna per lavoro, pellegrinaggio o turismo, tutti possano apprezzarla sempre più per la cura dell’accoglienza, della dignità della vita, della casa comune, dei più fragili e vulnerabili. Che ognuno possa stupirsi scoprendo in questa città una bellezza che direi “coerente”, e che suscita gratitudine. Questo è il mio augurio per quest’anno.
Sorelle e fratelli, oggi la Madre – la Madre Maria e la Madre Chiesa – ci mostra il Bambino. Ci sorride e ci dice: “Lui è la Via. Seguitelo, abbiate fiducia. Lui non delude”. Seguiamolo, nel cammino quotidiano: Lui dà pienezza al tempo, dà senso alle opere e ai giorni. Abbiamo fiducia, nei momenti lieti e in quelli dolorosi: la speranza che Lui ci dona è la speranza che non delude mai.