Introduzione
Il passaggio dal tema della casa e della famiglia, che ci ha impegnati nell’ultimo anno pastorale, al tema della parrocchia, che ci vede impegnati nell’anno presente, è piuttosto naturale. Dilatando il motivo della “misericordia”, che ha caratterizzato il Giubileo voluto da papa Francesco e che in diocesi abbiamo declinato nella realtà del presbiterio (2015-16) e in quella della famiglia (2016-17), intendiamo ora declinarlo nella realtà della parrocchia, intesa come “grande famiglia” e “famiglia di famiglie”.
Questa Lettera pastorale è debitrice non solo alla riflessione ormai pluridecennale sulla parrocchia, alla quale sono stati dedicati moltissimi studi teologici e pastorali, ma anche e soprattutto alle esperienze emerse e confrontate in diverse sedi ecclesiali: nelle parrocchie stesse, negli uffici di curia, nei Consigli pastorali e nel Consiglio presbiterale, negli altri organismi diocesani come il Collegio dei consultori e il consiglio di amministrazione, in svariate riunioni, celebrazioni, testimonianze e incontri personali. Quasi sempre, trattando di qualsiasi argomento pastorale, emerge il riferimento alla parrocchia. In particolare questa Lettera ha cercato di fare tesoro dell’intenso lavoro svolto nella Tre giorni diocesana del 7, 8 e 10 giugno 2017 e dei numerosi contributi che mi sono arrivati durante l’estate; ringrazio tutti coloro che in qualsiasi modo hanno concorso a queste riflessioni, che consegno alle comunità cristiane della nostra diocesi.
Casa, famiglia, parrocchia
La parentela tra parrocchia, casa e famiglia è stretta: è incisa addirittura nell’etimologia. “Parrocchia” proviene dal greco Paroikia, termine formato da parà, che significa vicino/presso e oikía, che significa casa o famiglia. Nel mondo antico il termine paroikía indicava la residenza in un paese straniero, un soggiorno all’estero e persino l’esilio. In questo senso viene utilizzato anche nel Nuovo Testamento per indicare la situazione delle comunità cristiane: nella sua prima Lettera, Pietro scrive “ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia” (1,1), esortandoli così: “comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio (tès paroikías)”; è “pellegrinaggio”, per Pietro, l’intera vita terrena; ma lo è in modo ancora più evidente l’esistenza dei cristiani a cui scrive, perseguitati e dispersi. E Pietro poco più avanti usa anche la parola pároikos, “parroco”, al plurale, che viene tradotta con “straniero”: “Carissimi, io vi esorto come stranieri”… (2,11). “Parrocchia” e “parroco”, sono quindi parole segnate da una certa nostalgia della casa e della famiglia, che risulta almeno momentaneamente distante e inaccessibile, ma per questo ancor più desiderata; una vicinanza alla casa coltivata nel cuore, in attesa di poterci tornare definitivamente.
La parrocchia di papa Francesco.
Così il papa parla della parrocchia in Evangelii Gaudium n. 28: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”. Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione».
La parrocchia, che è per costituzione “pellegrinaggio”, quindi cammino e movimento, rischia di sedersi, sistemarsi, fermarsi. Papa Francesco ne riafferma la grande validità, a patto che sia «capace di riformarsi e adattarsi costantemente», capace di «revisione e rinnovamento», orientata «completamente verso la missione». La presenza della Chiesa sul territorio, infatti, deve essere dinamica: e tale è stata lungo i due millenni della sua storia, dove si registra una grande pluralità di forme comunitarie cristiane; se confrontiamo tra di loro la Chiesa di Gerusalemme descritta negli Atti degli Apostoli, le comunità domestiche paoline, le Domus Ecclesiae del II e III secolo, le comunità sorte attorno ai monasteri, le pievi e le parrocchie rurali medievali, quelle tridentine e post-tridentine e quelle moderne e contemporanee, ci rendiamo conto di quali forme, anche molto differenti tra di loro, può assumere la vita cristiana.
La stessa impressione si ottiene gettando uno sguardo geografico alle comunità cristiane nel mondo di oggi. Secondo le dimensioni, possono essere grandi, medie o piccole – si va dalle decine di migliaia di fedeli alle poche unità – con ovvie ripercussioni sulle relazioni tra clero, religiosi e laici; e da parrocchie di pochi chilometri quadrati a parrocchie di migliaia o decine di migliaia di chilometri quadrati. Stando alla struttura territoriale, le parrocchie possono essere accorpate, isolate o unite in vario modo, in diverse forme di unità pastorali. Guardando il tipo di attività che vi si svolge, alcune si possono definire prevalentemente legate al culto, altre di impronta missionaria, altre ancora più attente alla carità e all’assistenza. Il livello dell’interazione con il territorio le caratterizza come più aperte ai problemi sociali oppure più concentrate su loro stesse. Infine, per fornire un ultimo criterio, la qualità delle relazioni tra clero e laici determina in alcune parrocchie una vera e propria corresponsabilità, in altre una semplice convivenza più o meno pacifica o conflittuale, in altre ancora una conduzione verticistica e clericale.
Torniamo alle questioni che ci pone oggi papa Francesco: tenendo presente questa grande varietà storica, culturale e geografica, è possibile recuperare la dimensione pellegrinante della parrocchia, favorirne la riforma e il rinnovamento, renderla più dinamica e missionaria? Credo che la risposta passi attraverso tre dimensioni, tra di loro profondamente connesse: la conversione personale, lo stile comunitario, la revisione delle strutture. Un’autentica riforma della Chiesa, e concretamente delle nostre comunità parrocchiali, richiede tutti e tre questi passaggi. Non siamo ovviamente al punto di partenza: la nostra attività pastorale riguarda continuamente la conversione, gli stili e le strutture. Abbiamo però bisogno di frequenti verifiche, perché qualche volta e in alcune occasioni perdiamo di vista l’essenziale e ci perdiamo nelle questioni secondarie; e così invece dello stile leggero dei pellegrini negli ostelli assumiamo lo stile comodo dei turisti negli alberghi a cinque stelle.
Alla ricerca dell’essenziale.
Qual è l’essenziale? Non possiamo chiederlo se non a Gesù, che ci risponde subito e, come fa di solito, in maniera diretta: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20); gli elementi essenziali della comunità sono semplicemente la presenza di Gesù e un gruppo, anche minimo, di discepoli riuniti nel suo nome. Ma “riunirsi nel suo nome” non significa semplicemente mantenerne un buon ricordo e neppure solo una bella dottrina – il che sarebbe già molto – ma una presenza viva; non l’adesione ad un saggio insegnamento, ma la fede nella presenza del Risorto è ciò che caratterizza i discepoli di Gesù e ne fa una comunità riunita nel suo “nome”. L’esperienza dei due discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-53) fa emergere gli elementi essenziali che trasformano “due o tre” persone in una comunità cristiana: l’ascolto della Parola di Gesù, in un dialogo nel quale la comunità esprime anche le sue fatiche e delusioni e lui cammina a fianco, si fa pellegrino e incoraggia; l’accoglienza di Gesù nel “forestiero” che fa per procedere oltre, la cui compagnia è percepita dalla comunità come presenza capace di illuminare la “sera” e il “tramonto”; il gesto di spezzare il pane, che apre gli occhi della comunità, svelando l’amore del Signore che si dona; la spinta ad incontrare gli apostoli tornando a Gerusalemme in piena notte: il desiderio della testimonianza e della missione. Concretamente, quindi, riunirsi “nel nome di Gesù” significa alimentarsi della Parola di Dio, ossia della Scrittura compresa e vissuta nella tradizione; nutrirsi dei sacramenti, celebrati e vissuti, e soprattutto dall’eucaristia; incarnare la carità, vivendo i doni dello Spirito nella fraternità (comunione) e nella testimonianza (missione).
Attorno a questi elementi oggettivi della presenza di Cristo risorto – Parola di Dio, sacramenti e carità – si sviluppano alcuni elementi soggettivi che caratterizzano una comunità cristiana: sono quelle “reti di relazioni” che si formano attorno alla Parola di Dio, ai sacramenti e alla carità e senza la quale i doni “oggettivi” non sarebbero fruiti, resterebbero impacchettati. Attorno alla Parola di Dio si crea una rete di annuncio e recezione, si forma una comunità che ascolta, medita, approfondisce, trasmette e predica. Attorno ai sacramenti e specialmente all’eucaristia si forma una comunità che celebra, sperimenta la forza della grazia, diventa un corpo solo. I carismi mettono in moto reti di relazione improntate alla carità verso i fratelli di fede, nella logica della comunione delle diversità, e verso gli altri – specialmente i bisognosi e i dubbiosi – nella logica della testimonianza e della missione.
Perché queste “reti di relazione” soggettive intessute attorno al triplice dono del Risorto siano autentiche, esistono i ministri ordinati (diaconi, presbiteri, vescovi), i quali da una parte, con il loro servizio, rendono evidente come la Parola, i sacramenti e la carità siano doni che vengono dall’alto e non semplice prodotto della comunità; e dall’altra assicurano che l’annuncio, la celebrazione e la vita fraterna e missionaria siano fedeli alla volontà di Cristo.
Alla scuola dell’essenziale.
Il punto di paragone più alto per le nostre comunità cristiane è senza dubbio quello offerto dalla Chiesa di Gerusalemme negli Atti degli Apostoli, nei cui sommari emergono il radunarsi attorno all’insegnamento degli Apostoli, allo spezzare il pane e alla carità, che diventava attenzione anche ai più bisognosi (cf. At 2,42-47 e 4,32-35). Ma questo quadro va collocato all’interno di una dimensione “domestica” della comunità, che era la forma normale nella Chiesa apostolica e in quella dei due secoli successivi. Fin dall’inizio, infatti, le piccole comunità cristiane si radunavano nelle case, accolte da una famiglia che disponeva di spazi sufficienti; a partire poi dal II secolo queste case furono messe stabilmente a disposizione delle comunità cristiane e presero il nome di “Domus Ecclesiae”; con la nascita delle parrocchie, dalla fine del IV secolo, le “Domus Ecclesiae” tramonteranno e lasceranno il campo definitivamente ai centri parrocchiali. Nei primi tre secoli quando si usava l’espressione “Chiesa domestica” non si intendeva la famiglia in quanto tale – questa applicazione nascerà solo a partire dalla fine del IV secolo – ma si intendeva la comunità cristiana che si incontra nelle case: quasi, diremmo oggi, i gruppi famiglie o forse i “gruppi del Vangelo nelle case”.
Per rinforzare la riforma delle parrocchie richiesta da papa Francesco, è utile attualizzare l’esperienza dei primi secoli, quando i cristiani erano pochi, i mezzi scarsi, ma la forza missionaria enorme; ed è ciò che accade ancora oggi nei territori “di missione”, dove le giovani comunità dispongono di pochissime strutture, ma si organizzano capillarmente in piccoli gruppi guidati e portano avanti con entusiasmo l’annuncio del Vangelo.
L’ultima settimana dell’agosto scorso, insieme ad alcuni amici, sono stato in Ciad, nella diocesi di Mongo, dove già erano presenti da alcune settimane diversi giovani modenesi, coordinati dall’ufficio diocesano di animazione missionaria che aveva organizzato anche l’invio di altri giovani, come ogni anno, in luoghi diversi del mondo. La diocesi di Mongo, guidata dal vescovo gesuita francese Henri Coudray, con il quale avevamo stretto amicizia già da due anni in occasione delle sue visite a Modena, ha un’estensione di 540.000 km quadrati, la stessa superficie della Francia: una diocesi grande 270 volta la nostra di Modena-Nonantola. Questo immenso territorio è diviso in sei parrocchie, ciascuna delle quali ha dunque un’estensione pari a tre o quattro delle nostre grandi regioni italiane. Ogni parrocchia è divisa in settori, ogni settore comprende diversi villaggi e in ciascun villaggio sono presenti delle “comunità di base”, che costituiscono delle cellule di formazione e animazione: organizzano le liturgie – quando possibile anche la messa, molto desiderata ma purtroppo rara – e portano avanti la catechesi, basata essenzialmente sul Vangelo; nei villaggi i cristiani, che in questa diocesi sono circa l’1% a fronte del 95% di musulmani e del 4% di animisti, oltre a vivere la Parola di Dio e i sacramenti, sono attenti alle necessità e alle povertà di tutti i tipi. Così nei villaggi, attorno alle cappelle per la preghiera e la liturgia, sorgono le biblioteche a disposizione della gente, le sale per le catechesi comunitarie e per gli incontri, i dispensari con qualche farmaco, i pozzi con l’acqua potabile e le “banche dei cereali”, per aiutare le famiglie in difficoltà ed eliminare il fenomeno dell’usura che si era molto diffuso. Sono comunità che scomodano chi vorrebbe speculare sulle povertà – i profittatori senza scrupoli – ma che suscitano la gratitudine di quanti, anche non cristiani, hanno a cuore il bene comune; perché sono comunità che ci insegnano l’essenziale: Parola di Dio, sacramenti, carità.
E rendono ridicole certe zuffe che a volte, tra di noi, risucchiano energie e passioni degne di miglior causa: discussioni per la gestione di spazi e strutture e la divisione di competenze, lamentele per lo spostamento degli orari delle messe o la riduzione del loro numero, risse per l’organizzazione di iniziative parrocchiali, e così via. Consiglio a coloro che, per ragioni comprensibilissime, non leggeranno il seguito di questa Lettera, di leggere comunque un romanzo uscito da poco dalla penna di un giornalista francese, Jean Mercier, dal titolo Il signor parroco ha dato di matto, edizioni San Paolo 2017. La storia assume dei tratti ad un certo punto fantasiosi e grotteschi, ma l’inizio è molto realistico: un parroco ancora giovane, biblista e appassionato alla predicazione e alla liturgia, disponibile per le confessioni e attento alle opere di carità e ai malati, è sommerso quotidianamente da questioni che gli fanno perdere l’equilibrio psicologico: collaboratori che si scontrano fra di loro per questioni ridicole e chiedono l’arbitraggio del parroco, parrocchiani tenacemente fissati su particolari che a loro sembrano importantissimi – come l’impossibile recupero di un vecchio rudere per farne una (inutile) cappellina – e che a lui appaiono irrilevanti… finché il parroco non ne può più e fugge. I tratti del romanzo sono appositamente gonfiati, ma non irrealistici. E il fatto che a volte siano invece i parrocchiani a lamentare con ragione eccessi, mancanze e stranezze del parroco, non toglie mordente a questi quadretti purtroppo presenti nelle comunità cristiane. Occorre che tutti torniamo all’essenziale.
Entriamo quindi nei tre aspetti del pellegrinaggio prima ricordati, che sono le tre dimensioni della riforma e del rinnovamento delle nostre comunità parrocchiali: conversione personale, stile comunitario e revisione delle strutture. Se la parrocchia è pellegrina, cammina tra le case, viaggia come famiglia di famiglie, è necessario che trovi nel cammino le sorgenti e il cibo, che tenga un passo possibile per tutti – anche per chi più fatica a muoversi – e che viaggi con uno zaino alleggerito da pesi inutili.
I. L’acqua, il pane e i medicinali nello zaino del pellegrino:
la conversione personale
n pellegrino mette nello zaino l’essenziale: non pensa certo al frigorifero e alla lavastoviglie, ma prima di tutto all’acqua, al cibo e alle medicine utili. L’acqua della Parola di Dio, il pane dell’eucaristia e i farmaci della carità non possono mancare nello zaino della parrocchia. Ma mentre il pellegrino può porre nello zaino al massimo una borraccia d’acqua, qualche panino nel sacchetto e alcune confezione di medicinali, la parrocchia si trova nello zaino un’intera fonte, un forno sempre operativo e una farmacia ben fornita. La presenza del Signore risorto, infatti, è capace di rinnovare continuamente e dal di dentro le energie della Chiesa; Gesù impedisce con la sua Parola che le troppe parole umane provochino una stagnazione idrica; rinnova con la sua presenza eucaristica il pane del cammino, preservandolo dalle muffe del ritualismo e dell’improvvisazione; scongiura con il dono del suo Spirito il deperimento dei farmaci che curano le malattie del corpo ecclesiale.
L’acqua della Parola di Dio e il pane dell’eucaristia.
Nella celebrazione eucaristica risuona la Parola di Dio, attraverso le Scritture e la loro traduzione nella vita della comunità. La Chiesa non si costruisce su belle parole umane, sulla messa in comune di riflessioni geniali, ma sull’accoglienza del Vangelo. È questa la sorgente perenne della vita della Chiesa, il suo metro, il suo paragone continuo. È una sorgente inesauribile, che non si inquina mai; è parola di vita sempre attuale, mai al tramonto.
Tante parole risuonano nelle nostre parrocchie: parole di preghiera nelle liturgie e nelle espressioni della religiosità popolare; parole di conforto nei momenti di dolore e parole di entusiasmo in quelli di gioia; parole necessarie per organizzare iniziative, per catechizzare, per evangelizzare; purtroppo a volte parole pronunciate per mormorare, offendere, calunniare. Parole sussurrate o gridate, cantate o recitate, scritte o pronunciate. La parola è lo strumento di comunicazione più importante, più diretto e più incisivo. Il senso di tutte queste parole per noi cristiani si trova nella Parola di Dio, cioè nelle Scritture proclamate, recepite e vissute nella tradizione della Chiesa. La Bibbia è la grande e lunga lettera d’amore che Dio ci scrive; nella Bibbia Dio parla utilizzando tutti i linguaggi dell’amore: dalla tenerezza alla severità, dall’incoraggiamento al rimprovero, dalla meraviglia all’ira; e lo fa attraverso parole, immagini e idee umanissime, attraverso la collaborazione degli stessi uomini.
L’abitudine all’ascolto della Parola di Dio crea abitudine all’ascolto della parola dell’altro. I modelli che oggi prevalgono non favoriscono certo il reciproco ascolto: non solo nelle relazioni quotidiane è in aumento l’aggressività, ma spesso anche nei dibattiti pubblici gli interlocutori si sovrappongono, urlano, offendono: del resto le regole dell’audience non sopportano ragionamenti pacati, ascolto delle ragioni altrui e discussione sul merito delle questioni. Ma le nostre comunità cristiane non si possono piegare a questo stile arrogante: “beati i miti” (Mt 5,5). L’ascolto è essenziale a tutti i livelli della vita comunitaria, perché chi ascolta accoglie: e senza accoglienza si può costruire un ufficio, non una parrocchia. Allenarsi ad ascoltare la Parola di Dio significa allenarsi ad ascoltare le parole dei fratelli: per questo la lettura personale della Scrittura, la partecipazione alla Messa e alle catechesi, i gruppi del Vangelo nelle case, sono autentiche palestre che formano all’ascolto e accoglienza nella comunità. Per molti praticanti l’omelia nella Messa rimane l’unica spiegazione di fatto accessibile della Parola di Dio; papa Francesco in EG dedica uno spazio molto ampio ad essa (nn. 135-151); senza poter riassumere la ricchezza della sue riflessioni, è utile richiamare: che deve essere ben preparata – magari anche insieme ad alcuni laici in uno dei gruppi del Vangelo – e tendenzialmente corta. Non deve scadere nella banalità e nei luoghi comuni e andrebbe pensata tenendo presente la configurazione della comunità alla quale si rivolge: un certo linguaggio va bene per i bambini (i quali però sono “esigenti” e richiedono una preparazione forse anche più accurata degli adulti), mentre una comunità di adulti è di solito variegata: occorre tenere presente che oggi molte persone sono preparate e attrezzate culturalmente ed apprezzano più la spiegazione della Parola di Dio, pur con le necessarie attualizzazioni, che non le esortazioni morali o le sommarie valutazioni sulla società odierna.
Nella relazione di don Giuliano Gazzetti alla scorsa Tre giorni (7 giugno) è stata messa in evidenza, con grande efficacia, la radice eucaristica della Chiesa: “l’Eucaristia fa la Chiesa”; il mistero eucaristico dà l’impronta alla comunità cristiana, che non si definisce dunque dal basso – come se fosse la semplice volontà di convergere dei cristiani a fare la Chiesa – ma dal corpo di Cristo offerto. La comunità è unita da questo amore esorbitante compiuto sulla croce: amore che si sacrifica, amore che condivide e amore che si fa presente. Sono questi i tre aspetti del mistero eucaristico – sacrificio, condivisione della mensa e presenza reale – che danno linfa e struttura alla Chiesa. Per questo l’eucaristia è il pane del cammino per ogni credente.
Senza la celebrazione eucaristica una comunità cristiana manca del compimento, è come una famiglia nella quale ci si incontra e ci si ascolta, si collabora, senza però condividere la mensa. Tante comunità cattoliche nel mondo sono costrette a rinunciare a questo dono, perché mancano i sacerdoti che possano celebrare tutte le domeniche o perché le persecuzioni impediscono loro di trovarsi regolarmente; e queste stesse comunità avvertono la sofferenza di rinunciare alla celebrazione eucaristica regolare, vivendo liturgie della Parola che – in quel caso davvero – sono “in attesa di presbitero”: quando il sacerdote arriva, si fa grande festa e si percorrono anche molti chilometri a piedi per poter prendere parte alla celebrazione.
I medicinali della carità.
Pane eucaristico e sorgente evangelica: sono i due grandi alimenti delle comunità cristiane, quelli che determinano la conversione dei loro membri. Senza la conversione del cuore, le riforme e persino le rivoluzioni sarebbero inutili, non porterebbero ad alcun rinnovamento. Solo cristiani convertiti dalla Parola di Dio e dell’eucaristia possono fare comunità e incidere. Il pane e la Parola sono i due composti fondamentali dei farmaci spirituali da mettere nello zaino per quel pellegrinaggio che è la vita parrocchiale. In particolare mi sembrano necessari sette medicinali, in ciascuno dei quali i due composti della Parola di Dio e dell’eucaristia vengono dosati sapientemente con i doni che lo Spirito sparge nella Chiesa.
È necessario un farmaco contro la maldicenza acuta, una malattia che faceva perdere la calma persino a san Francesco d’Assisi, il quale «fra tutti gli altri viziosi, aborriva con vero orrore i detrattori e diceva che portano sotto la lingua il veleno, col quale intaccano il prossimo. Perciò evitava i maldicenti e le pulci mordaci, quando li sentiva parlare, e rivolgeva altrove l’orecchio, come abbiamo visto noi stessi, perché non si macchiasse con le loro chiacchiere» (Tommaso da Celano, Vita seconda, cap. CXXXVIII: Fonti Francescane n. 768). Spesso alla base delle chiacchiere malevole c’è un sospetto dettato da invidia e gelosia, un desiderio di emergere e quindi di “immergere” l’altro nella melma della calunnia. La Parola di Dio mette in guardia da un uso bellico della lingua: basta ricordare questo sferzante passaggio della Lettera di Giacomo “Se uno crede di essere religioso, ma poi non sa frenare la propria lingua, è un illuso: la sua religione non vale niente” (1,26); e l’ammonimento, più morbido ma non meno provocatorio, di Paolo: “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione” (Ef 4,29). E l’eucaristia è “buon ringraziamento”, azione di grazie per le meraviglie che Dio opera tra gli uomini; non è mai maledizione contro qualcuno, ma è il contrario di quei riti magici che vorrebbero danneggiare il nemico; l’eucaristia è ricca di “benedizioni” e di intercessioni per tutti, anche per i lontani e i nemici. Come si potrebbe partecipare alla Messa e poi riempirsi la bocca di maldicenze e chiacchiericcio? Quando si sospetta o si verifica un atteggiamento sbagliato in comunità – riguardasse pure il parroco o il vescovo – deve scattare il metodo della correzione fraterna, vero antidoto alla doppiezza, al dire davanti una cosa e dietro un’altra (cf. Mt 18,15-17): si comincia dal “tu per tu”, poi si coinvolgono due o tre testimoni, poi lo si dice all’“assemblea” (Ekklesía), cioè si coinvolge la comunità e infine, se non c’è alcun esito, si consideri la persona che sbaglia “come un pagano e un pubblicano”; cioè, come faceva Gesù, si rimane disponibili e aperti ad un’eventuale conversione futura.
È necessaria la medicina contro la lamentosi cronica, una malattia che può colpire a qualsiasi età e che potrebbe diventare inguaribile, se non viene adeguatamente e precocemente curata. Consiste nella tendenza a parlare sempre di ciò che non funziona, di quello che dovrebbero fare gli altri e non fanno, di tutto quello che manca e che dovrebbe esserci. A volte la lamentosi è espressione di una depressione pastorale, e spirituale, altre volte anche di una depressione psicologica. Ma la celebrazione eucaristica educa alla lode gioiosa e non al lamento; è lode e ringraziamento più che denuncia e lamento. La Parola di Dio, poi, invita pure spesso alla lode: nella Scrittura esiste certo il Libro delle Lamentazioni, composto di 5 capitoli per un totale di 154 versetti; ma i Vangeli, la buona notizia, l’annuncio gioioso e non lamentoso, formano complessivamente 88 capitoli, per un totale di 3.739 versetti: quasi 25 volte rispetto alle lamentazioni. Il lamento dovrebbe dunque trovare uno spazio pari a un venticinquesimo rispetto alla lode e all’azione di grazie gioiosa. Una comunità lamentosa, per quanto organizzata, non attira nessuno e, anzi, allontana.
È necessario il farmaco contro l’emiparesi parrocchiale. Così papa Francesco descrive questa patologia e ne suggerisce la cura: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (EG n. 33). La tradizione è importante, il tradizionalismo è dannoso. La tradizione comporta l’accoglienza e il rispetto della religiosità popolare, dei metodi sperimentati, delle esperienze pastorali collaudate, delle abitudini e strutture presenti. Accoglienza e rispetto però non significa immobilità: significa valorizzazione, verifica, adeguamento dove necessario. Si può partire, in ogni caso, dall’osservazione che “si è sempre fatto così”, ma poi occorre proseguire: “oggi è ancora tutto valido o dobbiamo cambiare qualcosa alla luce del Vangelo e del magistero della Chiesa?”. A volte il mantenimento di forme del passato, anziché rispettare l’ispirazione originaria, la tradisce: per mantenere la sostanza valida occorre ogni tanto cambiare le forme passeggere. L’eucaristia ce lo insegna: è “pane del cammino”, nutrimento non per ingrassare e appesantirsi, ma per viaggiare e muoversi; alla fine della Messa l’invito non è: “sedetevi in pace”, ma: “andate” in pace; la celebrazione eucaristica è “estroversa”, è carburante per la missione. E la Parola di Dio presenta il Signore come colui che fa “nuove tutte le cose” (Ap 21,5), come lo Sposo la cui presenza è incompatibile con otri vecchi e rattoppi (cf. Lc 5,33-38).
È necessaria la medicina contro il contro il perfettismo paranoico. Una cosa è tendere verso la perfezione – comando evangelico (cf. Mt 5,48) – e un’altra è pretendere (di solito dagli altri) la perfezione. Nella celebrazione eucaristica è presente la comunità così com’è, non la comunità perfetta: non a caso la Messa comincia con la richiesta di perdono da parte di tutti i presenti e non in modo generico, ma alla prima persona singolare (“confesso a Dio onnipotente”…). Dalla Parola di Dio deduciamo poi che la comunità perfetta è solo la Trinità (cf. Gv 17,22-23), mentre le comunità cristiane sono percorse da difetti: i Dodici che Gesù chiama sono pieni di limiti, le comunità alle quali scrive san Paolo annoverano tra i loro membri peccatori di ogni sorta. Per questo, quando Gesù parla della comunità cristiana, anziché fare della poesia romantica parla subito del perdono: lui, che conosce bene il cuore dell’uomo (cf. Gv 2,24-25), sa che il farmaco più necessario nella comunità è la misericordia, la cui declinazione più alta è il perdono (cf. Mt 18,21-35). Ma il perdono non si confeziona nella farmacia del proprio cuore – dove abita più spesso il fuoco della vendetta o al massimo, nei momenti migliori, la bilancia della giustizia – ma lo si compra, lo si impara da Dio.
È necessaria la medicina contro la calcolosi comunitaria, insidiosa patologia che comporta la tendenza a valutare la vita parrocchiale sulla base della sola quantità: numero di persone presenti, serie di attività svolte, somme di denaro guadagnato. Non che sia un male fare delle valutazioni quantitative, anche economiche: a patto però di sapere che nella Chiesa il conti e le statistiche hanno valore preventivo – servono a capire come seminare meglio la volta successiva – e non valore consultivo, quasi che fossimo noi e non Dio a dover mietere. Seminare è più importante che raccogliere; la mietitura è riservata non ai discepoli nel corso della storia, ma agli angeli alla fine dei tempi (cf. Mt 13,39). Il centro della comunità, la celebrazione eucaristica, è del resto un rito anti-efficientistico; è una perdita di tempo per chi del tempo ha una concezione quantitativa e produttiva. E la Parola di Dio scoraggia i calcoli accurati. Basterà ricordare come Dio riduce a soli 300 i 32.000 uomini inizialmente radunati da Gedeone per combattere contro i Madianiti (cf. Giud 7,1-7), per evitare che Israele possa vantarsi davanti al Signore e dire: “La mia mano mi ha salvato” (7,2). E ancora sarà sufficiente ricordare l’inutilità del censimento di Davide (cf. 2 Sam 24 e 1 Cron 21), che verrà vanificato dalla riduzione del popolo per la punizione divina. È necessario valorizzare la profondità delle relazioni più che la quantità delle realizzazioni; in ogni caso, ben vengano le molte iniziative, a patto che il loro criterio di valutazione sia la relazione con il Signore e tra di noi. Occorre superare l’ansia dei numeri: l’espressione dell’amarezza per il fatto che si è in pochi diventa spesso un incentivo ad andarsene anche per quei pochi.
È necessario il farmaco contro l’attivismo ansiogeno, una sindrome radicatasi soprattutto in Occidente e legata sicuramente alla rivoluzione industriale, che ha inoculato in tutti la tensione verso la prestazioni. Nelle comunità cristiane questo virus a volte entra impercettibilmente e produce un circolo vizioso: l’attività alimenta l’affanno e l’affanno alimenta l’attività. L’eucaristia educa a superare l’affanno, perché è pura gratuità, celebrazione, gioia di stare insieme, contemplazione; l’eucaristia è la radice di ogni attività, perché la carità è la sostanza del fare cristiano, ma non produce mai ansia. L’episodio evangelico di Marta e Maria (cf. Lc 10,38-42) serve da criterio anche per le nostre comunità parrocchiali: Gesù biasima non il servizio, ma l’affanno di Marta; e ricorda che il cuore di ogni attività è stare seduti come Maria ai piedi di Gesù ascoltando la sua parola. La prima forma di accoglienza e servizio è l’ascolto: di Gesù e dell’ospite. Le nostre comunità sono invitate dalla Parola di Dio a dosare bene ascolto e servizio, Maria e Marta: diversamente cadono con facilità dell’ansia e nell’affanno.
È necessaria la medicina contro la miopia pastorale, patologia oculare che consente di mettere fuoco da vicino, ma renda sfocata la vista di persone e cose lontane. Quando si affronta il tema della riforma della parrocchia “da lontano”, tutti sono d’accordo sul fatto che il rinnovamento parte dalla conversione del cuore, prende forma nello stile comunitario dell’accoglienza e si esprime e rafforza nello snellimento delle strutture. Ma quando questi argomenti sono declinati nella propria situazione, “da vicino”, allora la musica cambia: conversione, certo; stile accogliente, ovvio; strutture più leggere, giusto e urgente… però questo non riguarda noi, ma gli altri. Ormai in alcuni dizionari di lingua italiana è presente la voce NIMBY, un acronimo inglese per Not In My Back Yard, cioè “non nel mio cortile”, coniata negli anni Ottanta del secolo scorso in Inghilterra in seguito all’opposizione di una comunità locale che riconosceva l’importanza di una grande opera pubblica, ma chiedeva che fosse costruita altrove. Per estensione, NIMBY oggi è utilizzato per descrivere l’atteggiamento di quelle persone e comunità che sostengono in linea generale delle proposte di cambiamento, ma si oppongono alla loro applicazione per loro stessi, in quanto richiedono un sacrificio. Qualche volta mi arrivano lettere o mail di persone irritate per le scelte diocesane che stiamo portando avanti nelle parrocchie, o perché un parroco viene spostato… o perché un parroco non viene spostato, o per molti altri motivi; spero che nessun giornalista locale debba scrivere in futuro un romanzo dal titolo Il signor vescovo ha dato di matto. A volte queste proteste contengono osservazioni pertinenti, ma altre volte sono solo il frutto di disinformazione – di solito basate su articoli di quotidiani a loro volta disinformati o appositamente manipolati – e di criteri conservativi estranei alla logica evangelica e rispondenti solo alla logica miope di chi si concentra sul proprio orticello. La parrocchia pellegrina è il contrario della parrocchia NIMBY, cioè si mette in cammino con coraggio e progettualità invece che difendere il proprio cortile con paura e spirito conservativo. La celebrazione eucaristica e la Parola di Dio sono due ottime lenti contro la miopia di chi non vede più in là del proprio naso: perché spingono ad uscire, testimoniare, apprezzare e valorizzare anche le ricchezze degli altri.
II. Il ritmo dei passi dei pellegrini:
lo stile comunitario
Il pellegrinaggio è un’esperienza comunitaria: anche quando uno parte da solo, se si incammina in un sentiero che porta ad una meta famosa, incontra altri pellegrini sul sentiero. Se poi si mette al passo dell’altro, nasce la relazione; e se si mette al passo dell’ultimo e di chi più fatica, scatta l’accoglienza e assume lo stile della prossimità. Lo stile di una parrocchia può attrarre o respingere ed ha quindi un impatto missionario. Don Giuliano nella relazione alla Tre giorni ha insistito sulla forza attrattiva della “bellezza”: che si esprime in uno stile di accoglienza, di accompagnamento graduale, di prossimità. La comunità cristiana deve prendere il passo di chi più fatica e di chi è deluso, come fa Gesù con i due discepoli di Emmaus: non è lui che impone il ritmo, ma si affianca al loro passo e cammina insieme a loro.
Relazione, prossimità, accoglienza.
Proprio nel “desiderio di prossimità” la CEI individuava, nell’ispirato documento programmatico Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001), uno dei segni dei tempi proposto alle comunità cristiane, invitandole a cogliere quelle occasioni nelle quali «emerge il desiderio di “prossimità”, di socialità, di incontro, di solidarietà e di ricerca della pace» (n. 37). E la Nota pastorale della stessa CEI Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (2004) richiamava la medesima dimensione come caratteristica della pastorale parrocchiale: «La presenza della parrocchia nel territorio si esprime anzitutto nel tessere rapporti diretti con tutti i suoi abitanti, cristiani e non cristiani, partecipi della vita della comunità o ai suoi margini. Nulla della vita della gente, eventi lieti o tristi, deve sfuggire alla conoscenza e alla presenza discreta e attiva della parrocchia, fatta di prossimità, condivisione, cura» (n. 10).
Oggi molte persone, anche credenti, si sentono ai margini della comunità cristiana: indifferenti, arrabbiate, deluse, “estranee” anche a causa di situazioni personali ferite e compromesse. D’altra parte, però, vi sono sempre di più giovani e adulti che riprendono un interesse per la vita cristiane a volte persino un percorso di fede dopo una parentesi più o meno lunga di lontananza. Il fenomeno è in crescita, tanto da avere determinato nella pastorale un neologismo: i “ricomincianti”. Esistono infatti situazioni che si possono definire correttamente un “nuovo inizio”, come:
– le conversioni improvvise, che poi richiedono un accompagnamento del tutto particolare perché in genere chi riscopre una fede viva in età adulta diventa insofferente della tiepidezza del cristiano comune e rischia di tendere all’integralismo;
– il ri-accostamento delle coppie in occasione del percorso di preparazione immediata al matrimonio, che per molti rappresenta – dopo anni di lontananza – la riscoperta di una Chiesa meno cattedratica e più accogliente;
– il ri-avvicinamento in occasione di Battesimo, Cresima e prima Comunione dei figli: occasioni che accendono nel cuore delle luci divenute negli anni fioche, ma mai spente del tutto;
– la riscoperta della fede attraverso gruppi, movimenti e cammini che si presentano più dinamici e più capaci di intercettare “i lontani” rispetto alla vita parrocchiale ordinaria; in tal caso l’accompagnamento consiste anche in un inserimento pieno e collaborativo dentro ad una comunità parrocchiale;
– il recupero di energie sopite in occasione del cambio del parroco; che lo si voglia o no, spesso le parrocchie sono fatte a immagine e somiglianza dei pastori che le guidano e qualche laico negli anni si allontana per incompatibilità di carattere o di orientamento; l’arrivo di un nuovo parroco rimette in moto energie e attese e qualche volta riattiva la partecipazione alla vita parrocchiale;
– nuove disponibilità in seguito a malattia o età avanzata; non è raro che alcuni riprendano il cammino cristiano dopo l’esperienza della sofferenza e della fragilità; in tal caso l’accompagnamento sarà un capitolo della pastorale dei malati e degli anziani.
Queste ed altre situazioni, che portano alcuni a riprendere con interesse il cammino ecclesiale, pongono un problema pastorale fondamentale: come può una comunità cristiana accogliere, accompagnare e far crescere questa rinnovata disponibilità al percorso della fede? La risposta sembra proprio da cercare nella metafora familiare della Chiesa: una Chiesa che si presenta come “famiglia” può attrarre e interessare anche quelli che ne sono stati lontani per i motivi più disparati. Più una parrocchia vive le relazioni in modo familiare e più sarà capace di accogliere nel suo grembo anche coloro che normalmente sono chiamati “lontani”, perché in una famiglia non ci sono lontani o vicini, ma tutti meritano attenzione.
L’accoglienza è come la porta esterna della casa: se è aperta, o almeno facilmente accessibile, le persone possono entrare nelle stanze, visitare la casa, parlare e ascoltare, partecipare alla mensa, rilassarsi; se la porta esterna è chiusa, la casa può essere anche bellissima, arredata magnificamente e ben pulita, ma diventa inaccessibile. Meglio una casa modesta ma aperta che una casa lussuosa ma sigillata. L’accoglienza – a volte basta un sorriso, una stretta di mano, una domanda sullo stato di salute – è la base per poter aiutare le persone a camminare o riprendere il cammino dentro la comunità. «Il tempo è superiore allo spazio» (cf. EG nn. 222-225): un’accoglienza paziente può mettere in moto dei processi di riavvicinamento inattesi e sorprendenti; e in ogni caso consegna alle persone un’immagine di Chiesa disponibile ed evangelica.
Parrocchia familiare più che aziendale.
A volte si ha però l’impressione che il modello ispiratore delle comunità cristiane non sia la famiglia, ma l’azienda. Un’azienda spesso in passivo dal punto di vista economico e a volte fallimentare dalla semplice ottica dei numeri e dell’efficienza, ma comunque un’azienda: dove conta più organizzare delle cose che incontrare delle persone. La logica dell’azienda è diversa da quella della famiglia: nell’azienda contano le prestazioni, nella famiglia le relazioni; nell’azienda chi non produce ancora o non produce più non può trovare spazio, mentre nella famiglia il bambino, l’anziano, il malato, meritano un’attenzione ancora maggiore rispetto agli altri; nell’azienda contano i numeri, nella famiglia le persone; l’azienda si muove sull’efficienza e la produzione, la famiglia sull’efficacia e sugli affetti. L’azienda vive una logica quantitativa, la famiglia una logica qualitativa. Un’azienda che volesse muoversi secondo la logica della famiglia e che, ad esempio, valorizzasse le relazioni al punto da trascurare la produzione, fallirebbe in poco tempo. E allo stesso modo una famiglia che mettesse al centro l’efficienza e il profitto trascurando le relazioni, si ridurrebbe ad una fredda convivenza.
Le persone, specialmente quelle che riprendono o riprenderebbero il percorso cristiano, non sono attratte da una Chiesa-azienda, ma potrebbero esserlo da una Chiesa-famiglia: non è la smania delle iniziative, ma è la cura delle relazioni che può sfondare il muro dell’indifferenza e incontrare quel germe di interesse che spesso si annida nel cuore delle persone. La quantità delle iniziative e delle opere è importante, ma deve essere sempre proporzionata alla qualità delle relazioni ed esserne come un’espressione e un incentivo; altrimenti il rischio dell’attivismo e della demotivazione, il pericolo di “bruciarsi”, è molto concreto.
Il modello su cui si è plasmata la Chiesa, il modello voluto da Gesù, è quello comunitario della famiglia. Questo non significa che non debbano trovare posto nelle comunità cristiane anche i numeri, i bilanci e l’efficienza – come ho accennato e come si vedrà tra poco – ma non possono occupare il posto centrale e comunque non possono andare a scapito delle persone. Come una famiglia non è anarchica e deve darsi una certa organizzazione, così anche la comunità cristiana: purché l’organizzazione sia al servizio delle relazioni e non viceversa.
Lo stile dell’accoglienza e dell’accompagnamento riguarda tutti gli ambiti della vita parrocchiale, che non è possibile e neppure necessario qui passare in rassegna: dall’evangelizzazione all’amministrazione dei sacramenti, incrociando tutti gli ambiti e i soggetti della vita pastorale: bambini, giovani, famiglie, anziani, lavoratori, studenti, poveri, malati, emarginati, carcerati, fratelli di altre confessioni cristiane o di altre religioni, profughi e cattolici di provenienza estera.
“Sarai beato, perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14).
L’accoglienza va rivolta prima di tutto a chi non avrebbe i crediti per essere amabile: “infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avrete?” (Mt 5,46). Tutti sono in grado di amare chi contraccambia, e se i cristiani si fermassero a questo livello non proporrebbero certo alcuna esperienza originale. Scrive Giovanni Paolo II: «Dobbiamo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? (…) La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole» (Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, 2001, n. 50).
Come ricorda Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus Caritas est (2005) al n. 24, una grande impressione dovette produrre tra i pagani la pratica cristiana del servizio gratuito verso gli ultimi (cf. cf. Lc 10,29-37; 16,19-30; Mt 25,31-46) e soprattutto l’accoglienza del martirio nello stile dell’amore verso il nemico (cf. Lc 23,34; At 7,60), tanto da determinare l’imperatore Giuliano l’Apostata, ostile al cristianesimo, ad imitarne le forme nel comandare che i sacerdoti della religione pagana praticassero la carità verso i poveri, convinto che il motivo per cui la Chiesa si era diffusa così tanto fosse proprio la testimonianza dell’amore verso chi era ai margini. La testimonianza della carità verso gli emarginati resta ancora oggi una delle esperienze più “provocatorie” per chi si sente lontano dalla pratica ecclesiale. Papa Francesco ce lo ricorda quotidianamente: cosa che crea disturbo anche ad alcuni cattolici.
La “storia della carità” abbozzata nella prima enciclica di papa Benedetto, del resto, suscita una considerazione: la Chiesa in tutte le epoche ha svolto un compito profetico proprio in relazione alle povertà. Si dice spesso che la Chiesa “arriva dopo”, ma di solito nel campo della carità “arriva prima”, perché i cristiani più fedeli al Vangelo sono dotati di antenne che captano le povertà materiali, morali e spirituali dei loro contemporanei ed avviano interventi adeguati. Così ad esempio, fin dalle comunità apostoliche è stata favorita una giusta distribuzione dei beni e la raccolta di denaro per le comunità più povere; nel Medioevo i monasteri sono stati centri propulsori di fede, arte, cultura e lavoro; le prime università sono nate attorno alle cattedrali; gli orfanotrofi, i luoghi di accoglienza e di cura degli anziani e dei malati, i luoghi di educazione dei piccoli sono stati intuiti e realizzati spesso per primi da cristiani; e in tempi più recenti sono stati realizzate scuole materne, oratori, doposcuola e strutture sportive; alcuni cristiani hanno poi avviato esperienze di recupero dei tossicodipendenti, dei carcerati e delle prostitute, sensibilizzando l’opinione pubblica e gli enti statali e locali a queste problematiche.
Sarebbe fuori luogo elencare questi apporti in tono trionfalistico, perché i cristiani sono peccatori come gli altri uomini e spesso hanno sbagliato e sbagliano; nei libri di storia e nelle cronache, però, gli errori vengono amplificati e a volte anche strumentalizzati, mentre gli apporti positivi vengono spesso taciuti: è bene dunque ricordarli ogni tanto. Di fatto in queste e molte altre intuizioni e realizzazioni la Chiesa ha donato alla civiltà delle esperienze che poi sono state integrate e assunte dalla società – “secolarizzate” o “laicizzate”, come talvolta si dice – e sono diventate patrimonio comune. Anziché reclamarne il diritti d’autore, i cristiani devono gioire del fatto che il Vangelo, anche al di là delle loro stesse attese, umanizzi la società. La carità per la Chiesa non deve entrare in un bilancio di dare-avere, ma è “a fondo perduto”, perché la carità è il nome stesso di Dio (cf. 1 Gv 4,8.16), che si dona senza pretendere il contraccambio. Maturata una coscienza civile comune, i cristiani devono avere l’umiltà e il coraggio di “consegnare” le loro opere alla società: essi sanno di essere “sale” e “luce” (cf. Mt 5,13-16) e non saliera e lampadario.
Per rimanere dunque fedeli a questa tradizione, la testimonianza della carità nelle nostre comunità comporta non solo il consolidamento delle opere già in atto, ma la coraggiosa apertura ad esperienze nuove, specialmente verso quelle povertà che non sono ancora divenute oggetto di cura comune. La carità per i cristiani è prima di tutto “preventiva”: la grande opera di formazione ed educazione che le nostre parrocchie portano avanti quotidianamente a tutti i livelli è la prima e fondamentale forma di amore verso il prossimo. La carità è poi anche “curativa”: è la grande opera di assistenza, coordinata a nome della diocesi dalla Caritas e portata avanti da tanti altri enti di ispirazione cristiana (centri, associazioni, cooperative, gruppi), che si estende dall’accoglienza della vita nascente alla cura della vita morente, dalle iniziative per i poveri (mense, dormitori, cure) all’accompagnamento delle persone malate e disabili, dall’attenzione ai carcerati alla sensibilità verso le nuove povertà come la disoccupazione, il disagio delle persone separate, i fallimenti scolastici.
Una delle frontiere oggi più provocatorie delle nostre comunità cristiane è certamente quella legata al fenomeno delle migrazioni, che spesso provoca tensioni e spaccature nelle comunità civili e all’interno delle parrocchie stesse. L’arrivo di migranti sul nostro territorio ci interroga e tocca diverse corde. Prima di tutto non si deve dimenticare che la maggior parte delle persone emigrate in Italia è di religione cristiana, molti dei quali sono cattolici. La presenza di intere comunità cattoliche provenienti da altri paesi (Sri Lanka, Filippine, Perù, Nigeria e altre nazioni africane anglofone e francofone) è una ricchezza che integra e stimola la vita delle nostre parrocchie. Alcune di queste comunità sono assistite da presbiteri inviati appositamente dai loro paesi, che stanno offrendo un servizio importante nella nostra diocesi. Tutte queste comunità, grandi o piccole, ci fanno respirare un’aria di Chiesa diversa dalla nostra e spesso più entusiasta e vitale. Sono le “giovani Chiese” dalle quali possiamo apprendere molto. L’integrazione, che non distrugge le diverse tradizioni ma permette di conoscerle e apprezzarle, è un’opportunità pastorale da cogliere e valorizzare nella nostra Chiesa locale.
La presenza di migranti cristiani e di altre religioni e tradizioni, inoltre, interroga la nostra capacità di dialogo e annuncio e ci chiede di aggiornare alcuni capitoli della “carità” cristiana: ad es. moltiplicare le esperienze di accoglienza della vita nascente, data anche la difficoltà per alcune madri di provenienza straniera a tenere i loro bimbi appena nati o molto piccoli; dare dei segnali di accoglienza dei richiedenti asilo, mettendo a disposizione dei luoghi e soprattutto cercando di creare attraverso l’accoglienza diffusa dei legami personali e comunitari che favoriscano l’inclusione, superando così la metodologia emergenziale che fa sentire continuamente “l’acqua alla gola”; moltiplicare le esperienze di impiego e, dove possibile, di creare occasioni di lavoro per chi ne è privo, facendo circolare i “talenti”, piuttosto che conservarli gelosamente. Sono ambiti che provocano e fanno discutere: ma i cattolici non possono disertarli per il quieto vivere. La profezia evangelica si gioca oggi anche su questi settori, che poi a poco a poco diventeranno patrimonio comune e saranno integrati nella coscienza civile. E allora i cristiani si volgeranno ad altre povertà, andando a cercare prevalentemente quelli che non fanno gola a nessuno, quelli che non sono contesi da altri concorrenti. La Caritas diocesana è disponibile a percorsi di formazione parrocchiale, interparrocchiale e vicariale, per sensibilizzare le comunità a questa particolare beatitudine proclamata da Gesù: “beato, perché non hanno da ricambiarti”.
Pellegrini che si affiancano agli altri pellegrini: presbiteri, laici, famiglie, consacrati, diaconi, ministri.
Lo stile della relazione, della prossimità e dell’accoglienza nelle parrocchie è fatto non solo e non tanto dagli ambienti e dagli orari, dalle iniziative e dalle celebrazioni, ma dalle persone che animano la parrocchia, specialmente presbiteri, laici, famiglie, consacrati, diaconi e ministri: ciascuno, in base ai doni ricevuti dallo Spirito, lascia la propria impronta sul sentiero sul quale cammina la comunità e ne determina il passo. Il volto di una parrocchia non è solo il volto del parroco, ma l’insieme dei volti di tutti i parrocchiani e, in particolare, di quei parrocchiani che nella comunità mettono tempo ed energie a servizio degli altri parrocchiani.
Nella nostra diocesi operano attualmente circa 210 presbiteri: quasi 180 diocesani – dei quali 158 incardinati e 20 non incardinati, soprattutto fidei donum – e una trentina di religiosi. Esprimo a nome dei fedeli della diocesi immensa gratitudine per il servizio umile e competente, spesso nascosto e a volte non abbastanza apprezzato, dei nostri presbiteri. Personalmente mi sento parte viva i questo presbiterio, nel quale mi trovo bene: cerchiamo insieme di affrontare le difficoltà e comunicarci le gioie; a volte viviamo dei momenti di tensione e qualche disaccordo e incomprensione, ma tentiamo di affrontare le cose nella maniera evangelica, attraverso la correzione fraterna e il perdono.
Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia si riferisce al parroco con parole che, adattate, valgono per ogni presbitero: «sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione; e perciò avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione sarà far passare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale. Il suo specifico ministero di guida della comunità parrocchiale va esercitato tessendo la trama delle missioni e dei servizi» (n. 12).
È dunque bene che il parroco, insieme agli altri eventuali presbiteri collaboratori, concentri le sue energie sulla formazione di catechisti di fanciulli, ragazzi, giovani, famiglie, e di ministri della Parola, piuttosto che accollarsi direttamente tutta la catechesi, i gruppi biblici i gruppi del Vangelo nelle case, per quanto alcuni contatti diretti siano utili a lui e ai laici; è bene che il presbitero si impegni a formare operatori nel campo della carità, della malattia e dell’emarginazione, più che intervenire direttamente con iniziative più o meno generose, per quanto alcuni contatti diretti con le diverse povertà lo aiutino a mantenere il polso della situazione; è bene che il sacerdote convogli le sue energie sulla costituzione di un gruppo liturgico e di una comunità di accoliti e di cantori, più che tenere in mano ogni aspetto della liturgia, dalla scelta dei canti alla preparazione dei ministranti, per quanto, anche in questo caso, alcuni interventi diretti siano utili e necessari. In effetti il presbitero, nella visione del Vaticano II, non è colui che possiede, ma colui che presiede l’evangelizzazione, la celebrazione e la vita di carità. Non è la fonte – la fonte è solo Cristo – è colui che aiuta a scoprire e a vivere in modo costruttivo i doni di Dio.
Il carico burocratico e gestionale dei parroci è però a volte così pesante da ridurre parecchio il tempo e le energie per l’evangelizzazione, la preghiera e l’incontro con le persone. Alcuni parroci segnalano giustamente la necessità di essere sgravati da certe incombenze amministrative, a patto però di poter trasferire su laici competenti non solo le relative operazioni, ma anche una responsabilità civile proporzionata. Il diritto attuale non appare adeguato all’affermazione teologica e pastorale della corresponsabilità dei laici nella vita di una comunità. La nostra diocesi, per andare incontro a questa esigenza di sgravio, ha attivato l’Associazione di volontariato “Il Cireneo” e un Centro Servizi che potrà occuparsi, su richiesta, delle questioni di varia natura (amministrativa, fiscale, legale…) riguardanti i rapporti tra parrocchia da una parte e oratorio, centro sportivo o scuola materna dall’altra.
La relazione dei presbiteri con i laici non può essere costruita oggi sui vecchi modelli dell’accentramento e della delega benevola da parte dei preti, che rispecchiava una visione ecclesiologica “piramidale” nella quale l’unico soggetto della missione salvifica era la gerarchia, mentre i laici erano esecutori o poco più; neppure basterà parlare di collaborazione dei presbiteri con i laici, quasi che solo sul piano operativo e sulla spinta della necessità si dovessero costruire delle convergenze; è invece il momento di strutturare una vera e propria prassi di corresponsabilità, che rispecchia l’ecclesiologia del popolo di Dio come “soggetto” della missione e si basa sul sacerdozio battesimale. Benedetto XVI, in un discorso tenuto in San Giovanni in Laterano il 29 maggio 2009 all’apertura del Convegno Pastorale della diocesi di Roma, ribadì che il tempo attuale «esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli “collaboratori” del clero a riconoscerli realmente “corresponsabili” dell’essere e dell’agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato».
Certo, il primo compito dei laici non è il servizio ecclesiale diretto ma la testimonianza della fede cristiana nella società; Lumen Gentium 31 individua nell’animazione delle realtà temporali l’apporto proprio dei laici alla costruzione del regno di Dio. Questo aspetto non va dimenticato quando si parla dei laici: il loro primo e specifico compito è di testimoniare la vitalità del Vangelo nella famiglia, nel lavoro, nella scuola, nel sindacato, nella politica… in tutti quei campi, insomma, che vanno sotto il nome di “realtà temporali”. Occorre vincere la tendenza a valutare la maturità dei laici a partire dal tempo e dalle energie che dedicano direttamente al servizio nella comunità cristiana. Vi possono essere dei laici che almeno in certi momenti della loro vita, per motivi legati alla famiglia o al lavoro o alla salute, non riescono a fare catechismo, ad assumersi servizi e ministeri o ad impegnarsi nel consiglio pastorale, e nondimeno sono dei bravi laici, perché danno testimonianza della loro fede nel mondo in cui vivono.
Proprio il fatto, però, che Chiesa e mondo non sono due realtà parallele ma si intrecciano, impedisce che si possa appaltare la Chiesa al clero e il mondo ai laici. Si parla di uno “specifico”, non di una “esclusiva”. Quindi il laico che ha tempo, talenti ed energie non solo può ma è invitato a dare disponibilità anche a servizi direttamente ecclesiali. I talenti non vanno sotterrati ma messi in circolazione (cf. Mt 25,14-30).
I laici sono in grande maggioranza chiamati alla vita matrimoniale e familiare. Gli sposi offrono nella parrocchia il dono di una testimonianza e di una presenza basati sul sacramento che li trasforma in “una carne sola” (Gen 2,24; Mt 19,6): diventano per ciò stesso lo specchio di ciò che una comunità deve essere, “un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32). Le attività parrocchiali inevitabilmente si rivolgono alle varie “fasce d’età” – bambini, ragazzi, giovani, universitari, lavoratori, sposi, anziani… – e coinvolgono in momenti diversi persone di una stessa famiglia: uno si impegna nelle attività caritative, un altro nel catechismo, un altro ancora nell’animazione liturgica, oratoriale o sportiva e così via. È una struttura pastorale sperimentata, che non è possibile soppiantare. È utile però integrarla con un’altra prospettiva, che evita di smembrare sistematicamente la famiglia: una prospettiva, cioè, che coinvolga il più possibile e quando possibile la famiglia in quanto tale: nella liturgia, nella catechesi, nelle attività ricreative e assistenziali; la parrocchia diventa in questo modo più chiaramente “famiglia di famiglie” e meno “famiglia di singles”. Non solo al centro parrocchiale, ma su tutto il territorio: l’iniziativa dei gruppi del Vangelo nelle case ha anche questo risvolto non trascurabile, favorendo l’incontro non solo di singoli ma anche di famiglie.
La presenza nella parrocchia di una comunità religiosa, femminile o maschile, è un dono prezioso. Spesso le persone avvertono la vicinanza delle “suore” e dei “frati” – così in genere si esprimono, senza troppe distinzioni canoniche – e ne apprezzano la testimonianza e il servizio. La nostra diocesi è benedetta dalla presenza di 30 istituti religiosi femminili e 9 istituti religiosi maschili, a cui va la gratitudine di tutti, tenendo anche conto delle oggettive difficoltà numeriche sperimentate oggi da molti istituti. Vi sono poi persone che abbracciano la vita consacrata in una forma più “laicale”, attraverso gli istituti secolari e l’ordo virginum. È la vita cristiana nella logica del lievito, del fermento che dall’interno e quasi impercettibilmente fa crescere la pasta.
I diaconi nella nostra diocesi sono attualmente 84: li ringrazio di cuore, insieme alle loro spose e famiglie, per la risposta a questa grande vocazione. Nella parrocchia o unità pastorale o nella stessa diocesi, hanno il mandato del vescovo ad essere “sveglia” per l’intera comunità: dovrebbero precisamente tenerne desta l’attenzione e disponibilità al servizio, specie dei più disagiati e di coloro che sono oltre “la soglia”. Papa Francesco ha definito efficacemente il diacono “il custode del servizio” (Discorso nel Duomo di Milano, 25 marzo 2017). Non è opportuno che il diacono svolga continuativamente incarichi di mera supplenza del ministero presbiterale: un segno efficace che dovrebbe aiutare a superare una prassi comunitaria troppo centrata su se stessa e aprire nuove strade alla missione ecclesiale, il diaconato, rischia altrimenti di essere funzionale al semplice mantenimento dell’esistente. È ambito proprio del diacono la sensibilizzazione della comunità cristiana verso le differenti forme di povertà – materiale, morale, affettiva, spirituale – nelle modalità che in ogni comunità viene individuata. È il “ministro della soglia”, colui che ricorda all’intera comunità la necessità di mantenersi aperta e attenta alle persone che non sono pienamente “dentro” la realtà della Chiesa.
Tra i diversi ministeri che animano la vita della parrocchia – lettorato e accolitato, ministero straordinario della Comunione, ministeri di fatto – sarebbe il momento di suscitare il “ministero della consolazione”, che potrebbe essere validamente coordinato da un diacono: riguarda la disponibilità a visitare i malati terminali e le loro famiglie, anche dopo l’eventuale lutto, e a visitare le persone e famiglie colpite da disgrazie gravi, che spesso prendono contatto con la parrocchia in occasione dei funerali, ma che poi ritornano in ombra. I presbiteri da soli, data anche la vastità di molte parrocchie e la molteplicità degli impegni, non possono riuscire a mantenere questi legami; e d’altra parte deve essere la comunità, e non i soli sacerdoti, a prendersi cura dei suoi membri. La nostra diocesi, per iniziativa della comunità del diaconato in collaborazione con la Pastorale della salute, avvierà un percorso di sensibilizzazione delle parrocchie verso questo ministero. Anche la pastorale degli ammalati e dei disabili trova nei ministeri, con il coordinamento del diacono, la possibilità di intrecciare le situazioni domestiche con l’attività parrocchiale. I ministri straordinari della Comunione, in particolare, costituiscono una “rete” molto preziosa tra centro parrocchiale e famiglie nelle quali si vive l’esperienza della malattia e della disabilità.
In molte parrocchie, poi, sono presenti confraternite, ordini equestri, associazioni, gruppi, movimenti, cammini, unioni, cooperative, gruppi spontanei più o meno organizzati di fedeli: se ne contano almeno una sessantina. Anche questa è una grande ricchezza, che risponde alla fantasia dello Spirito e alla capacità di lettura dei “segni dei tempi” che la comunità cristiana mantiene. Ciascuna di queste realtà – spesso strutturate in modo trasversale alle parrocchie e alla diocesi e rivolte verso specifici ambiti pastorali – ha una storia e arricchisce la comunità con le proprie esperienze e il proprio particolare carisma: chi nel campo educativo e formativo, chi in quelli assistenziali e caritativi. La fedeltà al proprio specifico carisma va di pari passo con l’appartenenza alla diocesi. Grazie a Dio, non risultano tensioni tali da mettere in dubbio la comunione e la missione; e con una dose minima di buon senso i problemi vengono risolti facilmente. Si registra, anzi, una buona e cordiale collaborazione tra le diverse realtà e tra queste e la Chiesa locale.
La prossimità della parrocchia, Chiesa pellegrina tra le case, si esprime adeguatamente anche nel segno della visita annuale alle famiglie e ai luoghi di lavoro – le cosiddette “benedizioni pasquali” – rilanciate da papa Francesco con la visita a sorpresa, il 19 maggio 2017, di alcune case popolari a Ostia. Un mese dopo, all’assemblea dei vescovi italiani a Roma, il papa ha illustrato il significato di quel gesto, riaffermando la validità della visita annuale alle famiglie.
Ogni comunità può studiare, anche attraverso il consiglio pastorale, le modalità e le forma migliori a seconda delle proprie tradizioni, della specifica configurazione sociale e territoriale, del numero di abitanti e dei loro ritmi di vita. È opportuno, specialmente nelle grandi parrocchie urbane, che sia una équipe formata anche da diaconi, consacrati e ministri istituiti ad assumersi questo ministero, pur andando nelle case uno alla volta e restando in stretto contatto con il parroco. Questa prassi esprime una comunità “in uscita” dai propri confini, che mantiene aperti i canali tra il centro parrocchiale e le case, in entrambe le direzioni: offre al parroco e ai collaboratori un quadro preciso della situazione delle persone; e regala a tutti i parrocchiani un’occasione per sentire vicina la comunità e renderla partecipe della propria vita quotidiana (confidenze, sfoghi, richieste, consigli).
III. L’organizzazione e gli alloggi del pellegrinaggio:
la revisione delle strutture
Una parrocchia pellegrina deve interrogarsi spesso sul senso delle proprie strutture e sull’effettivo servizio che esse svolgono. La riforma della parrocchia, che passa attraverso la conversione del cuore e lo stile della prossimità, deve giungere anche alle strutture, il cui snellimento contribuisce anche alla conversione personale e ad uno stile accogliente. Ne consideriamo quattro: gli organismi di partecipazione, la gestione dei beni, l’organizzazione territoriale delle parrocchie e le unità pastorali.
Gli organismi di partecipazione.
È noto che negli ultimi anni si è diffuso un certo disincanto, per non dire scetticismo, nei confronti dei Consigli pastorali e degli affari economici. Forse erano stati sovraccaricati di attese quasi magiche e così talvolta ci si è affidati ad essi come se dovessero da soli risolvere magicamente i problemi pastorali, senza il sottofondo di una sufficiente recezione dei contenuti conciliari. Si tratta infatti di strumenti che possono veicolare e anche favorire una visione e prassi di Chiesa, ma non possono surrogarla là dove non esista; per la loro stessa natura, che giuridicamente si chiama “consultiva” (cf. CIC can. 536 § 2), essi potrebbero essere utilizzati in maniera distorta: o come semplice cassa di risonanza di decisioni già prese in antecedenza dal responsabile della comunità, come se la Chiesa fosse una monarchia assoluta; o viceversa secondo la logica di maggioranza e minoranza, mettendo semplicemente tutto ai voti, come se la Chiesa fosse una democrazia parlamentare. In nessuno dei due casi è rispettata la natura della Chiesa, che non è né una monarchia assoluta né una democrazia parlamentare, ma una comunione sinodale.
Giovanni Paolo II, nella Novo Millennio Ineunte (6 gennaio 2001), colloca il significato dei Consigli pastorali (e presbiterali) proprio all’interno della “logica di comunione”, con parole ben misurate: «Devono essere sempre meglio valorizzati gli organismi di partecipazione previsti dal Diritto canonico, come i Consigli presbiterali e pastorali. Essi, com’è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare, perché operano per via consultiva e non deliberativa; non per questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza. La teologia e la spiritualità della comunione, infatti, ispirano un reciproco ed efficace ascolto tra pastori e fedeli, tenendoli, da un lato, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e spingendoli, dall’altro, a convergere normalmente anche nell’opinabile verso scelte ponderate e condivise (…). Se dunque la saggezza giuridica, ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un’anima al dato istituzionale con un’indicazione di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni membro del popolo di Dio» (n. 45). La “disillusione” che spesso oggi si registra circa la natura e il funzionamento di questi organismi è sicuramente collegata alla difficoltà di tradurre in pratica l’ecclesiologia di comunione sinodale, con la prassi del discernimento comunitario e della “corresponsabilità”. Perché possano funzionare, gli organismi di partecipazione non possono diventare semplici luoghi organizzativi e di decisioni operative, ma devono essere prima di tutto luoghi di confronto pastorale, di approfondimento degli argomenti, per potere poi insieme elaborare delle risposte; “co-responsabilità” significa, appunto, rispondere assieme. Al pastore spetta la sintesi e gli orientamenti finali, ma tutti devono poter contribuire alla vita pastorale della comunità.
I beni e la loro gestione.
Riproduco sostanzialmente su questo tema buona parte della scheda n. 4 elaborata in vista del Giubileo della misericordia, distribuita a novembre 2015 e pubblicata poco dopo su “Nostro Tempo”. Il magistero richiama continuamente il fatto che i beni immobili di proprietà della Chiesa – spesso frutto di offerte ed eredità – devono essere utilizzati in maniera conforme alle finalità pastorali: evangelizzazione, culto e carità. Non si tratta certo di un richiamo che cade nel deserto: da sempre le comunità cristiane hanno utilizzato e investito i loro beni per questi scopi. Le storture e gli abusi – spesso amplificati dai mezzi di comunicazione – non devono fare dimenticare la già ricordata “storia della carità”, che segna la vicenda cristiana fin dall’inizio. È sempre necessario, in ogni caso, tenere sotto osservazione questi aspetti.
Il criterio per portare avanti ogni processo di riflessione in un campo così delicato è duplice: da una parte la legalità e dall’altra la finalità pastorale. Non è affatto uno scandalo che la Chiesa possegga dei beni: anche il gruppo dei discepoli di Gesù aveva una cassa (cf. Gv 12,6) ed era assistito da alcune persone (il Vangelo cita qualche nome di donna) che mettevano a disposizione dei beni (cf. Lc 8,1-3). Il pauperismo non è la povertà; il pauperismo è quel disprezzo e rifiuto dei beni che porterebbe poi all’impossibilità di esercitare la giustizia e la carità verso coloro che hanno bisogno e non sono in grado di riscattarsi da soli. I beni della Chiesa, da sempre, sono anche i beni dei poveri: se le nostre comunità non avessero dei beni e delle risorse, tanti poveri sarebbero disperati e tante iniziative di formazione, educazione e assistenza sarebbero impossibili. Lo scandalo nasce nel caso di un utilizzo sbagliato, inadeguato e illecito di questi beni o da un loro uso difforme dalle finalità pastorali della Chiesa. Il problema dunque riguarda le modalità con cui vengono acquisiti e gestiti i beni.
Per questa verifica, da portare avanti costantemente nelle parrocchie, occorre tenere presenti alcuni criteri che valgono non solo per i beni immobili ma, più in generale, per la gestione delle risorse materiali nella Chiesa. a) Deve essere sempre chiara la provenienza dei beni, siano essi mobili o immobili: denaro o strutture di provenienza equivoca o manifestamente illegale, rimangono sempre “sporchi” anche quando sono donati “a fin di bene”, e quindi vanno rifiutati. b) I soldi e le strutture devono essere investiti e utilizzati anche in modo da favorire il lavoro, cioè – pur valorizzando il volontariato di chi opera e la situazione a volte davvero misera di chi è beneficato – devono mettere in rete il più possibile persone che possano anche ricevere uno stipendio onesto e adeguato: costruire degli immobili o gestirli, ad esempio, comporta la circolazione di denaro che compensa delle prestazioni remunerate e quindi contrasta la povertà e la mancanza di lavoro. c) Occorre essere sempre attenti all’uso pastorale del denaro e delle strutture, ossia alla loro rispondenza – diretta o indiretta – alle finalità dell’evangelizzazione, del culto e della carità. Per il sostentamento del clero, invece, esiste l’Istituto Diocesano apposito, che ha una amministrazione e una gestione autonoma, coordinata però insieme a tutta la diocesi. Questa dimensione pastorale comporta l’obbligo della trasparenza, cioè di rendere pubblici i bilanci a qualunque livello; e comporta il dovere di evitare lo spreco e il lusso, che di per sé costituiscono una contro-testimonianza. d) Occorre muoversi, nella gestione dei beni, dentro le leggi dello Stato, senza alcuna deroga motivata da qualsivoglia buona intenzione. Se si deve scegliere, è meglio chiudere una struttura o rinunciare ad una somma di denaro, piuttosto che favorire dei procedimenti illegali o sospetti.
La riorganizzazione territoriale delle parrocchie.
Ripercorro e aggiorno anche in questo caso una scheda (la n. 2) distribuita a novembre 2015 e subito dopo pubblicata su “Nostro Tempo”. La nostra diocesi, come tante altre in Italia, per motivi storici e di configurazione del territorio è formata da parrocchie molto eterogenee tra di loro. Il dato che risalta immediatamente è la disparità del numero degli abitanti. Tra le 243 parrocchie della diocesi, ve ne sono 30 al sotto dei 100 abitanti e 7 al di sopra dei 10.000, due delle quali arrivano quasi a 20.000. Vi sono poi molte altre parrocchie che si collocano nella fascia che va dai 100 ai 500 abitanti, con alcune che scendono sotto il centinaio, e alcune che vanno dai 5.000 ai 10.000. I numeri – come già detto – non sono decisivi nelle valutazioni pastorali, ma danno comunque l’idea di una situazione molto variegata e richiedono delle riflessioni.
La cura pastorale della Chiesa non può discriminare le piccole comunità; e proprio per questo non sarebbe adeguata se mirasse unicamente ad assicurare un “servizio religioso” domenicale o saltuario. Una parrocchia necessita non solo della celebrazione liturgica, ma anche di una vita di relazioni, di evangelizzazione e catechesi, di servizio e carità. La liturgia è “fonte e culmine” della vita cristiana, come ripete il Concilio Vaticano II: e proprio per questo la liturgia suppone il resto della vita comunitaria; tra la fonte e il culmine deve scorrere il fiume della missione. Occorre quindi anche un “numero minimo” di persone perché la parrocchia sia davvero una comunità di fedeli che cresce attorno alla Parola di Dio, alla liturgia e alla testimonianza della carità. Il diritto canonico, poi, richiede obbligatoriamente in ciascuna parrocchia un consiglio per gli affari economici (cf. can. 537). Le “liturgie della Parola in attesa di presbitero”, infine, dovrebbero essere forme straordinarie e non diventare dei surrogati alla celebrazione eucaristica; è il sacrificio eucaristico che costituisce la “forma piena” della comunità cristiana (cf. Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna, Radunati nel Giorno del Signore, del 9 gennaio 2017).
D’altra parte, il numero e l’età dei presbiteri consiglia ormai decisamente di rivedere l’opportunità di alcuni servizi attuali. Non è giusto chiedere ad alcuni – a volte anche di età avanzata – di correre continuamente tra una comunità e l’altra, rischiando a volte anche di persona, specialmente nelle stagioni fredde e nebbiose. Deve stare a cuore a tutti – anche questa è misericordia – l’incolumità e la salute degli altri, compresi quella di coloro che servono le nostre comunità. La responsabilità di numerose parrocchie, poi, rischia di moltiplicare sulle spalle di un medesimo pastore le incombenze giuridiche e burocratiche.
È evidente come questa situazione interroghi anche la nostra capacità di fare spazio a servizi, carismi e ministeri, che esprimono la corresponsabilità dei laici nella Chiesa. Senza clericalizzare i laici, e ribadendo che la loro vocazione riguarda primariamente l’animazione cristiana delle realtà temporali, è certamente opportuno procedere sulla strada del diaconato e dei ministeri laicali, tenendo presente che devono essere degli stimoli al risveglio del senso diaconale di ogni fedele, e non dei delegati che assorbano ogni funzione e compito, né tantomeno dei riconoscimenti onorifici. È utile riflettere sulla possibilità, in alcuni casi, di stabilire nelle parrocchie o ex-parrocchie senza parroco residente dei diaconi o dei laici-referenti, possibilmente famiglie o piccoli gruppi, che tengano vivo il senso di appartenenza alla comunità più ampia e favoriscano la convergenza verso di essa, facendo da “ponte” tra queste piccole comunità e il centro nel quale abita il parroco. In qualche caso si può anche studiare la possibilità che una canonica non abitata dal parroco possa ospitare una realtà che offre in quel luogo una testimonianza ecclesiale forte (ad es. una casa-famiglia).
Per questo, senza avere ipotizzato soluzioni precostituite, ma avendo avviato piuttosto un processo di discernimento sul territorio, è opportuno dopo quasi due anni dall’inizio della riflessione, arrivare ad orientamenti precisi. Il confronto nei diversi vicariati della diocesi si è svolto a diversi livelli. Il temuto spirito di “mortificazione” delle parrocchie piccole non c’è stato; ma si sono anzi studiate soluzioni che le possano valorizzare, mantenendo in esse diversi momenti celebrativi e ricreativi e aiutandole a meglio convergere pastoralmente in comunità più grandi, dove possano respirare relazioni su vasta scala e vivere occasioni e iniziative condivise di formazione e di incontro. Ogni parrocchia, anche piccola, può essere il tassello di una comunità più grande quando vede valorizzata la propria “vocazione” e qualificate le proprie strutture.
Sono stati quindi individuati dei “centri” attorno a cui costruire o far convergere la vita pastorale, valorizzando nello stesso tempo le parrocchie più piccole. I criteri seguiti sono stati: a) Studiare i luoghi dove già convergono le attività e strutture civili del territorio (scuole, luoghi di lavoro, negozi, luoghi di ritrovo, uffici, ospedali, sport, servizi amministrativi) e ripensare eventualmente, in relazione a questi, le convergenze ecclesiali sul territorio; ormai la mobilità è molto elevata e gli spostamenti facilitati sia per i mezzi di trasporto sia per la viabilità. b) Riflettere sui tentativi eventualmente già fatti per unire insieme le parrocchie (diversi modelli: collaborazione, unità pastorale, fusione…) e verificare caso per caso la possibilità di accorpare parrocchie e/o costituire unità pastorali; c) Individuare la “vocazione” specifica di piccole parrocchie, tenendo conto anche delle strutture di cui sono dotate e della posizione in cui si trovano (es.: area verde, campo sportivo, attrezzature, canonica agibile o meno, altri spazi interni ed esterni). d) Verificare la situazione delle canoniche più grandi in ordine alla possibilità di ospitare delle piccole comunità di presbiteri a servizio dinamico del territorio: può trattarsi di coabitazione tra parroci e/o coadiutori e collaboratori di diverse parrocchie vicine o tra presbiteri impegnati nella stessa unità pastorale; la vita comune del clero, pur non potendosi configurare come obbligo – deve quindi essere scelta o accolta dagli stessi presbiteri – è ritenuta positiva dal magistero della Chiesa, raccomandata dal can. 280 del CIC, opportuna come esperienza di sostegno umano, comunicazione di fede e coordinamento pastorale. e) Esprimersi sulla possibilità, in determinati luoghi, che i presbiteri anziani in grado di svolgere un ministero – siano stati o meno parroci in quel territorio – possano coabitare o collaborare con altri presbiteri più giovani. f) Verificare se la “liturgia in attesa di presbitero”, là dove viene celebrata, sia la risposta pastorale più adeguata: tenendo presente sia la centralità della celebrazione eucaristica per una comunità cristiana, sia la natura del diaconato legata all’animazione del servizio ai poveri e non della sola liturgia.
Da questa scheda sono emerse molte proposte, poi esaminate nel consiglio presbiterale e in diverse riunioni del consiglio episcopale. Si tenga presente che vi sono due anni (dal 2017 al 2019) per consolidare le nuove collaborazioni pastorali, prima di passare – dove indicato – alla traduzione canonica con i nuovi confini territoriali e le eventuali fusioni. Nello stesso arco di tempo verranno esaminate e approvate caso per caso le proposte di ridefinizione parziale del territorio per una assegnazione più adeguata di strade e abitazioni fra le diverse parrocchie.
Le unità pastorali.
Già dai tempi del Sinodo diocesano, conclusosi nel 1992, si è fatta la scelta delle unità pastorali (cf. Sesta Costituzione. Ambito strutture, III, 111, 17); tutta la Chiesa italiana e non solo, del resto, sta procedendo verso questa forma di organizzazione pastorale della comunità cristiana, che non rappresenta il superamento della parrocchia – quando questa realmente sussiste – ma la spinta ad una collaborazione effettiva e strutturata. Le unità pastorali (d’ora in poi UP) aiutano le singole parrocchie ad uscire dalla autosufficienza e dalla autoreferenzialità, per aprirsi al territorio più ampio e utilizzare meglio le forze disponibili. La diminuzione numerica dei presbiteri rende ancora più opportuna questa convergenza, ma non ne può costituire la motivazione principale: forme di collaborazione tra parrocchie esistono da sempre, specialmente in contesti nei quali il territorio presenta configurazioni favorevoli; ma oggi non se ne può fare a meno.
Alla luce del CIC vigente, si possono immaginare anche nella nostra diocesi, per i prossimi dieci-vent’anni, tre diverse forme di UP, considerando anche l’effettiva prevedibile disponibilità numerica dei presbiteri nel territorio. a) Due o più parrocchie guidate da un solo parroco, con eventuali presbiteri collaboratori (cf. can. 526 § 1); in tal caso ogni parrocchia deve avere il proprio Consiglio per gli affari economici, mentre il Consiglio pastorale può essere comune a tutta l’UP. b) Due o più parrocchie guidate da diversi presbiteri con il titolo di parroci (eventualmente coadiuvati da presbiteri collaboratori), uno dei quali svolge la funzione di moderatore dell’UP (cf. can. 517 § 1); anche in questo caso ciascuna parrocchia deve avere il proprio Consiglio per gli affari economici, mentre il Consiglio pastorale può essere comune a tutta l’UP. c) Due o più parrocchie, ciascuna con il proprio parroco, il proprio Consiglio per gli affari economici e il proprio Consiglio pastorale, che senza alcun tipo di vincolo giuridico decidano di cooperare in alcuni settori (ad es. formazione di catechisti, coordinamento orario per la celebrazione delle Messe, processioni, preparazione comune al Battesimo e al Matrimonio e così via). In tutte e tre le forme è possibile nominare un presbitero o un diacono come responsabile di una pastorale di “ambito” trasversale all’intera l’UP: ad es. per i giovani, gli anziani, i malati, i catechisti, le famiglie, gli emarginati; o anche un sacerdote stabilmente disponibile per le confessioni.
+ Erio Castellucci
Modena, 14 settembre 2017.
Festa dell’Esaltazione della Santa Croce.
VICARIATO CITTADINO “CENTRO STORICO
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Centro Storico”: Basilica Metropolitana (4.286), San Biagio (1.817), San Barnaba (1.874), Sant’Antonio da Padova-Cittadella (5.360), San Francesco d’Assisi (2.583), San Giuseppe-Tempio (2.417), Sant’Agostino (1.637), San Pietro Ap. (2.064).
Le prospettive:
La parrocchia di Cittadella passa al vicariato Crocetta-S.Lazzaro.
Sono costituite nel Centro storico tre parrocchie: S. Agostino-S. Barnaba, S. Francesco-S. Pietro e S. Biagio-Tempio.
Il territorio della parrocchia della Cattedrale è suddiviso fra le tre suddette parrocchie facendo emergere il Duomo come Chiesa Cattedrale, centro propulsore non solo delle celebrazioni, ma anche dell’evangelizzazione.
VICARIATO CITTADINO “CROCETTA-SAN LAZZARO”
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Crocetta”: Santa Caterina (9.088), Sant’Anna ai Torrazzi (1.457), Albareto (3.146), San Matteo (204).
Unità Pastorale “San Lazzaro”: San Lazzaro (6.286), San Pio X (9.127), Regina Pacis (8.332)
Unità Pastorale “Sacca”: Sacro Cuore-Sacca (4.382), San Giovanni Ev. 6.022).
Le prospettive:
Si prevede l’accorpamento della parrocchia di S. Matteo a quella di Sant’Anna.
VICARIATO CITTADINO “SANT’AGNESE”
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Ospedali”: Beata Vergine della Salute-Ospedali (1).
Unità Pastorale “Madonna Pellegrina”: Madonna Pellegrina (7.602), Spirito Santo (6.712)
Unità Pastorale “S. Agnese”: S. Benedetto Abate (5.874), Sant’Agnese (8.346), Collegarola (508), San Donnino (787), Collegara-San Damaso (3.478).
Unità Pastorale “S. Teresa”: Sacra Famiglia (9.247), S. Teresa (10.690).
Le prospettive:
In futuro si procederà all’unificazione giuridica di Collegarola e S. Donnino con Collegara-S.Damaso in una sola parrocchia.
A S. Teresa occorrerà attivare un “centro parrocchiale” snello (“tenda”) anche nella zona Sud della parrocchia, data la sua espansione in quella direzione.
VICARIATO CITTADINO “S. FAUSTINO – MADONNINA”
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Gesù Redentore”: B.V. Addolorata (3.138), Cognento (2.876), Gesù Redentore (13.347).
Unità Pastorale “Madonnina”: B.V. Mediatrice-Madonnina (7.174), Cittanova (1.527), Freto (2.187), Marzaglia (1.342).
Unità Pastorale “Saliceta – San Giuliano”: San Paolo Apostolo (4.015), Santa Rita (4.030), Saliceta-San Giuliano (4.206).
Unità Pastorale “SS. Faustino e Giovita”: SS. Faustino e Giovita (8.896), San Giovanni Bosco (5.348).
Le prospettive:
Cittanova, rimanendo parrocchia è unita a Cognento in UP con un unico parroco.
VICARIATO DEL CIMONE
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Fanano”: Canevare (118), Fanano (1.746), Fellicarolo (86), Lotta (186), Ospitale (78), Serrazzone (117), Trentino (437), Trignano (96).
Unità Pastorale “Pieve-Fiumalbo”: Fiumalbo (1.231), Rotari (52), Pievepelago (1.311), Roccapelago (68), Sant’Andrea Pelago (503), Sant’Anna Pelago (322), Tagliole (53), Castellino di Brocco (15), Castello (127), Groppo (43), Riolunato (384), Serpiano (141).
Unità Pastorale “Sestola”: Acquaria (526), Magrignana (8), Montecreto (441), Casine (231), Castellaro (162), Rocchetta (145), Roncoscaglia (202), Sestola (1.420), Vesale (258).
Le prospettive:
Le parrocchie la cui consistenza non rende possibile la vita comunitaria e che non hanno più la celebrazione festiva saranno accorpate ai centri parrocchiali più grandi.
VICARIATO DEL DRAGONE
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Frassinoro”: Cargedolo (11), Frassinoro (652), Piandelagotti (273), Riccovolto (86), Sassatella (82), Lago (87).
Unità Pastorale “Montefiorino”: Casola (386), Farneta (207), Gusciola (69), Montefiorino (362), Rubbiano (164), Vitriola (364).
Unità Pastorale “Palagano”: Boccasuolo (134), Costrignano (314), Monchio (419), Palagano (1.122), Savoniero (124), Susano (62).
Le prospettive:
Le parrocchie la cui consistenza non rende possibile la vita comunitaria e che non hanno più la celebrazione festiva saranno accorpate ai centri parrocchiali più grandi.
VICARIATO DELLA BASSA
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Camposanto”: Solara (1920), Cadecoppi (169), Camposanto (3.418).
Unità Pastorale “Cavezzo”: Cavezzo (5.017), Disvetro (762), Motta (778).
Unità Pastorale “Finale”: Finale Emilia (9.478), Massa Finalese (5.097), Reno Finalese (350).
Unità Pastorale “Medolla”: Camurana (400), Medolla (5.264), Villafranca (556).
Unità Pastorale “San Felice”: Rivara (2.010), S. Biagio in Padule (857), S. Felice sul Panaro (7.336).
Unità Pastorale “San Prospero”: San Lorenzo della Pioppa (546), San Pietro in Elda (1.102), San Prospero (3.457), Staggia (791).
Le prospettive:
La parrocchia di Solara passa dalla fine del 2017 al Vicariato di Campogalliano-Nonantola-Bomporto.
Nel 2019 sono unificate Reno Finalese con Finale Emilia e Camurana con Medolla.
VICARIATO DELLA PEDEMONTANA EST
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Castelvetro”: Castelvetro (4.815), Levizzano Rangone (1.776), Ca’ di Sola (2.117), Solignano (2.527).
Unità Pastorale “Marano”: Festà (410), Marano sul Panaro (3.736), Villabianca (144).
Unità Pastorale “San Cesario”: Sant’Anna di S. Cesario (1.100), San Cesario sul Panaro (4.517).
Unità Pastorale “Savignano”: Formica (2.930), Mulino (3.730), Savignano sul Panaro (3.255).
Unità Pastorale “Spilamberto”: Spilamberto (5.670 + 4.830), San Vito (1.762).
Unità Pastorale “Vignola”: Brodano (5.797), Campiglio (2.134), Vignola (18.172).
Le prospettive:
Le UP diventeranno quattro: Castelvetro, Spilamberto-S. Cesario, Savignano e Vignola- Marano La parrocchia di Formica è quindi aggregata all’UP “Savignano”, riunificando così le parrocchie appartenenti al medesimo e omonimo comune.
VICARIATO DELLA PEDEMONTANA OVEST
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Casinalbo”: Baggiovara (3.832), Casinalbo (6.172), Corlo (3.475), Magreta (4.320).
Unità Pastorale “Castelnuovo Rangone”: Castelnuovo Rangone (10.087), Montale (4.750), Portile (1.607), S. Maria di Mugnano (475), S. Martino di Mugnano (178).
Unità Pastorale “Fiorano”: Fiorano (7.797), Nirano (164), Spezzano (8.670).
Unità pastorale “Formigine”: Ubersetto (1.260), Colombaro (1.820), Formigine (19.704).
Unità Pastorale “Maranello”: Fogliano (317), Maranello (10.108), Pozza (3.740), S. Venanzio (908), Torre Maina (2.840).
Le prospettive:
Le parrocchie di S. Maria di Mugnano e S. Martino di Mugnano saranno accorpate nel 2019 alla parrocchia di Portile. Così Nirano con Spezzano e Fogliano con Maranello.
VICARIATO DI CAMPOGALLIANO – NONANTOLA – SOLIERA
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Bastiglia”: Bastiglia (4.486), Bomporto (3.679), Sorbara (4.054), Sozzigalli (1.137).
Unità Pastorale “Campogalliano”: Campogalliano (7.516), Saliceto Buzzalino (713).
Unità Pastorale “Nonantola”: Bagazzano (262), Nonantola (14.840), Redù (464), Rubbiara (164), Ravarino (4.836), Stuffione (881).
Unità Pastorale “Soliera”: Ganaceto (838), Lesignana (1.123), San Pancrazio (417), Villanova (1.614), Soliera (10.170).
Le prospettive:
Le UP saranno ripensate in modo più omogeneo agli abitanti:
- UP “Soliera”: Soliera, Sozzigalli, Sorbara.
- UP “Campogalliano”: Campogalliano, Saliceto Buzzalino, Ganaceto, Lesignana, San Pancrazio, Villanova.
- UP “Bastiglia”: Bastiglia, Bomporto, Ravarino, Stuffione, Solara.
- UP “Nonantola”: Nonantola, Bagazzano, Redù, Rubbiara.
VICARIATO DI PAVULLO NEL FRIGNANO
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Lama Mocogno”: Barigazzo (84), Cadignano (33), Lama (1.183), Mocogno (180), Montecenere (370), Sassostorno (225), Vaglio (227).
Unità Pastorale “Pavullo Centro”: Castagneto (241), Frassineti (88), Miceno (584), San Bartolomeo (6.235), Sasso Guidano (73).
Unità Pastorale “Pavullo Nord”: Benedello (458), Camurana (16), Coscogno (486), Crocette (267), Montebonello (667), S. Antonio di Padova (1.376).
Unità Pastorale “Pavullo Sud”: Iddiano (116), Montecuccolo (863), Monteobizzo (4.084), Montorso (197), Niviano (244), Verica (834).
Unità Pastorale “Pavullo-Renno”: Camatta (229), Gaiato (328), Monzone (282), Olina (169), Renno (362).
Unità Pastorale “Polinago”: Pianorso (173), Brandola (132), Cassano (263), Gombola (481), Polinago (823), S. Martino Vallata (49), Morano (238).
Le prospettive:
Le UP sono già in fase di ristrutturazione:
- UP “Lama Mocogno”: Barigazzo, Cadignano, Lama, Mocogno, Montecenere, Sassostorno, Vaglio.
- UP “Polinago”: Montorso, Brandola, Cassano, Gombola, Polinago, San Martino Vallata,
- UP “Pavullo Nord”: Benedello, Camurana, Coscogno, Crocette, Montebonello, Sant’Antonio.
- UP “Pavullo”: tre zone.
a) San Bartolomeo, Miceno, Frassineti, Monteobizzo,
b) Verica, Castagneto, Niviano, Iddiano, Montorso,
c) Renno, Olina, Monzone, Camatta, Sassoguidano,
Le seguenti parrocchie, la cui consistenza non rende possibile la vita comunitaria e che non hanno più la celebrazione festiva, saranno accorpate ai centri parrocchiali più grandi: Cadignano, San Martino, Sassoguidano e Camurana.
VICARIATO DI SERRAMAZZONI
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Montebaranzone”: Montebaranzone (441), Pescarola (118), Montegibbio (334), Varana (399).
Unità Pastorale “S. Dalmazio”: Denzano (77), Ospitaletto (230), Riccò (618), S. Dalmazio (814).
Unità Pastorale “Serramazzoni”: Sassomorello (110), Faeto (163), Granarolo (32), Ligorzano (984), Monfestino (437), Montagnana (450), Pazzano (388), Pompeano (244), Rocca S. Maria (357), Selva (666), Serramazzoni (2.522), Valle (81).
Le prospettive:
Le parrocchie la cui consistenza non rende possibile la vita comunitaria e che non hanno più la celebrazione festiva saranno accorpate ai centri parrocchiali più grandi.
VICARIATO DI ZOCCA
La situazione come risulta ora:
Unità Pastorale “Guiglia”: Castellino delle Formiche (77), Gainazzo (25), Guiglia (1.810), Monteorsello (372), Pieve di Trebbio (114), Roccamalatina (610), Rocchetta (145), Samone (400).
Unità Pastorale “Montese”: Bertocchi (25), Castelluccio Moscheda (186), Iola (246), Maserno (424), Montese (1.575), Montespecchio (55), Salto S. Maria (371), S. Giacomo Maggiore (195), S. Martino di Salto (81), Montalto (183), Semelano (48).
Unità Pastorale “Zocca”: Ciano (396), Missano (219), Montealbano (143), Montecorone (429), Monteombraro (873), Montetortore (404), Rosola (542), Zocca (1.902).
Le prospettive:
Le parrocchie la cui consistenza non rende possibile la vita comunitaria e che non hanno più la celebrazione festiva saranno accorpate ai centri parrocchiali più grandi.
Allegati
Ringraziamo don Claudio Arletti e don Giacomo Violi, che hanno introdotto la Tre giorni pastorale di settembre con due incisive meditazioni sull’argomento della casa e della “parrocchia”, che mettono a disposizione di tutti:
Aquila, Priscilla e Paolo: piccola chiesa domestica – don Claudio Arletti, 7 giugno 2017
Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì in casa loro e lavorava. Di mestiere, infatti, erano fabbricanti di tende. Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci (At 18,1-4).
L’incontro con Aquila e Priscilla apre il terzo viaggio missionario di Paolo e coincide con la fondazione della chiesa di Corinto. Lo stesso piccolo gruppo sarà protagonista anche di quella di Efeso, due centri internazionali di grande importanza sia per la fiorente attività commerciale che per l’intensa vita culturale. Corinto non sembrava una sede ideale, a prima vista, considerandone la vita assai licenziosa, ma Paolo riesce ad impiantarvi una comunità cristiana solida e vivace, pur con tutti i problemi legati alla cultura e alla storia di questa colonia romana. Anche Efeso con i suoi legami al mondo della magia presentava non pochi problemi. Eppure con Aquila e Priscilla nasce anche nell’evangelizzazione, qualcosa di nuovo, per certi versi, una cooperazione inedita e apparentemente casuale, ma decisiva. È una nuova metodologia missionaria che non vede solo l’apostolo ospitato dalla coppia, ma trova nella coppia il primo nucleo essenziale ad intrecciare rapporti là dove si annuncia il Vangelo.
L’inizio è quanto mai modesto e segnato da una sconfitta. Sia Paolo, sia la coppia di giudeo-cristiani, sono reduci da una cacciata. Paolo ha lasciato Atene dopo un sostanziale insuccesso e una evidente derisione. Priscilla e Aquila sono stati allontanati da Roma dall’editto dell’imperatore Claudio, probabilmente intimorito dalle tensioni sorte a Trastevere, nella popolosa colonia giudaica, a causa di un certo «Cresto».
La predicazione cristiana a Roma, rivolta anzitutto ai giudei aveva creato non pochi problemi, per il rifiuto opposto comunemente dagli ebrei davanti alla messianicità di Gesù. L’imperatore, senza troppi distinguo aveva limitato la presenza di capi ed animatori giudei e cristiani, allontanandoli dalla capitale.
È proprio il «credo» che professano a renderli come fuggiaschi. Sono tre esuli. Questo li accomuna. Per certi versi, sono tre perdenti e tre ricomincianti.
L’inizio è segnato anche da un autorevole «no». La loro squalifica non proviene solo dalla fede professata, ma da due città che riassumono in sé l’intera cultura e storia europea: Atene e Roma, città sognate e desiderate in quanto emblema del pensiero filosofico e del diritto, nonché della forza politica dell’Impero. Ma queste due città, e dunque la romanitas e la grecitas non li hanno voluti.
Ancora e soprattutto, l’inizio di questa nuova corsa della Parola è segnato non da incontri avvenuti in una sede religiosa o per motivi legati alla fede, ma alla loro storia e alla loro cultura e professione. Sono tessitori di tende. Fanno parte della stessa corporazione. Non li fa incontrare anzitutto il Vangelo. Sono altri i fattori che li portano a vivere insieme: il lavoro, un lavoro che di fatto li asserviva al potente esercito di Roma, per le cui tende, probabilmente, tagliavano il cuoio già conciato.
Sono dentro ad un sistema che opprime ma che consente anche loro di vivere. Probabilmente lavoravano dove vivevano, dentro al mercato di Corinto, gestendo una piccola bottega in una ampia galleria coperta che correva ai quattro angoli di una piazza. Lì Paolo e i due coniugi hanno avuto di certo i primi contatti legati alla loro professione.
Ciò consentì a Paolo una certa autonomia economica, dato che impressionò, come sappiamo, chi conobbe l’apostolo. La sua fede non era fonte di lucro. Non ne ricavava un interesse personale concreto. Era un uomo libero, come i due coniugi, libero di servire il Vangelo.
Accomunati dal Vangelo, distinti per storia ed educazione, mentre Paolo era fariseo figlio di farisei, probabilmente Aquila e Priscilla, come suggerito dai loro nomi romani, erano schiavi giudei divenuti liberti, con alle spalle una vita completamente diversa, per educazione e possibilità.
Proprio la libertà potè essere il segno e il fulcro del loro annuncio, non solo per ragioni teologiche ma anzitutto personali ed esistenziali. Aquila e Priscilla avevano conosciuto la schiavitù di Roma, Paolo la schiavitù che proviene da una errata lettura della legge di Dio, come realtà soffocante e impraticabile. Il Vangelo, per loro, era libertà e come libertà lo annunciarono a chi era schiavo del proprio vizio e della propria immoralità o della magia unita al culto delle divinità greche.
La loro nuova vita, reduce da due esperienze diverse di schiavitù, ossia la dipendenza da un padrone e la dipendenza dalla legge giudaica, viene posta a servizio del Vangelo, di un annuncio di libertà. Uomini liberi a tal punto da permettere poi a tutti e tre di ricominciare a Efeso, lasciando tutto ciò che avevano costruito a Corinto e portando il peso della solitudine e dell’estraneità.
Quella casa diviene il primo nucleo della chiesa nascente chiesa di Corinto e lo rimase a lungo, come apprendiamo dal saluto che Paolo rivolge ai cristiani di quella città menzionando specialmente Aquila e Priscilla «con la comunità che si raduna nella loro casa» (1 Cor 16,19). La parola comunità traduce il greco «ekklesìa». È proprio una piccola chiesa, una comunità cristiana che ascolta la Parola e celebra l’eucaristia a radunarsi presso Aquila e Priscilla. Essi faranno lo stesso anche a Roma, dove ritorneranno, precedendo l’apostolo, come apprendiamo da Rm 16,3-5. Qualunque sia il luogo che li ospita, loro lo rendono luogo ospitale per la Parola e l’annuncio.
È la scelta di un luogo laico, di un luogo familiare dove tutto nasce da un gesto di accoglienza che permette di condividere. Anzi, senza quel concreto punto di appoggio diviene difficile far germogliare una comunità cristiana: a Corinto Paolo si appoggiò alla casa di Gaio, a Laodicea, presso la casa di Ninfa, a Colossi presso la casa di un certo Archippo. Realtà domestiche assolutamente comuni hanno trovato nell’ospitalità del Vangelo un passaggio nell’eterno. Noi ancora oggi sentiamo questi nomi e ricordiamo queste famiglie, non per caratteristiche singolari, ma per la loro accoglienza al Vangelo.
Non siamo lontani dal vero se immaginiamo quanto quella case divenne fucina di progetti, idee e confronti, luogo di preghiera e di scambio, di vita fraterna, dove diviene molto difficile fingere o barare, perché la vita dell’altro è qualcosa che vedi da vicino.
Descrivendo il servizio di Priscilla e Aquila alla Chiesa nascente in collaborazione a Paolo, Benedetto XVI, nella catechesi che dedicò ad Aquila e Priscilla, scrive formulando una sorta di profezia o comunque una intuizione legata al futuro della fede: «Così era nella prima generazione e così sarà spesso».
Nella casa di Tizio Giusto – don Giacomo Violi, 8 giugno 2017
Quando poi Sila e Timoteo giunsero dalla Macedonia, Paolo si diede tutto alla predicazione, attestando ai Giudei che Gesù era il Cristo. Ma resistendo essi e lanciando bestemmie, egli scosse la polvere dalle vesti dicendo loro: «Il vostro sangue cadrà sul vostro capo: io non ne ho colpa. Da questo momento andrò dai pagani». E di là si trasferì presso un certo Tizio Giusto, che onorava Dio, la cui casa era contigua alla sinagoga. 8 Crispo, capo della sinagoga, credette al Signore con tutta la sua casa, e molti dei Corinzi che avevano ascoltato Paolo credevano e si facevano battezzare. l Signore una notte disse in visione a Paolo: «Non temere, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno metterà le mani su di te per farti del male; poiché c’è per me un popolo numeroso in questa città». Così Paolo rimase per un anno e sei mesi insegnando in mezzo ad essi la Parola di Dio. (At 18,5-11)
Nella lettura breve di ieri abbiamo meditato sulla nascita della chiesa di Corinto a partire dall’accoglienza che Paolo ha trovato presso una coppia di profughi: Aquila e Priscilla. La fondazione della comunità di Corinto è così determinata da un incontro provvidenziale, preceduto da due fallimenti: Atene per Paolo e Roma per Aquila e Priscilla. Un inizio modesto con i primi contatti legati alla professione, al gomito a gomito della lunga giornata lavorativa. A un certo punto la coppia ospita Paolo e quella casa aperta diventa il primo nucleo di annuncio del Vangelo. E’ la chiesa di Corinto.
Oggi la meditazione del vespro ci porta in un’altra casa, comunque vicina a quella di Aquila e Priscilla, una dimora meno conosciuta, ma non meno importante: quella di Tizio Giusto, dove continuerà ciò che è nato nella sinagoga. Quasi un passo ulteriore della neonata chiesa di Corinto, un nuovo necessario assetto a partire da una diversa condizione e recezione in città. Un cambiamento, un’altra casa, ma ancora una casa, con tutti i significati di intimità, ordinarietà, che essa comporta.
Andiamo con ordine. Sulla scena compaiono altri nomi: arrivano Sila e Timoteo fedeli collaboratori di Paolo, che consentono al pastore di dedicarsi tutto alla Parola. E’ la comunità che riconosce e favorisce i diversi carismi e aiuta ad espletarli. Il tema dell’evangelizzazione è riassunto da Luca dal verbo διαμαρτύρομαι (diamartyromai) “affermare solennemente” e dall’oggetto di tale solenne affermazione, ossia che “Gesù è il Messia!” Gesù è il Cristo attestato dalle Scritture l’atteso da Israele. Paolo si presenta con queste parole ad Antiochia (At 13,16-41) e a Tessalonica (17,3). Questo annuncio ha nella sinagoga ha un effetto dirompente. Il verbo άντιτάσσω (antitasso) dice un fronte organizzato di resistenza contro Paolo e il Vangelo. Il verbo βλασφημέω (blasfemeo) fa capire il livello e i modi dell’opposizione. Paolo, “scuote le vesti”, gesto biblico con cui richiama alla responsabilità delle proprie azioni, con le conseguenze letali del rifiuto.
Israele ha beneficiato della priorità dell’annuncio di Dio in Gesù Cristo, ma se lo rifiuta gli evangelizzatori si rivolgeranno verso coloro che erano esclusi: “andrò dai pagani”.
Ecco la nuova casa: il centro della nuova comunità è la casa di un timorato di Dio, “un tale”: prima nessuno aveva pensato a lui. Un tale Tizio Giusto. Da un lato è la prima indicazione di un luogo specifico destinato all’insegnamento cristiano rivolto anche ai pagani, dall’altro, la precisazione che è contigua alla sinagoga, mostra che, se il particolarismo d’Israele è eliminato, i missionari del Vangelo non rinunciano al legame con il giudaismo e che la casa di Tizio Giusto è nel contempo ambone per Giudei e greci. Nonostante il rifiuto permane una vicinanza che apre ad ulteriori scenari. Frutto sorprendente di questo nuovo assetto è Crispo, il capo della sinagoga che si converte al Vangelo. Come lui “molti corinzi, ascoltando Paolo, credevano e si facevano battezzare”.
Cosa sta succedendo nella città pagana estranea a Dio e tutta prona al piacere e alla ricchezza? Nella città dei giochi istmici dove neanche l’incesto scandalizza?
Un passaggio meraviglioso fa capire quello che accade in questa comunità. Una notte, in visione, il Signore dice a Paolo: “Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te (…) io ho un popolo numeroso in questa città”. Dietro Paolo che riteneva ormai conclusa la missione di Corinto, che era tentato di smettere di proclamare il Vangelo, c’è l’intervento di Gesù che incoraggia e sostiene. A quattro riprese Luca ricorda un’apparizione divina a Paolo per sostenerlo nei momenti chiave della sua vita: sulla via di Damasco, prima del futuro ingresso in Europa, all’arresto e sulla nave in pericolo! Dietro Paolo, dietro la chiesa di Corinto c’è Gesù. La vuole, la ama e la protegge. Quando noi pensiamo alla chiesa, fermiamoci e ricordiamo che prima di tutto Gesù pensa a noi. Paolo, stanco e preoccupato può anche prendere sonno, ma “non si addormenta il custode d’Israele”. “Non avere paura, sono con te!”
Credo che quando pensiamo la chiesa, quando cerchiamo di cambiare la chiesa, dobbiamo chiederci se prima abbiamo ascoltiamo la Parola di Dio su di essa. La sua promessa e il suo progetto. La promessa è che lui non abbandona la piccola comunità di Corinto e la promessa di Dio è garanzia, aiuto nelle angoscia, forza nella tempesta. La parola di Gesù nella notte di Paolo ci deve far trasalire all’idea che siamo “suo popolo gregge del suo pascolo”, e Gesù dà la vita per le sue pecore. Gesù usa il termine laos “popolo”, che era riservato a Israele, popolo eletto, e lo applica alla comunità di Corinto dove non c’erano né potenti né sapienti, ma ex pagani ed ex giudei. Anzi in quella città malfamata c’è un popolo numeroso che attende il Vangelo. Credo che il Signore dica a tutti noi oggi: “continua a parlare e non tacere, perché io sono con te”.
La casa di Tizio Giusto, è la casa di un pagano simpatizzante, è una casa tra la sinagoga e il tempio di Apollo, una casa tra le case, in greco paroikia dove si celebra Gesù, il Signore, Messia d’Israele, salvatore delle genti. Dove si ricorda che non siamo né di Apollo né di Paolo, dove ci si affida alla sapienza della croce, dove si predica che il corpo è tempio dello Spirito, dove si richiama la grandezza della cena del Signore, contro il rischio di ridurla a banchetto da osteria! La casa di Tizio Giusto, casa tra le case, paroikia, è il luogo di santa convocazione dove si riconoscono i carismi di tutti e si cerca la carità, protesi verso l’incontro con il Risorto.
Abbreviazioni e sigle
CIC = Codex Iuris Canonici, Codice di Diritto Canonico, revisionato e promulgato da Giovanni Paolo II, del 25 gennaio 1983.
EG = Esortazione postsinodale di Papa Francesco Evangelii Gaudium, del 24 novembre 2013.
LG = Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium del Concilio Ecumenico Vaticano II, del 21 novembre 1964.