Prosegue la riflessione sulla crisi del prete portata avanti su Settimana News da don Francesco Cosentino, presbitero della diocesi di Catanzaro-Squillace, officiale presso la Congregazione per il clero e docente incaricato presso la Pontificia Università Gregoriana. Qui i suoi interventi precedenti: Crisi del prete. Si può fare diversamente? (2 luglio); La crisi del prete. Accettare “lo scarto” (14 luglio); La crisi del prete. “Non lasciateli soli”! (3 settembre).
Dall’interessante risposta che il vicario generale della diocesi di Liegi (Belgio), Alphonse Borras, ha dato a Settimana News, il 22 marzo scorso, è utile riprendere i tre elementi che avrebbero come denominatore comune «la paura» e che, di fatto, impediscono una rilettura dell’identità presbiterale e, ancor più, una vera riforma del ministero. Si tratta del tradizionalismo, dell’ecclesiocentrismo e del clericalismo.
Il prete «che sta al centro»
Il primo, afferma Borras, è «la paura di affrontare con fiducia il presente». Aggiungerei per completezza, che si tratta anche della paura del futuro che, cristianamente parlando, non è un ignoto avvenire, ma la realtà del Regno che ci viene incontro, sfidando i nostri schemi consolidati e richiamando la nostra continua «conversione pastorale», ben ricordata in Evangelii gaudium. In fondo, il cristiano vive sempre di un pensiero e di una prassi che si «sporgono» sul futuro, identificabile con Dio stesso. Chi è prigioniero della «nostalgia di ieri» elimina la dimensione escatologica della fede e si irrigidisce.
L’ecclesiocentrismo è «la paura di affrontare la presenza nel mondo… paura di entrare in dialogo con l’oggi». Sì, e ritengo che questa paura abbia generato un modello e uno stile di Chiesa oramai appesantito e obsoleto, incapace di leggere e interpretare le nuove sensibilità odierne. Per paura di essere troppo accomodanti con il mondo, si finisce con il trincerarsi dentro una realtà rigida protetto che, di fatto, non esiste. Così, la Chiesa rimane una cittadella in difensiva, paurosa e, all’occorrenza, aggressiva. Parafrasando il teologo benedettino Elmar Salmann, anche quando si offre una parvenza di novità, nella Chiesa permane e resiste un certo «risentimento anti-moderno».
Infine il clericalismo. Borras afferma che è «la paura dei laici, la paura di perdere il potere, la paura di lasciarsi interpellare o rimettere in questione». Papa Francesco lo ha denunciato spesso, come un «male che bastona e allontana dal popolo di Dio».
Queste tre grandi paure, generando un certo modello di Chiesa, invocano e promuovono anche una figura di prete. È il prete «che sta al centro».
Ritengo che questo sia un punto focale della crisi odierna del prete e – a seguire – di certe impostazioni pastorali ed ecclesiali: nelle derive elencate, così come in altri modelli di fede e di Chiesa, il prete deve stare al centro: per difendere uno spazio, per esercitare un potere, per dominare le coscienze o per qualche altra ragione. Egli rimane, anche quando tutte le intenzioni sono buone, il centro dell’azione pastorale ed ecclesiale: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,8) diceva Gesù. Lo diceva di se stesso, non dei preti!
«Troppo»… ma «non più»
Oggi, la figura del prete vive, in realtà, una situazione di passaggio, che mentre mette in evidenza la «crisi», apre nuovi scenari di speranza e di riforma. Essa si fonda su un paradosso che, soprattutto nelle Chiese del Vecchio continente, permane: il prete è ancora «troppo al centro» e, allo stesso tempo, il prete «non è più al centro».
Lo è perché, nell’attuale configurazione ecclesiale e parrocchiale – più giuridica che reale – continua ad assumere un ruolo predominante e, di conseguenza, riceve un’infinità di richieste e rimane catalizzatore di tutti i bisogni del popolo; egli riassume ancora in sé tutta la ministerialità della Chiesa, soffrendo anche una certa «solitudine pastorale», per il fatto di non poter condividere con nessuno i percorsi formativi e i progetti pastorali. I laici, anche quelli più bravi, sono «forza-lavoro», ma per il resto «non gli si può chiedere nulla». Dietro questa frequente lamentela, c’è in realtà la nostra grave colpa di non aver formato un laicato maturo e di non aver promosso una corresponsabilità nei ministeri ecclesiali.
D’altra parte, il prete non è più al centro, a motivo di un profondo mutamento che interessa la società e la cultura, e che va nella direzione di una generale scristianizzazione o, comunque, di una sempre minore rilevanza e incidenza del ruolo della Chiesa e della religione, quindi anche della sua figura.
Siamo esposti a un non semplice paradosso. Il prete che rimane ossessivamente al centro conosce le molte cose da fare, le supplenze da onorare, i ritmi di vita accelerati; egli si trova ingolfato, tra gli impegni della pastorale e il numeroso arcipelago di messe da celebrare (ma quando ripenseremo anche questo?) e, per di più, in contesti spesso scristianizzati o frammentati, dove sembra che vada a vuoto buona parte di questa fatica. Così, egli prova sentimenti di disagio che possono anche sfociare nella caduta emozionale, nella spersonalizzazione di chi «non si sente prete» o «non si sente bene in ciò che vive e che fa», nella stanchezza fisica e psichica, nell’esaurimento delle proprie energie interiori.
Dove sta il centro?
La sfida è una sola: de-centrarsi. Il pastore, ha affermato papa Francesco nell’omelia per il Giubileo dei sacerdoti, «è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini».
Ciò significa che occorre ripensare teologicamente e pastoralmente il ruolo del presbiterato, ritrovando “il centro” nella propria specificità: Cosa significa essere il prete di una comunità? Quali sono le cose davvero essenziali e importanti della missione del prete? Qual è lo specifico del ministero presbiterale?
Il concilio Vaticano II aveva provato a disegnare una Chiesa ministeriale e comunionale. Il sogno è stato mille volte ripensato, ammorbidito e ostacolato. Ed è disonesto affermare che si tratta di una scommessa persa perché, alla fin fine, non ci sono laici «capaci di»; il problema vero è che non ci siamo voluti assumere la fatica – evidentemente enorme – che il Concilio ci aveva affidato: la formazione dei laici. Dove questa c’è stata, oggi esiste un laicato di valore e di spessore e gli esempi sono moltissimo.
Essere preti è rimandare all’unico «centro»: Gesù Cristo. Lui è il buon Pastore del gregge. E, invece, diciamolo: la figura di prete che abbiamo ancora in testa – e che anche i Seminari formano – è ancora individualista e verticistica.
Implicazioni pastorali
Decentrarsi e condividere la missione avrebbe chiare implicazioni pastorali: il ministero sacerdotale viene relativizzato, spogliando il ministro sia del pericolo mondano del potere e dell’autoritarismo, sia dell’ansia che egli accumula nel sentirsi il centro di tutto e il risolutore dei problemi; l’esercizio del ministero, poi, inciterebbe e motiverebbe un agire ecclesiale più ampio, in cui la responsabilità viene allargata a tutti i battezzati, il che si tradurrebbe in ritmi di lavoro meno duri, unità nell’azione pastorale, crescita nelle relazioni fraterne.
Tutto ciò mette in crisi alcuni modelli ecclesiali e pastorali centrati soprattutto sull’efficientismo del prete; come nota ironicamente Greshake, «non si è mai organizzato tanto nell’ambito della cura d’anime, né mai come oggi si sono tenuti così tanti corsi di carattere pastorale o si è potuto disporre di letteratura teologica, né mai, infine, sono stato offerti così tanti aiuti o sono state suggerite tante strategie pastorali. Tuttavia, nonostante tutta questa fatica, otteniamo indubbiamente sempre meno successo» (G. Greshake, «Il ministero sacerdotale in una Chiesa in trasformazione», in Rivista del clero italiano 1(2010), p. 16).