La parrocchia di domani: questo è l’intento di un documento elaborato dalla Congregazione per il clero dal titolo La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa. È attraversato da alcune dimensioni prospettiche trainate dal dinamismo di fondo dell’annuncio missionario: dal luogo e territorio all’ambito di vita; dalla struttura alle persone; da un gruppo “parroco-centrico” a una comunità di relazione; dal prete singolo alla vita comune e al presbiterio.
Un progetto coraggioso di riforma che rimuove alcune sperimentazioni, viene disciplinato e limitato dalla forma giuridica e si ferma prima di affrontare il tema urgente relativo al ministero e alle sue condizioni. L’istruzione che si estende per una trentina di cartelle, 11 capitoli e 124 punti, merita un’attenzione non occasionale, ben oltre le curiosità evidenziate dai media in merito alla possibilità per i laici di celebrare il battesimo, la liturgia della Parola, il rito delle esequie e la predicazione o sul rifiuto di tariffe relative ai sacramenti.
Conversione missionaria
Non sorprende, ma è comunque rilevante la riaffermazione della centralità della parrocchia in ordine alla vita della Chiesa, come immediata disponibilità del Vangelo a chiunque abiti in un territorio. Chiamata a una conversione pastorale in senso missionario, a entrare in dialogo con le diverse culture, assimilando le novità della vita sociale, la parrocchia non può fermarsi a ripetere sé stessa.
«Organismo indispensabile di primaria importanza nelle strutture visibili della Chiesa» (Giovanni Paolo II), «faro che irradia la luce della fede» (Benedetto XVI), essa «non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità» (Francesco). Oltre l’immediata dimensione territoriale è chiamata, attraverso carismi e ministeri diversi, a darsi una figura di comunione per una pastorale d’insieme e per un “dinamismo in uscita” verso l’annuncio a tutti.
«Il presente documento, perciò, oltre a evidenziare l’urgenza di un simile rinnovamento, presenta un modo di applicare la normativa canonica che stabilisce le possibilità, i limiti, i diritti e i doveri di pastori e laici, perché la parrocchia riscopri sé stessa come luogo fondamentale dell’annuncio evangelico, della celebrazione dell’eucaristia, spazio di fraternità e carità, da cui si irradia la testimonianza cristiana per il mondo» (n. 123).
Meno territorio, più relazioni
Non viene negata la genialità originaria della parrocchia in ordine all’annuncio evangelico in un territorio, ma si percepisce il suo sfrangiarsi nel vissuto delle persone. L’accresciuta mobilità e la cultura digitale hanno «modificato in maniera irreversibile la comprensione dello spazio, nonché il linguaggio e i comportamenti delle persone» (n. 8). Il legame col territorio è meno percepito, i luoghi di appartenenza sono molteplici e le appartenenze si ridisegnano, con la richiesta di un nuovo discernimento comunitario.
«È in questo “territorio esistenziale” che si gioca tutta la sfida della Chiesa in mezzo alla comunità. Sembra superata quindi una pastorale che mantiene il campo di azione esclusivamente all’interno dei limiti territoriali della parrocchia, quando spesso sono proprio i parrocchiani a non comprendere più questa modalità» (n. 16). Il nuovo “luogo” non è estraneo al territorio ma è identificato dalle relazioni e dalla fraternità, un “luogo” «che favorisce lo stare insieme e la crescita di relazioni personali durevoli» (n. 26). «Il fattore “chiave” non può che essere la prossimità» (n. 44).
La ridefinizione del territorio va di pari passo con l’attenzione alle persone e al loro vissuto. A questo fine «è necessario anche generare nuovi segni» e «trovare altre modalità di vicinanza e prossimità» (n. 14) davanti a popolazioni non più omogenee. «L’appartenenza ecclesiale oggi prescinde sempre più dai luoghi di nascita e di crescita dei membri e si orienta piuttosto verso una comunità di adozione» (n. 18). Una sfida richiesta dal popolo di Dio nel suo insieme. «La conversione pastorale delle strutture implica la consapevolezza che il santo popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo» (n. 37).
La visione comunionale della parrocchia non rimuove il ruolo del ministero presbiterale e delle altre responsabilità di servizio, ma impedisce la concezione autoreferenziale e la clericalizzazione della pastorale mettendo in primo piano le relazioni «come segno vivo della vicinanza di Cristo attraverso una rete di relazioni fraterne, proiettate verso le nuove sfide di povertà» (n. 19). «La riscoperta della fraternità è fondamentale, dal momento che l’evangelizzazione è strettamente legata alla qualità delle relazioni umane» (n. 24).
Cantiere aperto
Il cantiere delle riforme delle strutture è già attivo da decenni, con esiti diversificati e talora insufficienti. Oltre alla parrocchia (che registra occasionalmente al suo interno centri pastorali), sono apparse le unità pastorali che afferiscono ai vicariati (decanati), a loro volta coordinati nelle zone pastorali (prefetture). Parrocchie e vicariati sono nella tradizione, mentre le unità pastorali e le zone sono recenti. Le unità pastorali sono «il raggruppamento stabile e istituzionale di varie parrocchie» (n. 54), le zone pastorali, in particolare per le diocesi più grandi, riuniscono diversi vicariati (decanati) sotto la guida di un vicario episcopale. Un processo di ristrutturazione in atto, spesso diverso nei tempi e nei modi da diocesi a diocesi.
Il testo richiede che il passaggio avvenga per «ravvivare in tutte le componenti della comunità cristiana, la comune vocazione all’evangelizzazione» (n. 44), che nasca da una consultazione approfondita e non per ragioni «reversibili a breve scadenza (ad esempio, la consistenza numerica, la non autosufficienza economica, la modifica dell’assetto urbanistico del territorio)» (n. 48). Le singole parrocchie possono essere soggette a divisione (per formarne di nuove), a federazione (il caso delle unità pastorali), a incorporazione (una si spegne nell’altra), a fusione (da due o più ne nasce una nuova).
Il cambiamento delle strutture induce una ridefinizione delle funzioni e delle persone. Sul sacerdote-parroco vi è una insistita riaffermazione della sua identità ministeriale e istituzionale, escludendo che le sue funzioni e il suo ufficio possano essere affidati a chi non è ordinato, a una persona giuridica o a un gruppo di persone (composto da chierici e laici) (n. 66 e ss.). Ha piena responsabilità pastorale e rappresentanza giuridica, è nominato a tempo indeterminato e non può essere rimosso se non con le relative procedure canoniche.
Alla rigidità del parroco fa da controcanto il servizio temporaneo dell’amministratore parrocchiale. Nel caso dell’affidamento «in solido» a un gruppo di preti di più parrocchie, è prevista una nuova figura, quella del moderatore. Al vicario parrocchiale si apre la possibilità di un servizio trasversale a più parrocchie (per esempio, la pastorale giovanile). Più ampia l’attenzione ai diaconi, ministri ordinati legati all’esperienza familiare e al servizio della Parola, dell’altare e dei poveri (nn. 79 – 82).
«Sono molti gli incarichi ecclesiali che possono essere affidati a un diacono, ossia tutti quelli che non comportano la piena cura delle anime». Vengono indicati anche i religiosi e le religiose a cui si chiede di testimoniare la dimensione carismatica della Chiesa e la radicalità della sequela. Infine, i laici, chiamati a «dare testimonianza di una vita quotidiana conforme al Vangelo» e ad assumersi «impegni loro corrispondenti al servizio della comunità parrocchiale» (n. 85).
Nuove possibilità
Più originali alcune forme di affidamento della cura pastorale. Il vescovo «può affidare una partecipazione all’esercizio della cura pastorale di una parrocchia a un diacono, un consacrato o un laico, o anche a un insieme di persone» (n. 87), sempre sotto il coordinamento e la guida di un presbitero. Si sottolinea che «l’unica causa canonica che rende legittima (la scelta) è una mancanza di sacerdoti, tale che non sia possibile provvedere alla cura pastorale della comunità parrocchiale con la nomina di un parroco o di un amministratore» (n. 90).
Si confermano tutti gli altri servizi previsti per i laici: dalla catechesi al servizio di ministranti, dall’educazione ai lettori e accoliti. Si rende esplicita la possibilità di affidare anche ai laici la celebrazione liturgica della Parola, l’amministrazione del battesimo, il rito delle esequie, la delega per l’assistenza al matrimonio e la predicazione (non nel caso dell’omelia durante la messa). Di un qualche interesse è l’insistenza con cui si suggerisce ai preti una nuova consapevolezza di appartenenza al presbiterio e la pratica della vita comune.
Alla comunità del presbiterio è affidata l’arte del discernimento pastorale. «Quando il presbiterio sperimenta la vita comunitaria, allora l’identità sacerdotale si rafforza, le preoccupazioni materiali diminuiscono e la tentazione dell’individualismo cede il passo alla profondità della relazione personale» (n. 64).
Il non detto
In conclusione, è difficile sottrarsi alla percezione di una configgente tensione: da un lato, una sincera apertura alle sfide che i nuovi vissuti cristiani pongono alla dimensione parrocchiale, alla necessità di coraggio e invenzione; e, dall’altro, il vincolo del diritto, considerato non superabile e non investito adeguatamente delle domande di riforma.
È significativa l’insistenza, peraltro difensiva, circa il ruolo non rimuovibile o modificabile del prete-parroco, con una sorprendente insistenza, per esempio, sulle parole con cui qualificare il servizio degli altri protagonisti. I nuovi responsabili delle comunità parrocchiali non vanno indicati come parroci, co-parroci, pastori, cappellani, moderatori, coordinatori, responsabili parrocchiali, denominazioni «riservate dal diritto ai sacerdoti» (n. 96).
Rimossi i tentativi dei decenni scorsi di sostituirsi alle parrocchie da parte delle comunità di base, dei movimenti, dei riferimenti alle presenze monastiche. Così anche le sperimentazioni tutte interne al tessuto parrocchiale come le comunità di base ecclesiali e similari. Il tutto converge sul punto decisivo del ministero, della sua formazione, del suo esercizio e della sua condizione celibataria. Un punto nevralgico, non alla portata del testo, ma difficilmente ignorabile.
La sopresa è di trovarci di fronte a un documento che nella prima parte mostra una apertura alla chiesa semper rinnovanda, come la sinodalità, e che nella seconda parte chiude di nuovo basandosi sul diritto canonico senza molta riconscenza di quanto nelle diocesi si sta facendo per mettere al centro il popolo di Dio e la comunità ASSIEME al sacerdote.
Anche io ho scritto qualcosa.
Se può essere utile…
Non riesco a vedere un “progetto coraggioso di riforma” in un documento che trasuda clericalismo e rigidità da ogni riga. C’è il tentativo di mettere vino nuovo in otri vecchi, senza peraltro voler accogliere il vino nuovo. Il “cambiamento di epoca” richiede un totale ripensamento, un linguaggio nuovo, un’accoglienza umile e totale dello Spirito che soffia con forza e spazza via tutto quanto è diventato struttura vuota, come appunto la parrocchia. E come i seminari…(!!)