Una volta la scelta del nuovo governatore della Banca d’Italia era un processo lungo e farraginoso, che vedeva contrapposti partiti, blocchi di potere, culture. Questa volta sta andando tutto come previsto: il governo Meloni ha avviato la procedura di nomina del successore di Ignazio Visco e ha puntato sul grande favorito, Fabio Panetta.
Panetta è un raro caso di candidato che incrocia il curriculum adatto e l’affinità politica, perché ha seguito la carriera interna della Banca d’Italia fino al massimo grado, direttore generale, e poi è stato promosso nel board della Banca centrale europea, posizione ricoperta in passato da altri italiani più che autorevoli di provenienza Banca d’Italia (Lorenzo Bini Smaghi e Mario Draghi, che della BCE era anche presidente).
Quanto alla consonanza politica, Panetta viene da un ambiente romano che, in senso lato, si può definire più vicino alla destra che alla sinistra e con Giorgia Meloni ha coltivato fin da subito un rapporto che lo avrebbe portato a diventare ministro dell’Economia, a ottobre scorso. Ma Panetta ha saggiamente declinato l’offerta, perché un posto da governatore della Banca d’Italia è più duraturo, più prestigioso (e meglio pagato) di una nomina inevitabilmente effimera in via XX Settembre.
A fari spenti nella notte
Panetta, con la raffinatezza dialettica del banchiere centrale, ha continuato a mandare anche da Francoforte rassicurazioni sulla sua affidabilità, con ben due citazioni di Lucio Battisti (che negli schieramenti musicali italiani sta a destra) e l’invito alla Bce a non guidare «a fari spenti nella notte».
Come tutta la comunicazione della BCE in questa confusa fase di inflazione, anche i discorsi di Panetta assumono un tono un po’ oracolare aperto a più interpretazioni. Quella che è stata data in Italia è che Panetta era in linea con il governo di Roma (e perfino con la Banca d’Italia di Ignazio Visco) nel tentativo di arginare i paesi del Nord che chiedono aumenti dei tassi di interesse e restrizioni monetarie annunciate, dure e progressive fino a quando l’inflazione non sarà di nuovo sotto controllo.
Panetta invece caldeggia l’approccio che la BCE chiama «dipendente dai dati» che, nel concreto, significa navigare a vista sperando che il futuro non riservi sorprese troppo negative, senza vincolarsi in anticipo ad aumenti di tassi di interessi che potrebbero rivelarsi non necessari se l’inflazione (soprattutto nei servizi) dovesse frenare e se i timori di recessione dovessero farsi più concreti.
Tutto bene, dunque, con questa nomina? Sì e no. Un ex dirigente di Banca d’Italia, qualche settimana fa, osservava che questa destra non ha alcuna cultura delle nomine, perché ultima erede di un approccio organicista e illiberale allo Stato nel quale le autorità indipendenti sono da sottomettere, e non da rispettare.
Certo, la nomina di Panetta non preoccupa dal punto di vista della statura del candidato. Ma può anche essere compatibile con l’approccio illiberale temuto dall’ex dirigente di Banca d’Italia: la destra è convinta di aver messo «uno dei loro» che eviterà altri problemi come con la Corte dei conti e il PNRR, cioè critiche inattese e sgradite.
L’interesse della nazione
Da un punto di vista tattico, o di interesse della «nazione», come direbbe Meloni, la nomina di Panetta è un rischio sul piano europeo. Panetta lascerà il board della BCE e non è affatto detto che l’Italia riesca a sostituirlo con un altro membro italiano: un po’ perché non ci sono molti candidati con lo stesso standing (si parla di Daniele Franco, ex ministro ed ex direttore generale di Banca d’Italia), ma anche perché il peso politico dell’Italia in Europa in questo momento è ai minimi storici. Fuori dagli assetti politici che hanno regolato l’UE in questa legislatura, non ancora in grado di approfittare del possibile allargamento a destra della maggioranza fondata sul PPE che si prefigura dopo le elezioni 2024.
E, soprattutto, guardata con sospetto dal lato dei conti pubblici: il governo Meloni si appresta a rinviare a settembre la discussione sulla ratifica della riforma del fondo salva Stati MES (bloccata di fatto dal veto italiano, dopo l’approvazione a livello governativo nel 2021) e non ha ancora ottenuto la terza rata di pagamenti relativa al PNRR, del quale continua a chiedere la revisione senza presentare alcun progetto.
Perdere un riferimento nel board permanente della BCE comporta poco di formale ma molto di sostanziale: per un paese ad alto debito quale l’Italia avere un interlocutore ricettivo e comprensivo nel comitato ristretto che decide la politica monetaria è cruciale, soprattutto quando ci sono fasi di turbolenza politica che possono generare incertezza finanziaria (eventualità assai frequente in Italia).
L’euro digitale
Per Panetta tornare in Italia, in autunno, significherà anche abbandonare il grande progetto a cui ha lavorato in questi anni, quello dell’euro digitale che ora la Commissione europea si appresta a regolare.
Spiegare cosa sia e a cosa serva è missione complessa, visto che già ora abbiamo tutti la sensazione di fare pagamenti digitali in euro e non avvertiamo la necessità di altri supporti. In estrema sintesi, però, i pagamenti che facciamo ora si basano su complesse interazioni tra banche private e sistemi di pagamento internazionali che – abbiamo scoperto nel conflitto con la Russia – possono essere fragili e addirittura uno strumento di guerra economica. Oggi è toccato alla Russia subire l’esclusione dal sistema di pagamenti Swift e il congelamento delle riserve nelle altre banche centrali, ma un domani potrebbe succedere ad altri.
In una globalizzazione anche finanziaria che si riorganizza intorno al principio della autonomia strategica, un euro digitale gestito dalla BCE garantirebbe all’Europa una sua indipendenza strutturale anche dagli Stati Uniti e dalle loro propaggini finanziarie. Inoltre, la BCE vuole evitare che siano altri paesi – come la Cina – o soggetti privati poco vigilati e molto rischiosi nel mondo delle criptovalute a intercettare la nuova domanda di pagamenti digitali.
Certo, potrebbe anche avere due controindicazioni: permettere a una istituzione molto potente e relativamente poco controllata come la BCE di monitorare tutte le transazioni degli individui (ci sono mille rassicurazioni che questo non avverrà, ma anche qualche timore che resterà possibile) e potrebbe rendere obsoleto l’intero sistema bancario.
Con un euro digitale davvero di successo sarebbe meno necessario depositare i propri soldi in banca, pagare costose commissioni per accedere ai nostri risparmi e usarli attraverso carte di credito o altri strumenti di pagamento.
Se anche le persone normali, come le banche, avessero un conto direttamente presso la BCE, che non può fallire, pagherebbero molto meno e avrebbero molta più sicurezza. Ma così le banche perderebbero la raccolta di risparmio che usano poi per erogare mutui e finanziamenti alle imprese. Per questo si discute di limiti al numero di euro digitali che le persone potrebbero detenere, per costringerle a usare comunque i depositi bancari (ma quando sarà chiaro che il conto corrente serve solo a garantire i profitti della banca, quanti vorranno davvero continuare a usarlo se ci sono alternative disponibili?).
Inoltre, e questo la BCE non lo sottolinea mai, un controllo diretto dell’euro digitale permetterebbe in caso di necessità di applicare tassi negativi direttamente sui depositi, per incentivare le persone a spendere e sostenere l’economia e i prezzi (casomai si ponesse di nuovo il problema della deflazione, una volta finita l’inflazione attuale).
Forse a Panetta, tutto sommato, non dispiacerà occuparsi di questioni più domestiche invece che di questa ardita scommessa sul futuro del sistema finanziario. Magari riuscirà anche a portare un po’ di cultura economica ed europea in un governo che finora non ne ha dimostrata molta. O magari ci troveremo una Banca d’Italia più in sintonia con la retorica conservatrice e nazionalista della premier. Lo capiremo presto.
Pubblicato sulla newsletter Appunti il 29 giugno 2023