Su Domani del 4 luglio Marco Damilano ha speso un’attenta ricostruzione di alcuni passaggi della storia dell’impegno politico dei cattolici italiani quale chiave di volta intorno a cui immaginare una resistenza all’implosione del quadro democratico della convivenza fra molti – in primis, nel nostro paese.
Lanciando la suggestione che l’antidoto contro l’uscita della democrazia dalla democrazia starebbe nel raccogliere oggi quanto di meglio seppe fare in altre stagioni, anche non troppo lontane da noi, quella realtà, a dire il vero più complessa e articolata di come la rappresenta Damilano, del cattolicesimo democratico.
La suggestione troverebbe una sua congiuntura favorevole nell’accoppiata della leadership della Chiesa globale e di quella italiana, nelle persone di Francesco e del card. Zuppi neopresidente della CEI. E, forse, qui un primo distinguo sarebbe opportuno: la forma politica di una presenza pubblica dei cattolici sostenuta da papa Francesco è quella dei movimenti popolari, nel contesto di una democrazia inclusiva; d’altro lato, l’humus politico-civile in cui è immersa l’opera del card. Zuppi è quello della Comunità di S. Egidio – l’esperienza di ministro per la cooperazione internazionale di Andrea Riccardi nel governo Monti e la breve stagione del forum di Todi (2011) ne segnano il limite.
In entrambi i casi, si tratta di referenti se non alternativi, quantomeno distanti dalla galassia del cattolicesimo democratico e di quello che di esso rimane in alcune biografie di politici italiani.
Più vicino a esso, e drammaticamente attuale nell’ora presente, è il filone del costituzionalismo politico rappresentato da La Pira, che il card. Bassetti ha cercato di rilanciare, non senza qualche impaccio, attraverso i due convegni sul Mediterraneo di Bari e Firenze.
È qui che viene custodito il primato non concorrenziale, ma armonicamente integrato, dei diritti sociali su quelli individuali – ossia di una democrazia nata per essere costitutivamente e costituzionalmente altro dai totalitarsimi del XX secolo, geneticamente diversa da quella partorita dalle due rivoluzioni del XVIII secolo intrisa di individualismo proprietario ed esaltazione del privato sul bene comune.
Se c’è un germe di resistenza all’implosione della democrazia che sta corrodendo il sistema americano, è in questa tradizione d’oltreoceano del cattolicesimo civile che esso va cercato. Non per ripetere semplicemente la storia, ma per imparare da essa. Un germe che porta in sé una fine cultura della negoziazione fra orizzonti culturali e di militanza diversi tra di loro, che si ritrovarono coesi nella volontà di porre una cesura radicale rispetto alla storia che stava alle loro spalle.
Una cultura politica che si è lentamente sbriciolata insieme allo sgretolamento della cosiddetta Prima Repubblica, e che trovò nell’Ulivo un tentativo di ripresa e attualizzazione in una congiuntura geopolitica inedita – tramontata definitivamente con la fine di quell’esperimento.
Si tratta di un patrimonio che appartiene alla storia di tutto il paese e non solo a un gruppo di rappresentanza particolare. Una storia che è stata sicuramente scritta anche dall’impegno politico, non solitario e non di parte, di molti cattolici e cattoliche. Di cui poi le generazioni seguenti non sono state all’altezza, accomodandosi in un quieto riflusso biografico – convinti, erroneamente, che si trattasse di un meccanismo politico che funzionava da sé. Ma così non era.
Ecco perché la società, di cui i cattolici fanno parte, non è una semplice vittima di una politica autoreferenziale ritenuta distante dall’uomo e dalla donna comune. Davanti alla crisi nostrana della democrazia, la società non è innocente ma coprotagonista di una trasformazione della politica da negoziazione delle conflittualità sociali a specchio narcisistico della loro implementazione istituzionale. A questo si unisce l’incuria nei confronti delle istituzioni ridotte a erogatrici di soddisfazione dei nostri bisogni privati e dei desideri rivendicati come diritti inalienabili. L’esplosione e il tramonto del movimento 5stelle ne è un esempio.
Un dibattito su cattolici e politica è sicuramente doveroso, non fosse altro perché essi hanno contribuito sia a scrivere alcune delle pagine più luminose della nostra democrazia, sia a indebolirne in molti modi gli assi portanti negli ultimi decenni.
Assumersi la responsabilità per entrambi i fenomeni, senza trovare scuse di comodo, fa parte del dovere civile della fede. Un dovere che bisogna tornare a esercitare imparando dalla storia e approntando nuovi scenari, lasciandosi alle spalle tanto il lobbysmo romano quanto il provincialismo bolognese. Un dovere che ci impedisce di pensarci, come cattolici, sia solitari sia egemoni.
Per immaginare forse anche un ruolo di leadership, ma non a livello di potere di parte, quanto piuttosto di ispirazione e convocazione: di quei pensanti e competenti che possono ritrovarsi nel quadro di quel costituzionalismo politico che è l’asse portante del modello italiano di democrazia.
Come redazione di SettimanaNews ci rendiamo disponibili a sollecitare e ospitare un dibattito di questo genere.
La chiave di lettura corretta sta nella parola “responsabilità”, non nel recupero di etichette ormai sbiadite. Chi, se non coloro che si riconoscono in visioni radicate nel personalismo su cui è strutturata la nostra Costituzione, può lavorare al cantiere di ricostruzione di una nuova democrazia? È difficile, a mio avviso, pensare di uscire dalle secche del pragmatismo ideologico e “consensolatrico” in cui ci stiamo impantanando, senza ricorrere alle fonti del socialismo democratico e al cattolicesimo democratico. Parlo di cantiere perché urge costruire nuove strutture, nuove case. Non pensare di restaurare quelle del passato. Ben vengano quindi gli inviti alla responsabilità, rivolti ai cattolici come a chiunque abbia voglia, cultura e intelligenza per andare oltre una politica che a ritmo di social, dove quello che è vero ora si può ribaltare tra mezz’ora, sta scivolando verso la distruzione del mondo e l’affermazione di nuove forme di dittatura.
Anni fa ho scritto e pubblicato un libricino, una sorta di lettera aperta ad un politico immaginario sui fondamenti del cattolicesimo in politico.
Essendo un articolo che invita ad un dibattito su un tema critico per molteplici aspetti, mi permetto di lanciare una provocazione. Leggendo già il titolo “i cattolici e la politica” si potrebbe pensare che ci sia una chiara identità cattolica e un corrispondente modo di fare politica. Ma proprio l’identità cattolica è in crisi almeno quanto lo è la democrazia italiana e non solo. Chi sarebbero i “cattolici” che potrebbero in qualche modo ri-avviare un processo democratico? Renzi è cattolico? Lui dice di sì. Salvini è cattolico? Anche lui lo afferma. Berlusconi? Certamente. Meloni? Anche. Letta? Pure. Conte? Certo. Di Maio? Come no. Lo sono l’attuale presidente del Consiglio Draghi e il presidente della Repubblica Mattarella. E chi più ne ha più ne metta. Tutti cattolici! Siamo dunque in buone mani noi “cattolici”. Verrebbe addirittura da chiedersi statisticamente se non ci sia qualche correlazione tra la crisi della democrazia e questa asserita cattolicità. Cosa vorrebbe dire essere cattolici o ritenersi tali? Andare a messa la Domenica? Recitare il rosario? Dire di credere a quanto propone il Credo? Allinearsi ad una certa morale ritenuta cattolica? Se tutto ciò poteva in qualche modo essere ritenuto sufficiente 70 anni fa per identificarsi come cattolico, oggi appare sempre più come una maschera (e la politica un grande carnevale), ma forse (per non pensare male) neppure coloro che la portano, oramai assuefatti, riescono a vedere più in qua del naso della maschera.