“Crisi”. Oggi, in Italia, identifichiamo questo termine con la crisi di governo che ci porterà, il prossimo 25 settembre, alle elezioni. Ma in realtà, sotto l’attuale crisi di governo, è ormai evidente una crisi ben più profonda, duratura e multifattoriale, del nostro sistema politico e – temiamo – ormai anche delle nostre istituzioni parlamentari.
Proviamo a ricostruire, a partire dalla recente crisi del governo Draghi, lo scenario ancora più preoccupante della crisi di sistema italiana, per comprendere a quali compiti strategici e istituzionali sarebbero chiamate le forze politiche, qualunque sia l’esito delle urne a settembre.
La crisi del governo Draghi
Fiumi di inchiostro e di parole sono stati spesi sulla crisi politica e parlamentare che ha portato il presidente Mattarella, lo scorso 21 luglio, a sciogliere anticipatamente le Camere. Non potremo certo in questa sede realizzare una sintesi completa e organica dei tanti punti di vista espressi dalle forze politiche e dai diversi commentatori. I fatti che paiono evidenti e incontrovertibili sono:
- Che dal 13 febbraio 2021 l’Italia era retta da un governo “ultima spiaggia” di unità nazionale – con la sola esclusione di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e poche altre sigle minori – in considerazione della manifesta incapacità di affrontare i grandi temi che si ponevano al Paese, da parte di tutte le diverse maggioranze costruibili in base ai risultati delle elezioni 2018 (giallo-verde prima, giallo-rossa poi);
- Che a innescare la crisi del governo Draghi sono state le tensioni insite nella “maggioranza” che lo reggeva, in particolare da parte del Movimento 5 Stelle, nel frattempo scissosi al suo interno e passato in prevalenza nelle mani di Giuseppe Conte, mai troppo amico del suo “successore” Mario Draghi;
- Che a completare la crisi di governo è stata la scelta delle forze del centrodestra – Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – di non rilanciare su una possibile diversa maggioranza, ancora a guida Draghi, ma di andare senz’altro alle elezioni, in cui sono in vantaggio. Questo, unitamente ai tentativi un po’ goffi del Partito Democratico di non far uscire dall’orbita di governo –e quindi delle sue possibili alleanze politiche – i Cinquestelle di Conte. In altri termini, chi ha pensato di poter vincere le prossime elezioni – sondaggi alla mano – non è stato estremamente motivato a rimettere insieme i cocci creatisi nella maggioranza. E chi era preoccupato di perderle, invece, ha cercato prima di tutto di non uscire dalla crisi con “il cerino in mano”. Insomma, tutte le forze politiche hanno guardato al consenso che potevano perdere o prendere, più che alla crisi di governo in sé e per sé.
In estrema sintesi, e senza entrare nel merito di giudizi che possano apparire di parte, sono stati questi tre fatti essenziali che hanno determinato il ricorso alle urne anticipato da parte del Presidente Mattarella.
Se il Paese non stesse fronteggiando da due anni le pesanti conseguenze sociali della pandemia, prima, della guerra e dello scenario inflazionistico, oggi, non ci sarebbe gran che da preoccuparsi. In fondo, la legislatura sarebbe comunque terminata tra circa 5 mesi, a fine anno, con l’approvazione della legge finanziaria. Il voto politico, infatti, scadeva al massimo a marzo/aprile 2023.
Il PNRR avrebbe sicuramente potuto avanzare un altro po’, coi vari atti e decreti attuativi necessari, ma non sarebbe comunque arrivato in porto con Draghi, visto che la programmazione degli ingenti fondi europei terminerà nel 2026. Insomma, potrebbe trattarsi solo di una spiacevole interruzione dei lavori, specie visto che al governo c’era una figura di assoluto rilievo internazionale, e nulla più.
Al contrario, invece, il problema è che – sotto questi dati di fatto “minimali” – si celano realmente i segni di una crisi politica e istituzionale ben più profonda. Per individuarla, basterà riesaminare in ordine i tre punti appena sopra accennati.
Il Governo Draghi di “unità nazionale”: la fragile governabilità italiana
Se l’anno scorso si era arrivati a chiamare al governo Mario Draghi – massima “riserva della Repubblica” – è perché la politica “ordinaria” aveva esaurito tutti i suoi colpi e non appariva più in grado di farsi carico delle pesanti priorità del Paese.
Il governo giallo-verde – un accordo tra populismi apparsi fino a quel momento inconciliabili – era nato faticosamente, a ben tre mesi dalle elezioni di marzo 2018. Per saldarlo, si era dovuti ricorrere ad uno strano espediente: a fare il Presidente del Consiglio si era chiamato uno sconosciuto avvocato, Giuseppe Conte, che in vita sua non aveva presieduto nemmeno un Consiglio Comunale.
Dopo poco più di un anno, il primo governo Conte collassava, nell’estate del 2019, la famosa estate del “Papeete”, quando la Lega e Salvini – all’apice del proprio successo fatto di sondaggi, social e selfie – pensarono di poter tornare alle urne, per assumere la leadership piena del Governo. Salvini non ne fece mistero, addirittura ipotizzando – vista la sua forza allora accreditata quasi al 30% – di correre da solo, senza Fratelli d’Italia.
Sappiamo come andò a finire: con la mediazione di Renzi, Partito Democratico e Cinquestelle trovarono un accordo politico per formare un nuovo governo e dare continuità alla legislatura, spedendo la Lega a languire all’opposizione, ben lungi dagli obiettivi di successo attesi. Un accordo, quello giallo-rosso, davvero inatteso: era l’estate di Bibbiano, non dimentichiamolo, e ancora a fine luglio Di Maio accusava con violenza i PD di rubare i bambini ai genitori. A fine settembre, governava con loro.
A sua volta, l’accordo giallo-rosso, divenuto poi anche un asse politico strategico di “sinistra”, finiva per naufragare un anno e mezzo dopo, a gennaio 2021, a seguito del ritiro di Italia Viva dal governo, per favorire proprio l’arrivo di Draghi a gestire PNRR e la complessa fase di recupero post-pandemica.
Se, tuttavia, portiamo lo sguardo ancora più indietro, ci accorgeremo che almeno dal 2006 l’Italia non è più riuscita ad avere un’intera legislatura – cinque anni – con una maggioranza stabile, chiaramente definita dalle urne. L’ultima legislatura omogenea – anche se non tranquilla – è quella del quinquennio “berlusconiano” del 2001-2006. Nel 2008, infatti, implodeva la maggioranza di centro sinistra del secondo governo Prodi, senza arrivare nemmeno a metà mandato. Nel 2010 Berlusconi – di nuovo in sella – rompeva con Fini e, travolto dalla crisi dello “spread”, apriva la pista al governo “tecnico” di Monti.
Nel 2013, poi, Bersani falliva la vittoria piena e – dopo un inutile tentativo coi Cinquestelle – il governo andava a Letta, con una raccogliticcia maggioranza di PD, partito di Monti e vari “cespugli” di centro, compreso Alfano fuoriuscito allo scopo da Forza Italia. Un governo durato nove mesi, troncato “serenamente” da Renzi nel momento del suo massimo successo e poi concluso – tra dicembre 2016 e marzo 2018 – dal governo di Gentiloni, chiamato da Mattarella a raccogliere i cocci dell’insuccesso referendario renziano e a traghettare fino al suo termine naturale la legislatura 2013-2018.
Insomma, come si capisce da questo pur breve sommario storico, è da vent’anni che l’Italia non riesce ad avere un risultato elettorale in grado di generare un quadro politico chiaro e stabile. Da quando, cioè, nel 2001-2006 Berlusconi abusò – politicamente – del suo successo, con forzature quali la legge Calderoli (“Porcellum”), il decreto bulgaro sulle TV, i tentativi “ad personam” di riforma, specie nel campo della giustizia, portando il paese a diffidare sempre più della cultura del “maggioritario” che era sorta dalla crisi di Tangentopoli, nel 1993.
Così, sensibilità politica e legge elettorale si sono allontanate sempre di più dall’idea che “il governo lo sceglie l’elettore”.
I governi sono tornati a farsi e a disfarsi nel libero gioco parlamentare, come del resto la nostra Costituzione consente e prevede. Ma senza che i parlamentari – per effetto della pessima legge Calderoli e delle sue evoluzioni – fossero più scelti realmente dai cittadini, essendo oggi il risultato di liste bloccate e candidature di collegio definite solo da segreterie e direzioni di partito. Si è riparlato persino di tornare al “proporzionale”, ma senza portarlo mai al ritorno delle preferenze, cioè di una vera scelta popolare.
Ed è così che oggi, forse, nel Paese aleggia la voglia di tornare a capire chi governa davvero, di affidare il potere ad un leader. Persino i “tecnici” – che nel 2010 parevano un rimedio provvidenziale a tanta brutta politica – hanno finito per bruciare le speranze. E, dopo tanta instabilità, lo scenario di una Repubblica presidenziale o semipresidenziale – lontanissimo dalla nostra attuale Costituzione – appare all’orizzonte, con non pochi sostenitori.
Ecco allora che l’attuale crisi – e soprattutto il suo probabile esito, con la vittoria della Meloni e di un “destra-centro” apparentemente coeso – escono dall’episodicità apparente della crisi estiva, e sembrano collocarsi piuttosto nel solco di una reazione dell’elettorato a 15 anni di instabilità, cui nemmeno la migliore risorsa della politica, Mario Draghi, ha potuto porre un termine.
La fragilità interna dei movimenti e partiti politici: l’instabilità dei populismi
Se dal 2006 in poi non c’è più stata stabilità, le cause sono tante. La “crisi italiana”, dicevamo, è sicuramente multifattoriale (e, per questo, così complessa da risolvere). Tra i fattori principali si possono individuare, in ordine:
- Una serie di leggi elettorali che hanno tolto e mai veramente restituito la scelta al “cittadino sovrano”, staccando di fatto i parlamentari eletti dai loro territori, legandoli solo ai giochi romani dei corridoi e delle correnti, rendendo così la politica ancora più lontana dai cittadini e soprattutto autoreferenziale, e quindi fragile e litigiosa.
- L’emergere – anche conseguente – dei cosiddetti populismi, come reazione a questa politica sempre più lontana, anche per effetto della rivoluzione digitale, che consente il rapporto diretto con l’opinione pubblica da parte di politici sempre più attori guidati da guru mediatici.
- Il definanziamento pubblico della politica, fortemente voluto dai populismi come misura “anticasta”, ha in realtà indebolito ancora di più politica, partiti e parlamentari, esponendoli alla necessità di inseguire la visibilità mediatica momentanea invece dell’organizzazione, di ricercare i fondi delle lobbies e – temiamo fortemente – anche di qualche potenza estera.
- La crescente debolezza dei partiti strutturati – ormai inesistenti e trasformati in puri cartelli elettorali e brand commerciali di maggiore o minore successo – con la loro crescente esposizione al vento del successo momentaneo: che sia fatto di proposte “manifesto” (anche se spesso di dubbia efficacia), social, post, polemiche mediatiche, quotidianamente misurate nei loro effetti da likes e sondaggi.
- Infine, ultimo ma non ultimo, il male – inevitabile forse in questo quadro – che trasforma i singoli politici in “esperti di sopravvivenza”. Senza più partiti radicati nel territorio, coi loro destini in mano alle segreterie, con le campagne elettorali da finanziare raccogliendo soldi a destra e a manca, senza reali competizioni sul territorio, le preoccupazioni di questi attori politici nazionali vanno inevitabilmente non al “come servire meglio il proprio collegio”, coi suoi abitanti da curare e conoscere, ma a “come sopravvivere nella giungla romana”. Esattamente lo scenario della lotta per il posto in lista a cui abbiamo assistito nelle scorse giornate, nei corridoi estivi della politica romana.
Tutti questi fattori, uniti ad una legge elettorale e ad una Costituzione parlamentarista, che non hanno chiari meccanismi a favore della governabilità (come sarebbe, ad esempio, il doppio turno alla francese) provocano quella instabilità “romana” e mediatica di cui – alla fine – ha pagato lo scotto anche una persona serissima e lontana da queste dinamiche, come Mario Draghi. Per questo, probabilmente, alle prossime elezioni sarà premiato chiunque dia maggiore impressione di “solidità” all’elettorato.
Ma – al tempo stesso – nemmeno un governo affidato ad una maggioranza coesa potrà stare del tutto fuori – nei prossimi cinque anni – dalle tensioni determinate dai fattori digitali, populistici, mediatici e lobbistici appena esposti. Insomma, non è detto che basti l’uomo (o la donna) forte per veleggiare “sereni” su un mare politico ormai così inquinato e agitato.
Servirebbe forse una seria riforma costituzionale ed elettorale, di sistema politico: ma chi ha oggi – dopo il fallito tentativo renziano – il coraggio di giocare tanta parte della sua credibilità su una simile, complessa avventura?
I comportamenti razionali orientati allo scopo e all’autotutela della classe politica italiana
Eccoci allora all’ultimo fattore da considerare. Spesso i commentatori stranieri dicono che non capiscono la politica italiana. La trovano irrazionale, illogica, incomprensibile. Come è successo per la “defenestrazione” di Draghi.
E – per la verità – questo non capita solo agli stranieri: tanti cittadini italiani ormai non comprendono più queste vicende politiche. E forse anche per questo molti si attendono un pesante astensionismo alle prossime elezioni, con tantissimi cittadini delusi, perplessi, sfiduciati.
Il motivo per cui non capiamo più, forse, è dovuto al fatto che –giustamente – ci attendiamo che la politica sia una lotta seria tra ideali, visioni del mondo e della società, con proposte conseguenti per attuarle.
Invece, in base a quanto abbiamo descritto poco sopra, la politica si è ormai trasformata – non solo in Italia, si badi – in una sorta di gigantesco “gioco di ruolo” a base mediatica, dove le proposte si misurano più sul loro impatto di consenso che di miglioramento effettivo del Paese.
Le polemiche sono roventi, mentre in realtà le visioni pragmatiche si stemperano, tanto che – quando si mettono i “contendenti” a governare insieme, come avvenuto con Draghi – ci si accorge che certe incompatibilità sono forse più dovute ai teatrini televisivi o ai social bipolari e diadici, piuttosto che a vere incompatibilità di programma. Tolte le estreme, come da anni avviene in Germania, ampie convergenze su obiettivi condivisi nel Paese sarebbero perfettamente possibili (si pensi alle agende ambientali, demografiche, del lavoro, delle politiche industriali ecc.).
Se ciò non avviene, a scapito del bene del Paese, è perché l’era digitale, populista e senza veri partiti organizzati, premia lo scontro e la visibilità, piuttosto che il serio e fattivo lavoro quotidiano di costruzione.
Così, non è che i nostri politici abbiano comportamenti irrazionali o incomprensibili: al contrario, sono perfettamente razionali, conseguenti, adattati alle nuove regole della politica.
Il problema è che in queste “regole” i cittadini sono sempre più spesso il target da persuadere, piuttosto che la risorsa umana da coinvolgere, far partecipare e servire. Così, vale più un “bonus” immediato, che una complessa, lenta e graduale politica di riforma in grado di produrre, nel tempo, benefici per le famiglie, i lavoratori o i disoccupati. Vale più l’incasso immediato del consenso, che la prospettiva di lunga lena di una progressiva e lenta uscita del Paese dai suoi mali strutturali, infrastrutturali, debitòri e storici.
Le questioni strutturali
In conclusione, serve assumere contezza e lucida chiarezza che la situazione, oggi, è questa. Che queste sono le determinanti reali, profonde, della crisi di governo attuale. Può darsi che un esito elettorale chiaro porti un palliativo di qualche anno a questa situazione, anche se un po’ ne dubitiamo. I fattori irritativi, infatti, permarranno.
Ecco perché in questa campagna elettorale, piuttosto che ad un bonus, un’aliquota ridotta, un reddito, una singola proposta che convince, dovremmo guardare a chi sa vedere con chiarezza i mali strutturali delle istituzioni e della politica italiana, e proporre qualche percorso di uscita, possibilmente condiviso e valido.
Sarà molto difficile che accada. Forse, soprattutto il “mondo cattolico”, con la sua prospettiva storica e la sua cultura istituzionale e trasversale, potrebbe in questo campo fornire un enorme servizio al Paese, facilitando l’emergere di proposte che non siano facili scorciatoie – che alcuni temono ormai inevitabili, in Italia e altrove – verso le democrazie presidenzialiste, ma rappresentino una piena presa in carico dei fattori della crisi politica italiana: legge elettorale, finanziamento e ruolo dei partiti, forma di governo.
Se un soggetto sociale o culturale, fuori dall’interesse immediato del consenso, sapesse formulare una visione di qualche organicità su questi temi e costruirvi sopra qualche confluenza trasversale, farebbe al Paese e ai suoi cittadini un servizio non inferiore a quello che i cattolici democratici già resero, dal 1945 in avanti.
Analisi attenta e puntuale, condivisibile. Ma alla prova dei fatti i cittadini sono sudditi, cattolici o non cattolici. Se la classe politica non si riforma (e a mio avviso non può riformare se stesso chi beneficia di privilegio assolutamente intangibili da tutti, checché se ne dica) non si arriva da nessuna parte. Manca una coscienza del bene comune, della condivisione della relazione fra componenti umane sociali ed economiche.
I cattolici saranno anche trasversali ma solo perché molti cattolici non sono diventati mai davvero antifascisti. Questa cosa è difficile da capire visto che si tratta davvero di votare per orientamenti politici che sono esattamente il contrario di quello che papa francesco vorrebbe per la sua chiesa.
la Chiesa non è di Papa Francesco, ma di Gesù: il Santo Padre è il suo Vicario, non il padrone.
Francesco da direttive e apre nuove strade, ma non può rimodellare la Chiesa a suo piacimento, deve essere fedele al mandato
detto questo: don Giovanni Fornasini, martire, prega per noi
Nella cabina elettorale Dio ti vede, papa Francesco no..
Può esistere un soggetto sociale o culturale che veramente ami il bene comune a tal punto da guardare al futuro e non il proprio naso? Me lo auguro tanto. Sono stati fatti tentativi , anche locali, alla fine allineati.
Prego che possa capitare!
Saluti