Cominciamo dal referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Come largamente previsto, hanno vinto i sì. Un sì avvalorato dall’affluenza. A differenza dei referendum abrogativi di leggi ordinarie la cui validità è subordinata a un quorum (50% degli aventi diritto, raramente ottenuti), i referendum costituzionali non lo prevedono. E tuttavia, in questo caso, quand’anche vi fosse stato, il quorum sarebbe stato superato.
Referendum
Nonostante le preoccupazioni circa la partecipazione legate al Covid. Un sì netto, ma non un plebiscito. A fronte di un significativo 30% di no, considerato l’oggetto decisamente popolare, specie se rapportato al 97% della maggioranza con la quale il taglio fu approvato nel quarto e ultimo passaggio parlamentare. Un no attribuibile a varie ragioni. Su tutte, talune buone ragioni del no.
Sono sempre stato convinto che la questione fosse oggettivamente opinabile e controversa e che le buone motivazioni del sì spesso non escludessero affatto le buone motivazioni del no, a dispetto dell’immanente carattere dicotomico del referendum che, al dunque, costringe a un’alternativa secca. Un risultato dignitoso, quello del no, ascrivibile anche alla mobilitazione delle ultime settimane da parte di studiosi, opinionisti, politici, organi di stampa.
Con una divisione che ha attraversato un po’ tutte le forze politiche, quale che fosse l’orientamento ufficiale dettato dai loro vertici. Un no, in parte, mosso anche da una ragion politica: quella di chi non disdegnava per questa via di infliggere un colpo al governo e ai due principali partiti di maggioranza, M5S e PD, schierati per il sì.
Un esito tutto sommato apprezzabile: un sì facile, leggero e plebiscitario avrebbe sortito commenti trionfalistici da parte di chi ha brandito il taglio delle poltrone (espressione greve e infelice) come una bandiera. Tentazione cui ha ceduto comunque Di Maio, anche a copertura dell’ennesima debacle dei 5 stelle nelle contestuali elezioni regionali.
Toni fuori luogo in un tempo decisamente diverso da quello nel quale affonda le sue radici la campagna contro la “casta”. Complice il trascorre del tempo e la consapevolezza dei guasti prodotti dall’antipolitica, si può osservare che quel mood è in buona misura alle nostre spalle.
Oltre il referendum
Dunque, bene l’affluenza, bene un differenziale non smisurato tra il sì e il no, bene che la vittoria del sì non sia segno e strumento di un’ondata qualunquista.
Ora ci si deve adoperare perché i più pensosi sostenitori del sì e del no diano entrambi seguito all’impegno solennemente assunto. Quello di provvedere ad adeguamenti e riforme che meglio sarebbe stato varare prima o contestualmente: dai regolamenti parlamentari, ancor più importanti ai fini della funzionalità del parlamento che, a detta di tutti, lascia a desiderare; alla legge elettorale, essa sì decisiva nella selezione di deputati e senatori, nella loro rappresentatività e nella loro qualità, decisamente più importante del numero.
Anche se la natura duale del referendum e il contesto politico concorrono alla drammatizzazione, oggi, a urne chiuse, dovrebbe riuscire più facile intendere che si poteva essere per il sì o per il no anche tra persone che, sulle cose fondamentali che attengono alla Costituzione, la pensano allo stesso modo (è significativo che la comunità dei costituzionalisti si sia verticalmente divisa, secondo linee di faglia che si discostano da quelle che conoscemmo al tempo della riforma Renzi-Boschi); e che il taglio è un intervento puntuale e circoscritto – come sempre dovrebbero essere le revisioni costituzionali, abbandonando la suggestione delle “grandi riforme” – e che non rappresenta né un attacco alla democrazia né la soluzione del cattivo funzionamento delle Camere.
Regionali
Sulle elezioni regionali si dovrà tornare più distesamente. Solo qualche notazione a caldo. Significativo che tutti i presidenti uscenti siano stati confermati. Indizio di un trend che conferma la personalizzazione del rapporto politico e del consenso.
Determinato anche dal protagonismo di alcuni di loro nella gestione dell’emergenza Covid (per la Liguria, anche del ponte Morandi). Male il M5S, del quale si conferma il declino, il deficit di radicamento territoriale, l’inadeguatezza dei candidati. Ne esce bene il PD di Zingaretti che, pur perdendo le Marche, ha tenuto in tre regioni e soprattutto ha sventato l’assalto nella Toscana e nella Puglia. Qui gli elettori dei 5 stelle si sono mostrati più saggi dei loro capi, in parte dando il loro voto al candidato PD, il solo che poteva vincere. Tuttavia, con due problemi.
Il primo: il successo di De Luca in Campania e di Emiliano in Puglia è ascrivibile a due personalità forti inclini al trasversalismo, disinvolti nel raccogliere liste, candidati e consensi, come usa dire, con le reti a strascico. Un problema per il profilo ideale e politico del PD.
Secondo: Zingaretti può rivendicare di essere riuscito ad accreditare il PD e i suoi candidati come il vero, solo argine alle destre e a conquistare ad essi il voto utile di altri elettori – decisivi in Toscana e in Puglia – ma deve anche registrare una seconda sconfitta in Liguria, dopo quella in Umbria, laddove PD e M5S sono andati uniti con un medesimo candidato. Il che – azzardo – sembra suggerire di concepire e praticare con i 5 stelle non già una stretta convergenza, ma una “unità dei distinti”. Una circostanza che, plausibilmente, li dovrebbe incoraggiare al varo di una legge elettorale d’impianto proporzionale, con la quale ciascuno vada al voto con il proprio programma e il proprio simbolo, e le alleanze semmai si stringano dopo in parlamento.
Partiti
Rispetto alle previsioni della vigilia, al centrodestra le cose non sono andate secondo le attese. Tuttavia, va detto, nel computo delle regioni il centrodestra ne aggiunge una, le Marche. Un problema però le regionali lo consegnano al centrodestra: un’esigenza di ricambio della sua classe dirigente. Si veda la sconfitta di due ex presidenti di regione di nuovo candidati ma decisamente consumati: Fitto in Puglia e Caldoro in Campania.
Una doppia battuta d’arresto la subisce Salvini: in Toscana, dove fallisce l’assalto della sua candidata Ceccardi e, più in genere, nel suo ambizioso disegno nazionale e nazionalista. Il trionfo di Zaia in Veneto, ove la lista del presidente surclassa quella della Lega salviniana, al di là delle voci più o meno fondate di una competizione latente per la guida del partito, attesta che la forza ma anche il limite della Lega sta nel suo robusto insediamento storico nelle regioni del nord Italia.
Solo un dettaglio infine: il voto sancisce il fallimento dell’opportunistico terzismo di Italia Viva di Renzi un po’ ovunque, con percentuale risibili persino nella sua Toscana dove si attesta sul 4%.
Conclusivamente e a correggere un di più di esultanza di PD e centrosinistra che… hanno scampato pericolo, la partita politica nazionale è apertissima, il paese è politicamente diviso, il governo presumibilmente reggerà a questo passaggio. Ma le vere prove per esso sono altre: l’incipiente risalita dei contagi, la ripartenza dell’economia e del lavoro, un sollecito e persuasivo piano per l’utilizzo degli ingenti fondi europei.