All’indomani dell’annuncio da parte della Commissione europea di un New Pact on Migration and Asylum, introdotto dalla stessa presidente della Commissione Ursula Von der Leyen e nel cui contesto sono state ripetute più volte le parole “responsabilità e solidarietà”, è quanto mai opportuno fare – specie in questa Giornata dedicata ai migranti e ai rifugiati in tutto il mondo (27 settembre 2020) – il punto sulla questione migratoria e quindi sottoporre a valutazione morale le prospettive che in Europa si stanno delineando.
Oltre Dublino
L’Europa ha dunque annunciato di voler superare i Regolamenti Dublino che stabiliscono le responsabilità e i compiti del primo paese dell’Unione in cui il migrante mette piede, sia per quanto riguarda il trattamento della sua eventuale richiesta di protezione internazionale che per quanto riguarda la sua accoglienza, da sbarcato sulla costa piuttosto che da giunto al valico di confine. Le condizioni a suo tempo stabilite a Dublino hanno interessato e interessano pesantemente i paesi mediterranei: Grecia, Italia e Spagna, in primo luogo.
Ripetutamente questi paesi hanno rivolto appelli affinché tutti i membri della compagine europea si facessero carico delle spinte migratorie, senza che il consesso sia mai riuscito a concordare alcun sistema alternativo, davvero “responsabile e solidale”. Molti paesi, soprattutto dell’est europeo, capeggiati dal cosiddetto gruppo di Visegrad, ossia la Polonia con l’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca, affiancati dall’Austria, si sono da sempre opposti, come noto, ad ogni forma di ricollocamento dei migranti.
Emblematica risulta pertanto la realtà dell’isola greca di Lesbo in cui si trovano attualmente accampate circa 13 mila persone: i recenti incendi e le condizioni di vita insostenibili stanno a mostrare quanto “responsabilità e solidarietà” siano ancora semplici dichiarazioni di principio. Solo di fronte alle proporzioni di una tale emergenza umanitaria, Germania e Francia hanno manifestato, in questi giorni, propositi di accoglienza per un paio di migliaia di rifugiati, tra famiglie e minori non accompagnati: una risposta quantomeno di stampo etico, pure risparmiata da altri Stati. Risulta dunque difficile pensare che il richiamo della presidente della Commissione produca un repentino passaggio di prospettiva.
Allargando lo sguardo, non possiamo poi ignorare come lo stato di abbandono di decine di migliaia di migranti a Lesbo sia del tutto analogo a quello che occhi attenti può rilevare nell’isola oceanica di Nauru, ove l’Australia determina da tempo alcuni degli stessi meccanismi di solidarietà annunciati ora dall’Europa: in sostanza finanzia il minuscolo paese del Pacifico perché trattenga i migranti che dal subcontinente indiano cercano di raggiungere le sue coste.
L’escamotage consente di eludere gli obblighi internazionali della Convenzione di Ginevra e del Protocollo di New York, testi sottoscritti da tutti i paesi democratici.
Il caso italiano
In tempo di pandemia, inoltre, alle apparenti forme di aiuto a distanza, sono associate le dinamiche di isolamento dei migranti su navi ancorate nei pressi delle coste. La motivazione della singolare scelta è dettata dal rischio di diffusione del virus Covid-19, benché, a quanto appare, i contagi registrati su queste navi siano decisamente inferiori rispetto a quelli normalmente registrati sulle navi da crociera. A me risulta davvero incredibile che non si trovino posti e strutture sulla terraferma per consentire di scontare la quarantena ad alcune centinaia di persone.
La nostra isola di Lampedusa, estrema propaggine dell’Europa, dista 165 chilometri dalle coste agrigentine e 150 km dalla Tunisia. I rapporti con questo paese non sono mai stati in passato così complicati come lo sono ora. I dati di quest’anno mostrano un aumento degli arrivi autonomi di migranti proprio di nazionalità tunisina, evidentemente indotti a partire con le loro barche a ragione delle pessime condizioni economiche in cui versano larghi strati della popolazione.
La storia italiana del passato ha sempre vissuto la vicinanza coi tunisini con naturalezza e collaborazione. Mi chiedo, ad esempio, se non sarebbe più opportuno per l’Italia e per l’Europa intera intervenire a sostegno delle politiche di sviluppo economico della Tunisia, piuttosto di conferire mezzi natanti di stampo militare alla sua guardia costiera.
In ragione di questi precedenti, mi appare del tutto inappropriato prevedere di coprire di contributi gli stati maggiormente investiti dagli arrivi di migranti semplicemente per dotarli di più efficaci strumenti di espulsione e di rimpatrio. Ritengo che si tratti di una delega simile a quella già concordata con la Turchia o con la Libia: una forma lampante di recesso da ogni senso autentico di responsabilità.
Un passaggio del documento esposto dalla Commissione tocca direttamente l’Italia, nella parte in cui si preconizza una accelerazione delle procedure di frontiera. La nuova procedura prevede infatti che, insieme alla identificazione della persona, avvengano le verifiche sulle condizioni di sicurezza e di salute e quindi di salvaguardia dei diritti della persona.
Qualora la procedura accelerata portasse alla negazione dell’ipotesi di riconoscimento della protezione internazionale, il soggetto dovrebbe essere al più presto rimpatriato col supporto degli accordi di riammissione già ratificati con 24 stati extra-Unione: stati quasi mai ben disposti a riaccogliere i propri concittadini espatriati alla ricerca di un lavoro e di una qualità di vita più dignitosa. Sappiamo bene che anche i cosiddetti clandestini – al pari dei clandestini italiani immigrati illegalmente in altri paesi del mondo – costituiscono una risorsa economica importante tramite gli invii di denaro alle famiglie in patria.
Tra espulsione e ingresso legale in Europa
Per le persone espulse l’incentivo previsto è la messa a disposizione di risorse per “un ritorno sostenibile e una strategia di reintegrazione”. Resta da capire quali possano essere effettivamente i percorsi in grado di motivare un rientro volontario nel paese di origine piuttosto di affrontare il rischio della espulsione coatta, che a noi dovrebbe presentarsi ben poco in linea con la tutela dei diritti umani fondamentali.
Nei materiali che stanno circolando si trova tuttavia una traccia che potrebbe facilitare l’ingresso legale in Europa. Viene presentata in tre modalità: con l’aumento, appunto, delle risorse dedicate al reinsediamento di migranti nel proprio paese di origine, con lo sviluppo delle esperienze dei canali umanitari (sinora sperimentati su piccoli numeri), con la previsione di diverse forme di “sponsorizzazione” ovvero di chiamata di migranti in Europa a carico di singoli cittadini europei ovvero di gruppi organizzati ed enti della società civile. Queste ultime facoltà rappresentano, a mio modo di vedere, le vere ed uniche novità interessanti nel dispositivo europeo.
Se così fosse, una parte dei potenziali richiedenti asilo in Europa – inevitabilmente versati al diniego per insufficienza di motivazioni giuridiche – potrebbe trovare socchiusa una porta di accesso, in legalità e sicurezza, senza doversi unicamente affidare ai trafficanti di esseri umani.
La lacuna più pericolosa del documento della Commissione sta, a mio parere, nel voler accelerare le procedure alle frontiere. Quasi mai chi si presenta alle frontiere costiere o terrestri ha con sé documenti – spesso ritirati e distrutti dai trafficanti – e comunque non è in grado, anche per ragioni semplicemente linguistiche, di rispondere a domande che nella sua vita non si è mai sentito rivolgere. Non infrequentemente il migrante, pur essendo membro di un gruppo sociale obiettivamente discriminato e perseguitato, non è neppure in grado di riconoscere la propria effettiva condizione, in quanto ritenuta usuale nel paese di origine.
È il caso delle caste e sotto-caste dell’Africa subsahariana o del continente indiano. E non sempre gli intervistatori, anche se formati da organi istituzionali e supportati da agenzie dell’Unione, sono in grado di cogliere il profilo e il contesto di origine della persona che si trovano di fronte.
Le culture di provenienza
Per mia diretta esperienza posso senz’altro affermare che gli operatori più informati e preparati sono i cooperanti internazionali che hanno vissuto e vivono a diretto contatto con le insicurezze e le profonde ingiustizie sociali determinate dalle appartenenze etniche o claniche, del tutto ignorate in Europa.
L’altra risorsa di conoscenza disinteressata, libera, apolitica, può essere solo quella dei missionari impegnati nei mille angoli dimenticati del pianeta. Per tutto ciò ritengo che una intervista svolta al confine, sotto la pressione di decidere velocemente di un individuo o di una famiglia, così come prefigurato dalla Commissione europea, non sia ammissibile: è indispensabile andare a fondo nella conoscenza per poter valutare e decidere delle sorti profonde delle persone migranti e delle potenziali persone rifugiate.
Il limite sottile
L’aspetto che resterà problematico e insoluto – sin tanto che si vorrà artificiosamente distinguere – è senz’altro il discrimine tra chi fugge da guerre e chi giunge come “migrante economico”: una netta distinzione, nei fatti, non esiste.
Voler insistere su questo è, per me, apoteosi della ipocrisia. Tutti dovremmo sapere – anche i politici – che ci sono 821 milioni di persone sulla terra che non hanno sufficiente accesso alla alimentazione, 1 abitante su 9 del pianeta. Queste persone sono a rischio di morte quotidiana ed hanno tutto il diritto di lottare per la propria sopravvivenza. Il Covid-19 ha aggravato la situazione, esponendo i poveri della terra a condizioni di vita sempre più dure.
La banca mondiale calcola che le rimesse verso i paesi di origine dei migranti calino nel 2020 di almeno il 20% a causa della pandemia. Non possiamo dimenticare che la quasi totalità dell’emigrazione italiana del secolo scorso e di questo primo ventennio del 2000 è caratterizzata dalla ricerca di lavoro. Non mi pare che di questo ci si debba vergognare. Chi si presenta alle frontiere dell’Europa e dell’Italia andrebbe ascoltato e trattato perciò col dovuto rispetto. La protezione internazionale – oggi garantita ad alcune categorie di persone chiaramente oggetto di persecuzioni – andrebbe aggiornata perché anche il rischio di morte per fame e per ragioni climatiche è una persecuzione della persona insopportabile e reiterata.
Europa: per politiche non retoriche
La retorica del ricollocamento tra i paesi dell’Unione – ricollocamento peraltro evitabile con la monetizzazione dei rimpatri in carico al primo paese di ingresso – non risolverà purtroppo la questione dei sovraffollamenti nei cosiddetti hotspot di frontiera, incluse Moria e Lampedusa. La strada da seguire dovrebbe essere evidentemente un’altra e ben più coraggiosa.
L’Europa in declino demografico, sempre più alle prese con la necessità di manodopera difficilmente reperibile, soprattutto per lavori chiave quali l’assistenza alle persone fragili, i sevizi di ristorazione e di pulizia, le prestazioni pesanti in agricoltura, nei cantieri e nell’ambiente, dovrebbe aprire le proprie porte ai migranti in posizioni di regolarità.
La pandemia ha evidenziato le falle del sistema Europa. Non è continuando ad ignorare le migliaia di persone compresse alle frontiere o monetizzando intermediari nei campi di isolamento e di espulsione che si può pensare di ripulire blandamente la propria coscienza democratica e men che meno tentare di sfuggire alle proprie gravi contraddizioni interne.