Pubblichiamo questo intervento dell’arcivescovo Antonio Mennini, dal 2002 al 2010 rappresentante della Santa Sede nella Federazione Russa e dal 2008 anche nunzio apostolico in Uzbekistan. Vi traspaiono competenza storica e saggezza diplomatica. Stupende le testimonianze presenti nel testo. Siamo grati a Francesco Strazzari per aver sollecitato questo contributo.
Siamo di fronte a una delle pagine più buie, drammatiche degli ultimi settant’anni. La situazione evolve così rapidamente che è difficile immaginarsi scenari e prospettive future, e anche i giudizi sulle cause scatenanti di questo conflitto, che sta assumendo proporzioni mondiali, mostrano di volta in volta i loro limiti.
Una cosa è certa: il preteso punto di vista “realista” sulla storia, dettata da interessi di potere, politici ed economici, la speranza di poter risolvere i conflitti attraverso equilibri di potere si dimostra ancora una volta illusorio. Follie – come quelle dei totalitarismi del XX secolo, che sembravano scongiurati per sempre – si dimostrano invece quantomai vitali.
Per questo non appare utopistica la posizione a cui ci invita il Santo Padre – la preghiera – che diventa punto di partenza anche per un operato responsabile e coraggioso.
Riascoltando due omelie
«Esistono tipi diversi di menzogna, e il più interessante è quello che non viene inteso come peccato e come vizio, ma come dovere. (…) Nel mondo attuale la menzogna, riconosciuta come socialmente utile, ha raggiunto dimensioni così inaudite e ha deformato a tal punto la coscienza, che si pone il problema di un radicale cambiamento nel rapporto con la verità e la menzogna, il problema della scomparsa del criterio stesso di verità… La menzogna è il fondamento primo dei cosiddetti Stati totalitari, che senza la menzogna organizzata non potrebbero mai essere edificati. La menzogna viene inculcata come un sacro dovere, un dovere nei confronti della razza eletta, della potenza dello Stato, della classe eletta. E non la si riconosce neppure come menzogna… La menzogna può anzi sembrare l’unica verità».
«Così scrisse Nikolaj Berdjaev all’alba della seconda guerra mondiale, non questa mattina, per commentare l’invenzione di un “genocidio” che non esisteva, la presenza di un “neonazismo” del tutto inventato, il rovesciamento di ogni criterio di verità, un accumulo così grande di falsificazioni che sembra di sentir parlare di un altro mondo, di un’altra storia, di un altro universo» (Dell’Asta, editoriale de La Nuova Europa).
Interessante un’omelia del metropolita Antonij di Surož, pronunciata nell’agosto 1968: il mondo attonito assisteva all’invasione della Cecoslovacchia, i carri armati erano entrati in Praga soffocando la «primavera» che tante speranze aveva suscitato, anche all’interno dell’URSS.
Di fronte al «calice dell’ira, del dolore, della sofferenza che si riempie fino all’orlo, e ancora una volta trabocca», Antonij proponeva ai suoi parrocchiani una via esigente, quasi impossibile, ma che è la «via di Cristo e quindi la nostra via: e consiste nello stringere, nella consapevolezza e nella percezione dell’orrore che sta avvenendo, gli uni e gli altri con uguale amore, nell’abbracciarli – non con compartecipazione, ma con compassione; non con condiscendenza, ma con la consapevolezza dell’orrore davanti a cui si trova l’ingiustizia, e della croce davanti a cui si trova la giustizia… e nel comprendere che il nostro posto è sulla croce, e non semplicemente ai piedi della croce».
Di fronte al senso di impotenza che poteva facilmente assalire in quei giorni gli uomini di buona volontà, esattamente come ci assale oggi, di fronte alla tentazione di ridurre tutto ai giochi di potere, di scommettere sui «buoni» e «cattivi» di turno, di pensare che tutto fosse affidato allo scacchiere politico e diplomatico, Antonij aveva il coraggio di proporre di riporre ogni speranza in una «preghiera per il mondo» che però, specificava, dev’essere «come versare il sangue. Non la facile preghiera che eleviamo nella nostra quiete imperturbabile, ma la preghiera che dà la scalata al cielo, che non dà tregua, che nasce dall’orrore provocato dalla compassione, che non ci permette più di accontentarci della nullità, futilità della nostra vita, che esige da noi che finalmente comprendiamo la profondità della vita anziché trascinarla indegnamente: indegnamente per noi, indegnamente per Dio, indegnamente per il dolore e la gioia, i patimenti della croce e la gloria della Resurrezione che continuamente si avvicendano e si intrecciano nella nostra terra».
«Cristo non ha scelto – concludeva Antonij –. Cristo è morto perché i giusti sono perseguitati e perché i peccatori vanno alla perdizione. Ebbene, in questa duplice unità con gli uomini che abbiamo intorno, in questa duplice unità con il giusto e il peccatore preghiamo per la salvezza dell’uno e dell’altro, impetriamo la misericordia di Dio, affinché i ciechi acquistino la vista, affinché la giustizia si affermi – non il giudizio ma la giustizia che conduce all’amore, al trionfo dell’unità, alla vittoria di Dio».
Negli stessi giorni, la solidarietà espressa al popolo cecoslovacco da un pugno di dissidenti russi che scesero sulla Piazza Rossa con uno striscione su cui si leggeva «Per la vostra e la nostra libertà», traduceva in qualche modo, laicamente, queste parole, mostrava la vera statura, il potenziale umano e cristiano di persone che non si lasciavano confondere con il regime in cui vivevano.
In una parrocchia di Mosca
Un secondo testo interessante è un’omelia pronunciata in una parrocchia moscovita qualche giorno fa: padre Aleksej Uminskij ha interrogato i suoi parrocchiani sul motivo per cui finora «non si è creata un’autentica devozione popolare, universale dei martiri» russi del XX secolo, che pure sono i nonni o i bisnonni di quanti frequentano oggi la chiesa. Si preferisce pregare santi del remoto passato «rinomati» per i loro miracoli, o magari «santa Barbara, di cui portano il nome le nostre vittoriose forze missilistiche; è la santa che protegge le armi strategiche dell’esercito russo».
«Invece, nelle vite dei nostri nuovi martiri e confessori – continuava padre Aleksej – ahimè, non c’è nessun miracolo. Niente: li ammazzano e non scorre latte invece del sangue; li torturano e loro non guariscono, e nessuno guarisce toccando le loro reliquie, nessuno riceve un bonus spirituale dal loro culto. Se guardiamo i loro volti, fotografati prima dell’esecuzione, in quelle terribili liste di fucilazione, non si capisce neanche come si possa pregare davanti a loro. Cosa si può chiedere a queste persone che hanno sofferto nei lager staliniani? Possiamo chiedergli la guarigione? Di trovar casa? Di avere un buon raccolto? La felicità familiare, la fortuna negli affari?.. Si possono chiedere cose simili a questa gente, fotografata prima della fucilazione? No, non è possibile, no».
Nelle icone, san Giorgio combatte contro draghi fiabeschi, lontani dalla vita di tutti i giorni. «Eppure noi i draghi veri, quelli umani, li incontriamo tutti i giorni, solo che ci siamo abituati – ha fatto notare il sacerdote –, abbiamo imparato a costruirci corazze, a scendere a compromessi con loro. Abbiamo imparato a tacere quando questi draghi vomitano il loro odio, fiele e rabbia; quando umiliano gli altri, torturano gli altri, mettono in galera gli innocenti».
«I martiri e confessori del nostro tempo non hanno voluto convivere con i draghi, loro dicevano la verità; non avevano paura della verità e per la verità di Dio sono andati alla morte, testimoniando Cristo. Invece a noi viene comodo vivere coi draghi, per questo preghiamo gli antichi santi che ci facciano vivere felici e contenti insieme ai draghi… Varrebbe la pena che chiedessimo ai martiri dei nostri giorni di diventare dei veri cristiani, delle persone oneste che non hanno paura dei draghi, che non hanno paura di dire la verità, di testimoniare quella stessa verità divina che ci annuncia il Vangelo».
Tre date: 988, 1917, 1991
988: Battesimo della Rus’, a Kiev. Entro il XX secolo questo Stato si allarga fino a diventare un’impero. Si estende dal mar Nero (a sud) al mare Baltico e l’oceano artico (polo nord); dalla Polonia (a ovest) fino all’Oceano pacifico (a est). Fino al 1872 l’impero russo si estende su 3 continenti: Europa, Asia (Siberia) e America (Alaska venduta dall’imperatore Alessandro II per 7,2 milioni $). L’impero russo comprende vari popoli (caucasici, lituani, kazachi,..) e varie religioni (ortodossi, musulmani, buddisti, ebrei).
1917: Rivoluzione bolscevica che rovescia il potere dello Zar. Guerra civile, autonomia di varie regioni. L’URSS ricompone quest’impero sovietico, con la forza e la violenza.
1991: In seguito alla perestrojka il regime sovietico cade. l’Unione Sovietica viene smantellata e 15 repubbliche ritrovano la loro indipendenza, tra le quale la Russia che continua a estendersi fino al Pacifico, la Bielorussia e l’Ucraina. Questa caduta dell’URSS viene vissuto dalla maggior parte dei russi come una sconfitta e un’umiliazione. Gorbachev è visto come un tradittore.
Da una parte, tra Russia, Bielorussia e Ucraina ci sono legami strettissimi (storici, ma anche di parentela tra la gente, per il mescolamento della popolazione nel periodo dell’URSS). La cultura e la lingua sono molto vicine, appartengono allo stesso mondo slavo. D’altra parte, politicamente in Ucraina la gente vuole l’indipendenza, vede Mosca come un conquistatore che vuole imporsi. L’epoca sovietica e anche i rapporti instauratisi dopo il 1991 non sono mai stati rapporti di collaborazione (tipo federalismo). Gli stati minori si sono sempre sentiti minacciati nella propria indipendenza, e per questo sono ricorsi all’Europa, agli USA, alla NATO (vale anche per la Georgia). Non è un caso che la Chiesa ortodossa locale abbia voluto separarsi da Mosca e sia in corso uno scisma in seno all’Ortodossia.
Molti degli stati che hanno chiesto l’adesione alla NATO avevano avuto dei rapporti drammatici con il potere sovietico: gli Stati Baltici erano stati violentemente annessi e assoggettati alla fine della guerra, la Polonia (nel 1939) era stata occupata parallelamente dalla Germania nazista e dall’Unione Sovietica, l’Ucraina aveva sofferto della grande carestia dell’inizio degli anni Trenta.
Il 5 dicembre 1994 venne stipulato un accordo troppo spesso dimenticato, il cosiddetto Memorandum di Budapest, con il quale in cambio dell’adesione dell’Ucraina al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari e del trasferimento del suo arsenale nucleare in Russia, la stessa Russia, gli USA e l’Inghilterra si impegnavano a:
- Rispettare l’indipendenza e la sovranità ucraina entro i suoi attuali confini.
- Astenersi da qualsiasi minaccia o uso della forza contro l’Ucraina.
- Astenersi dall’utilizzare la pressione economica sull’Ucraina per influenzare la sua politica.
L’accordo non è stato poi rispettato, ma il fatto stesso che fosse stato immaginato dà bene l’idea di cosa sia il peso di una cattiva eredità del passato.
Autorità e libertà
I dieci anni di libertà, dal 1991 al 2000, sono stati anni di grande speranza e di grande caos sociale.
Quando Vladimir Putin, allora capo dei servizi segreti, è arrivato al potere nel 2000, tanti hanno visto in Russia di buon occhio che si restaurasse un potere forte in grado di riportare la Russia alla sua grandezza passata.
La fine dell’URSS de facto ha significato la sconfitta nella Guerra Fredda e la vittoria dei Stati Uniti e della NATO. Per tutto il popolo russo la NATO rimane il braccio armato dei Stati Uniti (nessuno può dimenticare i bombardamenti in Serbia negli anni Novanta per mettere fine alla guerra in ex Jugoslavia). Una delle condizioni poste quando l’URSS è stata smantellata era che la NATO non si espandesse nei paesi dell’ex URSS. La promessa fatta allora dal presidente USA di fatto non è stata rispettata: sono entrati nella NATO i paesi baltici. E adesso anche l’Ucraina vuole aderire alla NATO.
Sicuramente in Russia è stata giocata la carta che di nuovo ci troviamo davanti a una possibile guerra che gli Stati Uniti vogliono fare usando gli altri paesi.
Non si possono dimenticare due errori compiuti dall’Occidente: anzitutto, il permanere del mito dell’ombrello americano come unica (o comunque principale) modalità di superare un passato doloroso; un mito che ha sollevato l’Europa dalla responsabilità di elaborare una politica di pacificazione e di autentica riconciliazione ed è stato accompagnato spesso da un atteggiamento di superiorità dell’Occidente nei confronti del mondo slavo e russo in particolare. In secondo luogo, questo atteggiamento ha avuto non di rado manifestazioni di sottovalutazione se non peggio di disprezzo nei confronti di una tradizione, quella russa, che non poteva essere appiattita sul solo totalitarismo e che, ancora di più, non poteva esserne accusata tout court: la storia russa ha ben altri contenuti e ben altra grandezza.
Da parte russa, la percezione e i contenuti di questa grandezza sono andati deteriorandosi, con alcuni elementi che hanno trasformato una giusta coscienza dell’identità nazionale nell’affermazione di un nazionalismo geloso.
La Russia capofila del conservatorismo mondiale
In questi ultimi 20 anni, e considerando i cambiamenti morali nella società occidentale (matrimoni gay, legge sul gender ecc.), la Russia ha fatto leva sui valori tradizionali per controbattere questi cambiamenti. E si è proposta come difensore dei valori al mondo intero.
In realtà, in questi anni abbiamo assistito a un fenomeno davanti a cui l’Occidente ha spesso chiuso gli occhi:
- falsificazione della storia per creare il grande mito imperialistico della potenza che ha sconfitto il nazismo; rivalutazione di figure come Ivan il Terribile e soprattutto Stalin.
- Eliminazione di ogni possibile concorrenza a livello politico (arresti e uccisioni di politici Chodorkovič, Nemcov, Naval’nyj), falsificazione delle elezioni e spietato soffocamento delle proteste.
- Legge sugli agenti stranieri e liquidazione di mass media e social indipendenti.
- Liquidazione di Memorial (Dmitriev), attacco alla memoria come onta nei confronti dello Stato.
Questa menzogna, questa delirante mania di grandezza si è attuata in politica estera con una serie di manovre – le principali in Georgia, con l’Ossezia del Sud (2008 e 2019), in Ucraina (Maidan, Crimea, Donbass e Lugansk, 2014), sostegno alla Bielorussia di Lukashenko.
Si tenga conto, che negli ultimi dieci anni si ripete in Russia il ritornello: siamo circondati da un Occidente che ci odia. Adesso, rinforzato dall’idea di dover difendere i propri concittadini sparsi in tutti i territori dell’ex impero sovietico (sono da considerare a rischio anche i Paesi baltici?).
Reazioni
Di fronte all’invasione, il 60% della popolazione russa si è dichiarata contraria alla guerra (sondaggio Centro Levada). In questi giorni ci sono stati 2.800 fermi per le proteste in Russia.
Un appello a cessare la guerra di docenti, accademici e scienziati ha già raccolto 370 firme. Sui social, facebook, internet ecc. circolano lettere e appelli di molte personalità importanti.
La poetessa Olga Sedakova (già consulente per la Russia di Giovanni Paolo II):
«Cari amici ucraini,
non saprei neanche nominare qui tutti coloro cui sono legata da un’antica amicizia e una lunga collaborazione. E cari anche tutti gli altri che non ho mai conosciuto, sappiate che io vi auguro di tutto cuore una piena autonomia, la piena libertà di scegliere il vostro futuro, e la libertà dalla terribile minaccia che proviene dai vostri vicini, cioè da noi.
È triste dire “noi” in questo frangente.
Io aborro i piani e i propositi che le autorità non condividono con noi né hanno discusso con noi, e che hanno come esito la possibilità di espandere le azioni belliche in terra ucraina.
Come molti, moltissimi di noi, considero questi propositi un delirio e un crimine. La vergogna del nostro paese».
A questo gemito del cuore ha immediatamente risposto da Kiev il professor Konstantin Sigov:
«Grazie infinite cara Olga! Probabilmente c’è anche un altro “noi”. Ti abbraccio».
Il «noi» cui accenna Sigov ha in comune diversi sentimenti, in questo momento drammatico, e tra questi sentimenti non è l’indignazione a prevalere ma piuttosto la vergogna e, sorprendentemente, l’amor di patria autentico.
La filologa russa Svetlana Panič:
«Siamo in molti a non aver dormito queste ultime notti ad aver guardato ogni ora e anche più spesso le ultime notizie, a vivere in ansia perpetua per gli amici a Kiev, Doneck, L’vov, Char’kov, Marjupol’, a ribellarci – ciascuno a suo modo – contro questa guerra assurda. Le parole più usate sono: vergogna e paura. È quasi impossibile pensare ad altro… Ci aspetta una vita molto difficile, piena di vergogna e di ansia. Bisognerà risolvere ardui problemi morali, essere più esigenti con noi stessi, resistere continuamente al cinismo, non solo quello esterno, ma quello che si intrude nella mente e nel cuore… Ma siamo molti e siamo insieme; e finché potremo reggerci gli uni agli altri il male non sarà onnipotente. Supereremo anche questo disastro.
«Il contributo dei cristiani si vede oggi in queste coscienze sensibili e straziate, segno di una testimonianza essenziale che corrisponde esattamente a ciò cui richiamava domenica 20 febbraio all’Angelus papa Francesco: «Mai il Signore ci chiede qualcosa che Lui non ci dà prima. Quando mi dice di amare i nemici, vuole darmi la capacità di farlo. Senza quella capacità noi non potremmo, ma Lui ti dice “ama il nemico” e ti dà la capacità di amare».
«Cari amici ucraini, perdonate se non siamo riusciti a fermare tutto questo… Povera patria nostra, e poveri noi tutti, a prescindere da dove viviamo. È una disgrazia comune. Signore, che vergogna!».
Prospettiva
Sostiene il filosofo ucraino Michail Minakov, capace di leggere i fatti in modo pacato e senza revanscismi:
«Nell’Europa orientale una pace duratura è sempre stata connessa con l’infrastruttura dell’impero russo o sovietico. Non abbiamo mai avuto l’esperienza di una pace stabile. E dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, trent’anni fa, abbiamo dovuto creare un nuovo sistema di pace, di politica estera, degli Stati nazionali. Abbiamo dovuto creare delle democrazie e dei mercati liberi. Insomma, dovevamo creare un mondo nuovo dal nulla, non sapevamo niente della democrazia, della libertà politica e della libertà economica, e tutto ciò che abbiamo creato non era stabile… Tuttavia abbiamo creato un’infrastruttura non per la pace, ma per la zona grigia.
Due popoli una volta amici sono ora pieni di sospetti l’uno verso l’altro. Ci sono 20.000 morti, ci sono persone che si uccidono a vicenda, e questa esperienza non permette di vivere in pace. Anche le élites di Mosca e di Kiev sono state elette, selezionate, create in questi otto anni nell’ottica dell’ostilità. Nemmeno i nostri leader sanno come si fa a vivere in pace. Tutto ciò significa che dobbiamo trovare la volontà di ricreare un’infrastruttura della politica, della vita statale in Europa orientale, basata su una pace giusta, su una pace fondata sul diritto, e comunque dobbiamo dare inizio a una seconda Helsinki.
Una conferenza che dovrebbe creare un’infrastruttura politica per l’Europa orientale, non solo per la Russia ma anche per il Caucaso del Sud, per la Moldavia, la Bielorussia e l’Ucraina. È un obiettivo enorme, non so come si potrà realizzare, ma dobbiamo cominciare, perché l’alternativa è continuare con la prosecuzione sempre uguale di ciò che è iniziato nel 2008 con la guerra in Georgia, cioè con la proliferazione della guerra nell’Europa orientale, che poi si estenderà anche all’Europa centrale e occidentale, perché non siamo isolati, viviamo insieme nello stesso continente, ed è importante capire e trovare la volontà di realizzare una nuova Helsinki».
Igumeno Nektarij Morozov
«Noi non abbiamo nemici, ma solo fratelli e sorelle.
Noi tutti, al risveglio, ci siamo trovati in un mondo completamente diverso. Che non sarà mai più come prima. E in cui nessuno di noi vorrebbe vivere. O almeno, quasi nessuno…
Il cuore trabocca di dolore, di un dolore che non c’è modo di alleviare. E di senso di colpa, perché ci sentiamo impotenti ad arrestare quanto sta avvenendo. Ci si vorrebbe riaddormentare, nella speranza di accorgersi, al risveglio, che si è trattato solo di un brutto sogno.
E invece questa è la realtà in cui ci tocca vivere. E noi tutti in un modo o nell’altro ne veniamo cambiati. Oggi è molto difficile parlare di ciò che sta avvenendo… per tanti motivi. Ma bisogna almeno cercare di capire che cosa sta avvenendo. E bisogna che noi cristiani ricordiamo che non abbiamo nemici, ma solo fratelli e sorelle. E abbiamo il dovere di amarli, di pregare per loro. Perché il Signore li protegga. Perché non ci considerino nemici. Perché non diano la colpa a noi – uomini come loro – della sciagura che si è abbattuta su di loro. È una sciagura che si è abbattuta su noi tutti».
Padre Sergej Kruglov
«Che cosa può fare adesso un cristiano.
Che cosa fanno i cristiani, quando c’è la guerra? Pregano Dio. Perché faccia rinsavire chi ha voluto la guerra, in modo che rinunci all’aggressione, e per la salvezza degli innocenti che sono sempre le vittime di ogni guerra.
Alla fine della guerra i cristiani pregano Dio perché aiuti a rimettere in piedi quel che è rimasto, che si è riusciti a preservare dalla distruzione dei vandalismi bellici. E poi seppelliscono e piangono i caduti, ne raccolgono i nomi e li presentano a Dio affinché doni loro l’eterno riposo. Ecco all’incirca l’oggetto della preghiera come la capisco io (non parlo di quelli che sono in preda alla paranoia militare e avvelenati – non importa con che slogan e bandiere – dalla propaganda della guerra e della violenza: mi sembra che siano persone per il momento prive del lume dell’intelletto e dello spirito di Cristo).
Sì, siamo deboli, impotenti, dipendenti da ogni forza terrena e da ogni terrena necessità, nessuno garantisce che non finiremo in qualche fossa comune come i milioni di persone fucilate per niente, che in vita loro non avevano mai fatto professione di fede, di appartenenza alla Chiesa, al Regno…
Ma noi abbiamo Cristo, che ci ha radunati nella Chiesa e vuole, come dice san Paolo, vivere in noi e attraverso di noi, e vuole che noi viviamo liberamente, con questa coscienza. Ogni situazione di sventura dà alla Chiesa una nuova spinta, le ricorda che ciò che ha rivelato, fatto, detto il Figlio di Dio incarnato, crocifisso e risorto è una verità attuale, viva, l’unica che può guidare ad agire i cristiani in questa effimera vita.
Per un cristiano è importante, soprattutto in tempo di guerra, ricordare continuamente a se stesso e a chi gli sta accanto che la guerra – in qualunque modo la si giustifichi – è la quintessenza del peccato e del male. Che la guerra inizia sul terreno della superbia nel cuore dell’uomo, che il primo passo per eliminare la guerra è un passo di pentimento, di metanoia personale e di conversione a Cristo Salvatore, di maturazione nel proprio cristianesimo. E, naturalmente, è importante la preghiera, instancabile e ostinata nonostante ogni tentazione di scoraggiamento; sono importanti le opere di misericordia, il perdono, la carità, il conforto, l’aiuto – ogni forma possibile di aiuto a chi sta peggio di te».
Il metropolita Onufrij
Un appello straordinario e coraggioso del 24 febbraio, all’indomani dell’attacco russo. Il metropolita di Kiev Onufrij si rivolge indistintamente a tutti gli ucraini, pur divisi fra le due giurisdizioni di Mosca e di Kiev, reciprocamente ostili. Lui, esponente del Patriarcato di Mosca, si immedesima col dolore del popolo intero, e osa richiamare lo stesso Putin.
«Cari fratelli e sorelle! Fedeli della nostra Chiesa ortodossa ucraina!
Mi rivolgo a voi e a tutti i cittadini dell’Ucraina come primate della Chiesa ortodossa ucraina. È avvenuta una tragedia. Con nostro enorme dolore, la Russia ha iniziato l’intervento militare contro l’Ucraina, e in questo momento cruciale vi esorto a non farvi prendere dal panico, ad essere coraggiosi e a mostrare amore per la vostra patria e gli uni per gli altri. Vi esorto, soprattutto, ad innalzare un’intensa preghiera penitenziale per l’Ucraina, per il nostro esercito e il nostro popolo; vi chiedo di dimenticare le liti e le incomprensioni reciproche e di unirci nell’amore a Dio e alla nostra patria.
In questo momento tragico, esprimiamo affetto e sostegno particolari ai nostri soldati che vegliano e proteggono e difendono la nostra terra e il nostro popolo. Che Dio li benedica e li custodisca!
Difendendo fino all’ultimo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, ci appelliamo al presidente della Russia perché cessi immediatamente questa guerra fratricida. Il popolo ucraino e il popolo russo sono usciti dal fonte battesimale del Dnepr, e una guerra fra questi popoli significa riprodurre il peccato di Caino, che per invidia ha ucciso suo fratello. Questa guerra non ha giustificazioni né presso Dio, né presso gli uomini.
Esorto tutti al buon senso, che ci insegna a risolvere i nostri problemi terreni nel dialogo e nella comprensione reciproci, e confido sinceramente che il Signore perdoni i nostri peccati e che la pace di Dio regni sulla nostra terra e in tutto il mondo!» (+ Onufrij, Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Primate della Chiesa ortodossa ucraina).
Bellissimo! Grazie