Con la morte di Johann Baptist Metz la teologia cattolica perde una delle figure maggiori che hanno contributo a «fare» la sua dimensione pubblica nel XX secolo. Ci sarà tempo, e sarà doveroso, ritornare con maggiore precisione sul suo percorso teologico che ha finito per essere come oscurato, in parte, dalla forma sintetica che egli stesso aveva cercato di dargli – ossia quella della teologia politica.
Di lui conservo la memoria dell’unico incontro avuto, quando per un semestre ho avuto l’onore e l’onere di poter insegnare presso l’Istituto di teologia fondamentale dell’Università di Münster (in quella che rimane, sotto molti aspetti, la «sua» cattedra). Ricordo l’emozione di un teologo relativamente giovane che incontrava un protagonista maggiore della disciplina; non capita molte volte nella vita di poter sedere e chiacchierare insieme a un pezzo di storia della teologia del XX secolo.
Molto la Chiesa gli deve, e molto tutta la comunità teologica – anche per quegli aspetti del suo opus che più sono caduti sotto il fuoco della critica. E la Chiesa come istituzione dovrebbe imparare a sentire ed esprimere gratitudine per quelle figure che più l’hanno sollecitata a una maggiore prossimità al Vangelo ben prima della loro morte. Proprio in quanto anima critica, profondamente legata alla Chiesa e appassionata per una teologia che non si esaurisce nei muri dell’accademia, quelle come Metz sono storie di vita della fede che fanno bene all’istituzione ecclesiale.