Nato l’11 settembre 1935 a Saint-Dizier, diocesi di Langres, venne ordinato presbitero il 18 marzo 1961, consacrato vescovo di Evreux nel 1982. Gli feci visita più volte a Evreux e soprattutto a Parigi. Abitava in rue Cardinet 131, in un appartamento semplice e dignitoso, dove aveva posto la base della sua attività.
Fu rimosso d’autorità il 13 gennaio 1995 e continuò a impegnarsi tra la gente più disperata e a lanciare i suoi messaggi per una Chiesa, che – ripeteva di continuo – non si fa capire dalla gente. Ricordo il suo volto di uomo buono. Sorriso dolce e occhi limpidi. Non mi ha mai dato l’impressione di avere dentro quella forza che l’aveva imposto per anni all’attenzione dei media.
In dialogo con Giovanni Paolo II
Nel 1996, un anno dopo la sua rimozione, lo trovai ancora sereno, cordiale, sempre desideroso di regolare al più presto la sua situazione. Aveva incontrato papa Giovanni Paolo II a Roma, prima del Natale 1995.
«È stato un incontro pastorale di un vescovo con un altro vescovo. Il papa mostrava molta simpatia e fraternità. Voleva sapere come stavo e come vivevo. Mi ha ascoltato. Gli ho detto che vivevo in una casa abusiva a Parigi con gente sfrattata. Una vita di strada appassionante e rude. Non desideravo cambiare strada. Essere vescovo di Partenia, sede titolare, era magnifico. Mi ha detto: “Ma Partenia non esiste!”. Gli ho risposto: “È questo che è interessante. Siccome non esiste, può essere dappertutto e ciascuno può farne parte”. Mi ha guardato dicendo: “Per fortuna non ci sono molti vescovi come lei”. Gli ho risposto: “Sì, è vero”. Poi mi ha detto: “Sa, i vescovi mi dicono che lei è spesso, troppo spesso sui media”. “Ascolti – gli ho risposto –, cerco di imitarla”. Allora ha sorriso: “Ma io non guardo mai la televisione”. “Neppure io”, gli ho risposto. “Spero che la televisione gli abbia reso un servizio”. Poi abbiamo parlato di diverse altre cose. Ha aggiunto: “Vada ad incontrare la curia, il prefetto della Congregazione dei vescovi. Bisogna aggiustare la situazione, non può restare così”, rimettendo la questione all’amministrazione curiale.
A Reims, dopo la messa, il papa è venuto a colazione nel refettorio del seminario. È venuto direttamente a mangiare e poi se ne è andato quasi subito per riposarsi. Avvicinandosi al posto a lui riservato, si è fermato davanti a me e mi ha preso il braccio. Mi ha sussurrato: “Che Dio la benedica” e se ne è andato».
Rifiutatosi di lavorare nelle carceri e nel centro ospedaliero di Longjumeau, Gaillot continuò a lavorare tra sfrattati, “sans papiers”, gente dei bassifondi:
«Perché cercare altrove una soluzione? Devo anzi ringraziare il Vaticano per quello che sta facendo. Non avrei mai immaginato di essere legato a tante gente dell’emarginazione. Trovo che questo sia una grazia. Di tutto questo ho parlato con i vescovi. Il dialogo è aperto. Di certo, non cerco una diocesi».
Perché rimosso?
Eravamo in molti allora a chiederci che cosa avesse fatto Gaillot per essere rimosso da Evreux. Il «dossier Gaillot» si aprì su due fronti nel 1987: nunziatura apostolica di Parigi e Conferenza episcopale francese. Lo stesso Gaillot mi confessò che in nunziatura arrivavano continuamente lettere di disapprovazione del suo comportamento. Gaillot era senza dubbio in quegli anni una personalità che faceva discutere. Era un cavaliere solitario.
Ma quando gli fu imposto di lasciare la diocesi di Evreux ebbe dalla sua parte molti vescovi della stessa Conferenza episcopale francese, noti teologi, uomini di cultura, che non approvavano la decisione romana. Ci fu un continuo scambio epistolare tra i vertici della Conferenza episcopale e la Santa Sede e si tennero incontri a Roma.
Gaillot non si muoveva di un millimetro dalle sue posizioni. Non era certamente un eretico (card. Coffy), ma certi suoi atteggiamenti provocavano malumore e scontento. Era chiaro che voleva percorrere la sua strada di cavaliere solitario, evangelicamente testardo e cocciuto. Fu bloccato dalla Santa Sede. Papa Giovanni Paolo II sottoscrisse il provvedimento di rimozione. La Conferenza episcopale francese subì il colpo di non avere saputo gestire il caso.
Perché non puntò i piedi se era convinto che una tale sanzione avrebbe scosso il Paese, i fedeli, suscitato contestazioni, inasprito il clima alla vigilia di due viaggi papali in Francia? Ricordo quello che mi disse allora il grande teologo Yves Congar: «Bisogna risolvere diversamente le questioni e anche i conflitti. E poi, che senso ha affidare una sede in partibus infidelium (Partenia)? Ma che storia è questa? Non le pare ridicolo?».
Gaillot era convinto che a volere la sua testa fosse stato il ministro francese degli interni, Pasqua, a motivo di un libro che aveva scritto contro la legge sull’immigrazione.
«L’ho saputo da un prete che lavorava in Segreteria di stato. Il ministro dell’interno è intervenuto presso la Segreteria di stato. Non lo credevo per la lunga tradizione del regime di separazione tra Chiesa e Stato. Adesso ne sono sicuro. Di aver scritto questo libro certo non mi pento. Si vedono oggi le conseguenze di questa legge.
Semmai, mi dispiace un atteggiamento che ho avuto agli inizi del mio episcopato: quello di aver mediato troppo. Cercavo di andare incontro a tutta l’area del cattolicesimo tradizionale. Per esempio, sul versante delle scuole cattoliche: partecipavo alle loro manifestazioni… Non è servito a niente. Mi pento anche della dichiarazione congiunta firmata con il card. Decourtray, presidente della Conferenza episcopale nel 1989. Era certamente una situazione difficile; mi si diceva di non tirare troppo la corda… Me ne pento, anche se nel testo mi riservavo la libertà di parola, perché è stato percepito come se non vi fossi rimasto fedele. In generale, mi dispiace di avere sempre cercato di aggiustare le cose durante il mio episcopato a Evreux. Non sarà più così».
Sempre dalla parte dei poveri
Il vescovo Gaillot continuò ad essere in prima fila nel campo della giustizia. Sempre meno lo preoccupavano i problemi interni alla Chiesa: l’ordinazione di uomini sposati, il posto della donna, la riammissione dei divorziati ai sacramenti, l’autorità del papa e il suo servizio, che tanto spazio ebbero nelle sue accese dichiarazioni e nelle sue frequenti apparizioni in televisione.
«Il mio problema è la giustizia. Siamo in una società e in una umanità profondamente ingiuste. È l’area dei “senza”: senza casa, senza documenti, senza lavoro, senza sanità… Gli emarginati. È un problema decisivo. Non si può essere felici senza di loro; non possiamo uscire delle difficoltà se non siamo con loro. Il mio ruolo è di far rispettare la loro dignità e di farli diventare attori nella società per dare loro la parola».
Era caparbiamente e lucidamente convinto. Quando lo incontravo, teneva sempre in mano il Vangelo e gli occhi si illuminavano.
Grazie di avercelo raccontato, è questa la vera chiesa, la chiesa di Cristo, piccola, umile, spina nel fianco dei potenti, un giardino di germogli sospinto dallo Spirito che il mondo non vede ma Dio si.