Nella prima ondata di pandemia che ha interessato l’Occidente nei primi mesi dell’anno, le disposizioni amministrative relative alla chiusura dei luoghi di culto non hanno avuto contestazioni da parte delle Chiese storiche (cattolici, protestanti, anglicani e, in misura minore, ortodossi).
Nonostante l’assoluta novità delle normative e il blocco totale (poi mitigato) delle celebrazioni, non vi sono state significative resistenze, se non da parte di alcuni ambienti tradizionalisti o da sensibilità giuridiche che vi riconoscevano un vulnus ai diritti costituzionali garantiti alle fedi. Troppo nuova la pandemia e troppo rapida la sua espansione per sollevare obiezioni significative.
Diverso il caso della seconda ondata in cui siamo ora immersi. La pandemia è ugualmente aggressiva, ma la conoscenza della malattia e la sua gestione hanno una diversa misura. Nel frattempo, in tutte le chiese sono stati attivati i protocolli indicati: distanza fisica, sanificazione degli oggetti e del luoghi, uso di mascherine, modifiche dei culti (niente scambio della pace, cori disciplinati, comunione nelle mani ecc.).
In tale contesto le rinnovate disposizioni radicali trovano qualche resistenza, senza peraltro nessuna pretesa di opporsi allo stato. È il caso dell’Inghilterra e della Francia.
Inghilterra e Francia
Da giovedì 6 novembre va in esecuzione l’indicazione del governo di Boris Johnson in ordine al contenimento della pandemia. In esso si rinnova l’obbligo di chiusura delle chiese. I vescovi cattolici di Inghilterra e Galles, attraverso le voci del card. Vincent Nichols e del vescovo Malcolm McMahon, hanno protestato.
«Pur comprendendo le difficili decisioni del governo, non abbiamo sotto gli occhi nessuna prova che possa rendere comprensibile il divieto del culto, con tutti i costi umani che questo comporta, interessando una forza positiva in ordine alla lotta al virus. Chiediamo al governo di produrre le prove che giustifichino la cessazione degli atti pubblici del culto».
I vescovi condividono la preoccupazione del governo per una strategia efficace contro il Covid-19; notano, però, che la chiusura è in contraddizione col ruolo di sostegno e aiuto del culto e delle attività caritative legate alle comunità credenti. Senza una motivazione chiara e convincente c’è il rischio di erodere il consenso popolare alla comune battaglia.
Chiedono che nel previsto dibattito parlamentare queste argomentazioni siano sollevate e discusse. La chiusura lascia solo lo spazio per i funerali (con non più di 30 persone) e le sepolture o la dispersione delle ceneri con non più di 15 persone. Vietato il culto domenicale e i matrimoni.
In Francia, l’arcivescovo di Reims e presidente della conferenza episcopale, mons. Eric de Moulins-Beaufort, ha deposto un appello al Consiglio di stato, la massima autorità giuridica amministrativa, per chiedere la conformità ai valori di libertà repubblicana delle nuove disposizioni governative che, anche in questo caso, prevedono la chiusura delle chiese.
Mons. Dominique Rey (Fréjus-Toulon) ha commentato: «Il popolo cristiano attende dai suoi pastori la difesa della possibilità di andare a messa».
La decisione è stata presa dopo la consultazione con l’intero episcopato che non si è rivelato unanime in merito. C’è chi preferisce adire a una procedura d’urgenza, altri ritengono di scarsa utilità interventi per rosicchiare possibilità non significative. L’importante per molti è di non trasmettere l’idea di una persecuzione dello stato verso la Chiesa e di rendere chiara ai fedeli la possibilità della crescita nella fede anche in situazioni difficili come quelle previste.
Il presidente dei vescovi ha anticipato la decisione al primo ministro, Jean Castex, anche per sottolineare la disponibilità al dialogo.