«Che tristezza, che alla vigilia di Natale siamo travolti da una valanga di notizie sulla Chiesa, e che Cristo non si veda da nessuna parte. Si vede Erode, i suoi soldati con le spade, ci sono i magi con i doni, la grotta con le bestie – c’è tutto (…). Ma Cristo non si vede. Che tristezza», così commenta da Mosca il «Concilio dell’unificazione» svoltosi sabato 15 dicembre a Kiev il biblista Andrej Desnickij.
Gli fa eco il pubblicista Sergej Čapnin: «Ho ascoltato il discorso di Porošenko dopo il concilio. Un discorso mostruoso. Su Cristo neanche una parola, in compenso “addio Russia puzzona” e via di questo passo. Non si è riusciti a fare dell’autocefalia un evento autenticamente ecclesiale, è finito irreparabilmente tutto in un processo puramente politico. L’intervento di Porošenko è il manifesto della nuova religione politica ucraina. Che pena».
Questi due brevi commenti riassumono bene lo sgomento che pervade oggi i fedeli ortodossi, in Russia come in Ucraina. Lo scenario e lo svolgimento del «Concilio dell’unificazione», convocato nella storica chiesa di Santa Sofia per costituire una Chiesa ortodossa autocefala ucraina ed eleggerne il primate (designato nella persona del metropolita Epifanij Dumenko, che si recherà il 6 gennaio prossimo a Istanbul dal patriarca Bartolomeo a ricevere il tomos e lo statuto dell’autocefalia), sembrano aver dato il colpo di grazia alle speranze che il progetto dell’autocefalia aveva inizialmente suscitato – almeno in parte dei fedeli e del clero in Ucraina – di poter sanare lo scisma che travaglia l’ortodossia locale da quasi trent’anni.
I passi verso lo “scisma”
Il processo culminato nell’assise del 15 dicembre si è svolto a ritmi sempre più serrati a partire da settembre, delineandosi come un conflitto senza esclusione di colpi tra il patriarcato di Mosca e il patriarcato di Costantinopoli. Da subito la Chiesa ortodossa russa ha assunto posizioni di intransigenza, ratificate dal suo Sinodo che il 15 ottobre ha decretato la rottura della comunione eucaristica con il patriarcato ecumenico.
Dal canto suo, Costantinopoli ha avviato un processo di accentramento dei propri «territori canonici», a cominciare dall’Arcivescovato delle Chiese ortodosse russe in Europa occidentale che fino al 27 novembre aveva lo status di Esarcato e ora dovrebbe venire semplicemente assorbito nelle rispettive diocesi del patriarcato. Una decisione, quest’ultima, presa senza alcuna previa consultazione della gerarchia dell’Arcivescovato, che ha gettato nell’incertezza e nello sconforto le comunità ortodosse locali, rischiando di distruggere una tradizione che vanta personalità come madre Marija Skobcova, padre Sergij Bulgakov, Nikita Struve.
Anche in Ucraina, quello che doveva essere un gesto di ricomposizione dello scisma esistente ha generato in realtà un nuovo scisma, probabilmente ancor più grave del precedente, e ha condotto a una grave strumentalizzazione politica della nuova struttura ecclesiastica, com’è apparso evidente dal discorso del presidente Porošenko al termine dell’assise: «Una Chiesa senza Putin, una Chiesa senza Kirill, una Chiesa che segna la definitiva indipendenza dell’Ucraina dalla Russia».
Al Concilio di sabato sono stati invitati i vescovi di tutte e tre le comunità ortodosse riconosciute da Costantinopoli – sia le due «non canoniche», vale a dire il «Patriarcato di Kiev» e la Chiesa che si definiva autocefala, sia la Chiesa fedele a Mosca, che resta per ora quella maggioritaria nel paese ma si trova ad affrontare l’ostracismo delle autorità civili (come ha fatto presente in toni drammatici il patriarca Kirill in una lettera diramata «urbi et orbi» – al Papa, ai leader cristiani di tutto il mondo, all’ONU, ai governanti di Francia e Germania). Mentre le prime due comunità hanno partecipato all’unanimità al Concilio con i rispettivi 40 e 12 vescovi, la terza ha rifiutato di aderirvi in qualunque modo; solo due vescovi su 96 (i metropoliti Aleksandr di Perejaslav-Chmel’nickij e Simeon di Vinnica) hanno «saltato il fosso» passando dalla parte della nuova Chiesa autocefala.
Non solo sconcerto
Sarebbe sbagliato, tuttavia, parlare solo di sconcerto e di scetticismo ingenerati dagli avvenimenti ecclesiastici di questi ultimi mesi. Il travaglio vissuto dalle comunità ortodosse ucraine è stato anche un’occasione per vagliare la propria fede e chiedersi come camminare verso l’unità.
Domenica 16 dicembre, all’indomani del «Concilio dell’unificazione», in una chiesa ortodossa di Kiev il sacerdote ha parlato, in predica, degli effetti del terremoto, che «distrugge e devasta le costruzioni umane, ma lascia vedere in profondità il magma della natura primigenia». A questo magma, cioè alla «natura infuocata del cristianesimo, oggi siamo chiamati a tornare» – ha proseguito il predicatore – nella consapevolezza della «precarietà delle costruzioni umane, delle strutture che gli uomini si danno anche in ambito ecclesiastico». Per questo – ha concluso il sacerdote – oggi dobbiamo lavorare indefessamente per costruire «comunità di fede, comunità cristiane che siano irriducibili a pure strutture formali».
Non è raro sentir commemorare in questi ultimi mesi in Ucraina, durante la liturgia, il patriarca Bartolomeo insieme al metropolita Onufrij (capo della Chiesa ucraina dipendente da Mosca), e da domenica a questi due nomi si è aggiunto anche quello del nuovo primate della Chiesa autocefala, Epifanij: così rispondono alla divisione varie parrocchie della «Chiesa canonica» di Mosca, in totale contraddizione – sembrerebbe – con le direttive che giungono dal patriarcato da cui dipendono, ma esprimendo in questo modo tutta l’urgenza di unità che non si lascia scoraggiare dall’attuale crisi dei vertici.
Fra i credenti più consapevoli non ci sono particolari entusiasmi per la nuova Chiesa autocefala e neppure per il nuovo primate, che rispecchia gli interessi dell’ex patriarca Filaret Denisenko e del suo entourage, ma si avverte una più matura consapevolezza di dover cominciare in prima persona a costruire la comunità cristiana, assumendosi i rischi di un coraggioso controcorrente rispetto alla tendenza nazionalista ad oltranza in cui è nata la nuova struttura ecclesiastica.
L’eucaristia come un’arma
A indicare la strada dell’unità in questo conflitto recentemente si è levata anche una voce autorevole all’interno dell’ortodossia mondiale, l’arcivescovo Anastas di Tirana, Durazzo e Albania, che ha scritto due missive (10 ottobre e 7 novembre 2018) al patriarca Kirill. Da un lato, vi si asseriva profeticamente: «L’attuale progetto di concedere l’autocefalia alla Chiesa ucraina (…) assomiglia a una rischiosa operazione chirurgica, i cui risultati sono poco chiari (…); temiamo che il risultato finale, piuttosto che l’unità degli ortodossi in Ucraina sia la rottura dell’unità nell’ecumene ortodossa».
Dall’altro lato, riferendosi alla rottura della comunione decretata da Mosca contro Costantinopoli, oltre a ricordare che l’eucaristia è il «mistero per eccellenza dello sconfinato amore e della profondissima umiliazione di Cristo», e non può essere utilizzata «come arma di una Chiesa contro l’altra», ammoniva che «ogni forma di scisma indebolisce la testimonianza ortodossa nel mondo contemporaneo, mina la credibilità della Chiesa ortodossa e, su più larga scala, danneggia la reputazione di tutto il mondo cristiano».
In questo scorcio del Natale imminente, come anche della testimonianza di fede che la Chiesa di Dio continua a dare pur sullo sfondo di questa grave crisi, vale la speranza che l’arcivescovo Anastas esprime a conclusione dei suoi messaggi: «Il turbamento e l’inquietudine che inizialmente abbiamo manifestato, sono guariti dallo Spirito Consolatore con le parole del Salmo: “Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio” (Sal 42,12)» (cf. il testo integrale delle sue lettere sul portale La Nuova Europa).