Questo articolo è stato scritto per la Rivista di Pastorale Liturgica nel 2010 (RPL, 4/2010), ma descrive un’esperienza iniziata negli anni ’80 in una piccola parrocchia della diocesi di Venezia e portata al convegno della Chiesa italiana a Loreto (9-13 aprile 1985) «Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini». Fresco di studi e di nomina, mi sono proposto di deprivatizzare, in un certo senso, la celebrazione del sacramento della riconciliazione per farla diventare evento ecclesiale, azione di Chiesa, come la celebrazione di tutti gli altri sacramenti, secondo le indicazioni del Nuovo Rituale (1974).Di fronte alla crisi di questo sacramento mi sono impegnato perché diventasse una celebrazione importante di tutta la comunità cristiana; non fosse più considerato un “pedaggio da pagare” o un gesto di umiliazione al quale sottomettersi, ma diventasse un’esperienza di liberazione, preparata dall’amore di Dio; qualcosa di grande, una specie di secondo battesimo, che Dio fa succedere attraverso i segni, i gesti e le parole della celebrazione, perché ognuno possa ricominciare a vivere in Cristo e nella Chiesa. Sono stato sollecitato dall’articolo di SettimanaNews “Dare futuro alla confessione comunitaria” (F.G.).
La preparazione
La preparazione avviene normalmente seguendo l’Anno Liturgico, assunto come paradigma della vita cristiana. Il tempo liturgico e la Parola di Dio delle diverse domeniche caratterizzano l’itinerario di preparazione e di conversione che porta alla celebrazione del sacramento.
Cerchiamo in questo modo di far recuperare ai cristiani anche il senso itinerante e dinamico del tempo liturgico e, nello stesso tempo, di educarli alla conversione come atteggiamento costante della loro vita.
Nel corso dell’Anno Liturgico sono programmate quattro celebrazioni comunitarie: al termine dell’Avvento, della Quaresima, del tempo di Pasqua (Pentecoste) e alla conclusione dell’Anno liturgico.
Le chiamiamo anche convocazioni «solenni», come le celebrazioni eucaristiche domenicali e festive, perché cerchiamo il massimo di partecipazione e di rappresentazione della comunità. Vi partecipano insieme ragazzi, giovani e adulti. Invitiamo con i loro genitori anche i bambini che frequentano il primo e il secondo anno di catechesi, specialmente in concomitanza con il programma di educazione alla responsabilità personale nei confronti di Gesù che li chiama a seguirlo e a diventare suoi discepoli, previsto dal catechismo. In questo modo possono farsi un’immagine più concreta del sacramento della riconciliazione e coltivare il desiderio di parteciparvi come i cristiani più grandi.
La celebrazione
Desideriamo che sia non una semplice liturgia penitenziale per prepararsi a celebrare il sacramento, ma una solenne celebrazione e manifestazione della nostra fede nel Dio che perdona i peccati. Essa viene annunciata con il suono festoso delle campane. Si svolge solitamente nel tardo pomeriggio dell’antivigilia di Natale, del mercoledì santo, il venerdì prima di Pentecoste, il venerdì prima della festa di Cristo Re.
Lo svolgimento rituale prevede l’accoglienza, la Liturgia della Parola, la confessione comunitaria dei peccati, il rito sacramentale della riconciliazione individuale, la Liturgia di ringraziamento. La durata è di circa un’ora.
Il clima è generalmente abbastanza festoso. Più l’assemblea è numerosa e varia, più c’è senso di festa.
La liturgia della Parola è celebrata come in una celebrazione domenicale. Il salmo responsoriale è sempre eseguito cantando almeno il ritornello. L’omelia non dura più di cinque minuti. Ha lo scopo di aiutare i fedeli a riconoscere nella fede il passaggio del Signore nel gesto sacramentale che si sta celebrando, a risvegliare il desiderio dell’incontro, a far scoppiare l’atto di fede nella misericordia di Dio e a incoraggiare la richiesta del perdono.
Segue il riconoscimento dei peccati, una specie di confessione pubblica, con richiesta di perdono da parte di tutta l’assemblea.
Si ripercorre l’itinerario del tempo liturgico. Si richiamano la Parola o gli impegni assunti di domenica in domenica per cambiare la propria vita personale e per realizzare la vita comunitaria. Si chiede perdono per quello che si ritiene non sia stato fatto o sia stato fatto male sia a livello personale, sia a livello comunitario.
Il Padre nostro conclude questa parte e prepara all’incontro con i ministri. Viene recitato come un atto di fede comunitario, che rende luminoso il volto misericordioso del Padre e fa desiderare il suo abbraccio di riconciliazione offerto dai ministri e dai fratelli della comunità.
Segue il gesto della riconciliazione individuale. Ognuno si reca da uno dei sacerdoti presenti e, stando in piedi, chiede il perdono dei suoi peccati.
Il sacerdote stende la mano, pronuncia la formula rituale e congeda il penitente dicendo: «Va’ in pace. Il Signore ti ha perdonato. Non peccare più» o qualcosa di simile, a cui il penitente risponde «Lodiamo il Signore perché è buono», oppure «Rendiamo grazie a Dio».
Nel frattempo, l’assemblea prega e canta, intercalando salmi, citazioni bibliche, preghiere, canti, momenti di silenzio.
Quando tutti sono stati perdonati, tutti insieme si fa il ringraziamento con un formulario preso dal rituale e con il cantico di Maria cantato da tutta l’assemblea.
Ci si congeda con la benedizione e l’impegno di continuare a servire nella vita quotidiana il perdono ricevuto.
Il perché di questa scelta
La scelta di celebrare il sacramento in questo modo rappresenta un tentativo di recuperare ed esprimere la sua dimensione ecclesiale, suggerita dal nuovo rituale (1974).
Di fronte all’innegabile apatia per la confessione privata, l’attenzione a questa dimensione mi è sembrata la strada obbligata per far fronte alla crisi, che dura da anni, e che sarebbe troppo semplicistico addebitare unicamente alla forma in cui da secoli esso viene celebrato.
Come intendo questa dimensione ecclesiale
Essa è affermata dal rituale più di tutto come principio (cf. Premesse, n. 8). Di fatto, il rituale non esplicita tutte le caratteristiche e le implicanze. Tuttavia, si capisce che anche per questo nuovo rituale, come per gli altri, tale dimensione costituisce la chiave della riforma. Si tratta di formare delle comunità cristiane che siano in stato di conversione continua e sappiano servire più adeguatamente ed efficacemente possibile l’incarico ricevuto da Cristo di rendere attuale il suo perdono ai peccatori. «Ricevete lo Spirito Santo – disse Gesù risorto ai suoi discepoli –. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,23).
La Chiesa, anche con l’aiuto del nuovo rituale, vuole ritrovare la propria identità e la propria missione, vuole essere una comunità di persone convertite e sempre da convertire, alle quali, anche dopo il battesimo, Dio dona la grazia della misericordia e del perdono nello Spirito Santo; ma anche una comunità di persone che fanno della riconciliazione e del perdono una professione di fede e di vita per recuperare alla loro dignità di figli di Dio e alla comunione con i fratelli tutti coloro che peccano.
In questo modo la Chiesa si ripresenta al mondo come una comunità penitente e solidale con i peccatori, in cui ciascuno si fa carico anche dei peccati degli altri e chiede perdono per essi, almeno per tutti quelli che è in grado di portare, come succede ormai abitualmente nelle nostre celebrazioni comunitarie.
Nello stesso tempo, tutta la Chiesa assume il ministero di riconciliazione che è stato di Cristo e se ne rende responsabile nella totalità dei suoi membri. Non soltanto i ministri ordinati, ma tutto il popolo di Dio ha il compito di portare e mostrare il volto della misericordia di Dio dovunque c’è un peccatore. A tutto il popolo di Dio, infatti, viene affidato il gesto simbolico del sacramento della riconciliazione, affinché nessuno perda la memoria della decisione di Dio di salvare l’umanità e di portarla alla comunione di vita con sé attraverso il perdono e la conversione del cuore.
Ai ministri, in ogni caso, viene riconfermato il compito di essere testimoni e garanti del perdono “ecclesiale”, del perdono che interpreta il perdono di tutta la Chiesa e del perdono che ricompone la Chiesa in Corpo di Cristo. Per cui chi viene perdonato dal ministro è come se venisse perdonato da tutti i membri della Chiesa e da tutte le Chiese sparse nel mondo.
L’iniziativa di perdonare è di Dio. «Dio solo può perdonare i peccati». La Chiesa ha il compito di servire questa iniziativa, come ha fatto Gesù. Essa non perdona “per bontà sua”, ma perché Dio perdona e ha deciso di servirsi di essa, della sua parola e del suo cuore, del suo abbraccio e della sua festa perché chi crede ne possa fare esperienza. Dopo la Pasqua e la Pentecoste Dio continua a perdonare i peccati attraverso il perdono della Chiesa.
Nel corso della storia è cambiata più volte la maniera di donare questo perdono e di celebrarlo sacramentalmente. La nuova situazione culturale e religiosa del nostro tempo e la stessa nuova coscienza di sé che lo Spirito ha dato alla Chiesa esigono di rivedere la mentalità e la prassi con cui si vive e si celebra da qualche secolo questo “memoriale” del perdono di Dio, ritornando a frequentare la scuola del Maestro e imparare da lui a servire la misericordia di Dio in parole e opere.
Nello stesso tempo, sarà necessario recuperare gli elementi essenziali del celebrare liturgico, perché anche il sacramento della riconciliazione abbia la struttura fondamentale degli altri sacramenti, sia prima di tutto una celebrazione che metta al primo posto l’iniziativa di Dio mediante la proclamazione della sua Parola che grida il suo amore e il suo perdono; si svolga in tempi e luoghi che favoriscano la presenza e la partecipazione di tutta la comunità, perché ognuno possa ritrovare il proprio posto nella Chiesa e nella società.
Due passaggi fondamentali
Dal peccato al perdono e alla riconciliazione. Sono stato entusiasta del nuovo rituale fin dalla sua promulgazione, soprattutto per le premesse dottrinali e pastorali. Mi sarei aspettato qualche scelta più coerente e più coraggiosa, a cominciare dalla disposizione delle tre forme di celebrazione. Non avrei messo la celebrazione individuale al primo posto.
Probabilmente anche i più distratti o superficiali si sarebbero accorti che non è stato fatto un nuovo rituale perché tutto continuasse come prima, come di fatto sembra sia stato, eccetto forse qualche novità nella costruzione dei confessionali.
Personalmente ho smesso di mettermi in confessionale ad aspettare i “penitenti”, né ho più invitato pubblicamente a praticare la solita “confessione”. Mi sono impegnato piuttosto a promuovere e a sperimentare la celebrazione comunitaria, cercando di far capire ai cristiani che anche con questo sacramento si celebra un momento importante della storia della salvezza e che l’avremmo chiamato sacramento della riconciliazione e del perdono o semplicemente sacramento della riconciliazione, perché lo scopo principale del sacramento non era la confessione dei peccati, ma la celebrazione della riconciliazione e del perdono di Dio, offerto ai peccatori.
Il cambiamento terminologico mi è parso necessario per mettere in giusta luce i gesti che il penitente compie sulla strada della conversione e per evidenziare i gesti con cui Dio in Gesù Cristo ha offerto e offre il suo perdono.
Sarebbe stato difficile dare una dimensione ecclesiale a questo sacramento partendo dal peccato. Anche gli uomini e le donne di oggi, come quelli del tempo di Gesù, non hanno bisogno di trovarsi davanti qualcuno che punta il dito contro di loro accusandoli di peccato o minacciando castighi, ma hanno bisogno di qualcuno che faccia scoppiare il loro cuore per la gioia di sentirsi amati nonostante i loro peccati e forse anche proprio a causa dei loro peccati.
Non dobbiamo temere che la scuola del perdono sia meno efficace di quella del castigo. Né che parlando troppo o soltanto di amore e di perdono alla fine si diventi come dei bambini viziati. Perché il perdono di Dio non è un semplice condono, ma è un atto creativo che ci fa ridiventare figli suoi e ci mette nel cuore la voglia di non peccare più.
È qualcosa di desiderabile e da ricevere pubblicamente, non in privato e quasi di nascosto, perché si tratta di un avvenimento importante, al quale dare tutto il rilievo possibile, perché tutti devono sapere che Dio continua a perdonare. Gesù il perdono lo dava sempre pubblicamente. Non lo ha mai dato di nascosto. È stato uno dei gesti che ha compiuto più frequentemente e più pubblicamente. L’ultima volta l’ha fatto dall’alto di quel tragico altare che fu la croce.
Sentire e vedere che Dio perdona, fa bene a chi è perdonato, ma fa bene anche a tutti gli altri. Fa rendere gloria a Dio, ma riempie di speranza anche il cuore di ogni essere umano che ne sente il bisogno.
Una forma celebrativa coerente. Non è indifferente la maniera di celebrare questo sacramento. Il Rituale presenta tre forme, ma una non vale l’altra. La forma celebrativa comunitaria sarebbe stata la scelta più innovativa e più difficile da praticare. Ma era anche quella più coerente con il progetto di vita ecclesiale, che stavo proponendo ai cristiani della comunità, e la più rispondente ai principi della costituzione liturgica e del nuovo rituale.
Per questo, prima di fare la scelta liturgica occorre fare una scelta ecclesiologica, come ha fatto il concilio Vaticano II, che ha chiesto di riformare anche il sacramento della riconciliazione non perché andava di moda cambiare, neppure semplicemente per ovviare alle crescenti difficoltà che creava la forma tradizionale in uso, ma per una coerenza ecclesiologica e per portare anche il sacramento della riconciliazione ad una celebrazione che esprimesse più chiaramente il suo valore e le sue finalità. Anche un modo diverso di celebrare la riconciliazione poteva aiutare i cristiani a uscire dal loro individualismo e a riscoprire la dimensione ecclesiale della vita cristiana.
D’altra parte, c’era l’orientamento di fondo di tutta la riforma liturgica a spingere in questa direzione, perché «una celebrazione comunitaria con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli è da preferirsi, per quanto possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata» (SC 27),
La forma comunitaria, dunque, non è semplicemente una forma alternativa, ma è la forma ideale e normale. È legittimo adoperare la forma solitaria, ma non si potrà fare a meno di inserire anche in questa alcuni elementi che sono caratteristici del celebrare comunitario, come il luogo, il tempo, la liturgia della Parola ecc., perché si percepisca che è comunque anch’essa un’azione ecclesiale, sia perché si fa ciò che la Chiesa crede e annuncia, sia perché attraverso ciò che si fa non solo si mette a posto la propria coscienza e la propria anima, ma anche ci si rimette al proprio posto nella Chiesa, ritrovando la propria identità battesimale e la propria missione.
Scusate, ma non concordo. Io ho ancora nostalgia della Santa Messa in Latino e del vecchio rito Tridentino.