Chi ha commesso degli abusi sessuali può essere perdonato nella confessione? Il confessore è strettamente tenuto al segreto confessionale anche quando viene a conoscenza di un reato penale? Come comportarsi nella confessione con coloro che si interrogano sulle malattie e i traumi subìti? Di queste e altre cose parla Jochen Sautermeister, teologo cattolico, professore di teologia morale, psicoterapeuta e consulente psicologico presso la Facoltà cattolica dell’università di Bonn, in questa intervista rilasciata per katholisch.de a Madeleine Spendier.
– Prof. Sautermeister, come deve comportarsi un sacerdote quando gli viene confessato un abuso sessuale?
Se una persona in confessione afferma di essere stata vittima di abusi sessuali, ovviamente lei non ha alcuna colpa e non lo deve nemmeno confessare. La colpa è dell’autore, non della vittima! Purtroppo, in confessionale si ascoltano anche altre esperienze, riguardanti il passato, di cui parlano gli interessati. Se, nella confessione, vengono raccontate esperienze di abuso subìto, si tratterà di ascoltare con attenzione e con empatia il penitente, di prendere sul serio la sofferenza e gli effetti che possono condizionare tutta la vita e tutte le relazioni di questa persona. In linea generale, si può dire: se si tratta di problemi psichici, di crisi, di traumi e di esperienze di violenza, è bene che il confessore, nelle sue raccomandazioni, indichi dove poter trovare un competente aiuto professionale oppure di consultare un medico. Tutto ciò di cui si è parlato in confessionale non deve però trapelare al di fuori.
– Questo vale anche per i reati penali?
Sì, perché il sacerdote è strettamente tenuto a un rigoroso segreto confessionale ed è obbligato a tacere tutto ciò che gli viene confidato nella confessione. Il confessore può tuttavia invitare il penitente a continuare il discorso fuori del confessionale. Lì può parlare del reato, ma soltanto se il penitente affronta esplicitamente il problema, altrimenti significherebbe una violazione del segreto confessionale.
– Ma in questo modo si protegge chi ha compiuto il reato penale…
Il segreto confessionale vale in maniera assoluta e la sua violazione è sancita con la scomunica. Per i sacerdoti non c’è nessun obbligo di denuncia, anche se vengono a sapere in confessione in maniera certa di un assassinio, di un omicidio doloso o di un abuso. È diverso per gli psicoterapeuti e i consulenti, che sono soggetti al silenzio in forza del diritto civile e penale, ma sono obbligati, in casi di reati gravi, a sporgere denuncia. Questa prassi sta anche alla base di varie richieste – in casi eccezionalmente gravi, come la violenza sessuale – di sospendere il segreto confessionale. Inoltre, in Germania, i preti, secondo il diritto civile e penale, possono rifiutarsi di testimoniare in tribunale.
– Ma così il confessore non si rende complice del reato?
È una domanda molto difficile. Se uno è a conoscenza di un’azione criminale, se non la prende sul serio e non agisce in modo adeguato, allora diventa anch’egli in certo senso colpevole. Le direttive della Conferenza episcopale tedesca stabiliscono come uno deve comportarsi in casi del genere in quanto pastore d’anime. Deve agire con prudenza e cautela e cercare il modo di aiutare al meglio questa persona. È importante prendere sul serio il colpevole, ma senza esercitare in alcun modo una pressione.
– Al colpevole di abusi sessuali può essere perdonato il peccato nella confessione?
Per poter ricevere il sacramento del perdono, un fedele deve compiere diversi passi: dopo un accurato esame di coscienza e di riflessione su di sé, è necessario confessare i peccati commessi e pentirsene. Bisogna avere il fermo proposito di cambiare davvero il proprio comportamento e cercare delle vie per riparare il male commesso. Ciò evidentemente vale anche per coloro che sono colpevoli di reati sessuali punibili. Soltanto se ci sono queste condizioni in cui riconosce la propria responsabilità, il penitente può ricevere il sacramento della riconciliazione. Non può, quindi, essere assolto se non accetta le conseguenze personali dei propri atti. Con l’assoluzione i penitenti ricevono da Dio il perdono dei loro peccati e, nello stesso tempo, vengono riconciliati con la Chiesa.
– La psicoterapia può sostituire la confessione?
Quando si tratta del senso profondo e proprio della confessione, della sua dimensione religiosa, certamente no. La psicoterapia è utile e necessaria per le malattie psichiche. Si tratta di malattie psicofisiche e di ferite che richiedono un trattamento professionale. Se l’interessato nota di avere un senso di colpa esistenziale e morale di cui sente il peso, la psicoterapia non può andare oltre. Uno psicoterapeuta non può perdonare nessuna colpa. Nel sacramento della penitenza, al contrario, si fa esperienza della propria povertà interiore, della durezza del proprio cuore, si prende in esame la colpa commessa e la ferita arrecata all’integrità della persona offesa. La confessione riguarda la percezione e il superamento di ciò che uno ha fatto di male nel mondo e che vorrebbe volentieri annullare. Nel sacramento della riconciliazione il penitente si chiede dove si è reso colpevole, dove ha ferito se stesso e gli altri, dove è venuto meno a ciò che è vitale o dove ha voluto coscientemente compiere del male. E anche ciò che ha reso difficile vivere nell’amore di Dio.
Nella confessione si considerano i lati oscuri della propria vita alla luce della misericordia di Dio e del proposito di un nuovo inizio. Il sacramento della confessione concede il perdono di Dio. Ma, se una persona è tanto oppressa sotto il peso della colpa commessa e non riesce ad accettare concretamente il gesto del perdono, oppure non sa come intraprendere nella sua vita processi salutari e risananti di cambiamento, può cercare, oltre alla confessione, un aiuto psicoterapeutico e, poco alla volta, rielaborare la sua colpa. Anche di questo si può parlare in confessione.
– Come comportarsi in confessionale con le donne che hanno abortito?
È un argomento molto delicato e difficile. Nel 2017 in Germania ci sono stati più di 100 mila aborti. Dalla psicologia e dalla consulenza si sa che molte donne che hanno abortito ne soffrono anche in seguito enormemente. Si domandano, per esempio, cosa sarebbe diventato il bambino ucciso o avvertono che la vita di un uomo non ha potuto giungere al suo pieno sviluppo. Il dolore, il senso di colpa e di perdita, ma anche il rimorso sono sofferenze dell’anima. Questo fatto è spesso taciuto nella società. La psicoterapia e la consulenza possono aiutare ad affrontarlo. Ma il perdono in senso esistenziale non è possibile nella terapia. Inoltre, bisogna tener conto della dimensione esistenziale e religiosa delle persone coinvolte, le quali si chiedono come sia possibile vivere dopo aver abortito, una scelta alla quale non è possibile porre rimedio. Come si può essere perdonati, venire riconciliati e cominciare effettivamente da capo, quando non è più possibile alcuna riparazione? Per la pastorale della confessione, l’aborto costituisce una grande sfida in cui tuttavia, anche attraverso questa colpa, si può fare l’esperienza del volto amorevole di Dio e di un perdono che apre al futuro.
– Ma per l’interessato è più facile dirlo che farlo, giusto?
Senz’altro. Sono pochissime le donne che abortiscono a cuor leggero e sconsiderato. Il pastore d’anime dovrebbe sempre ascoltare e cercare di capire come si è arrivati a tanto, cosa significa per la persona e come si sente. Infatti, la ragione per cui una donna è stata spinta o ha sentito la necessità di abortire dipende sempre dalla singola persona, dalle circostanze e dalla sua storia. Non si tratta di minimizzare l’aborto o di fare del moralismo superficiale, ma di considerare onestamente insieme la situazione e cercare quali vie è possibile percorrere. Infatti, la sofferenza per l’aborto e il rimorso lasciano un segno profondo nel cuore. Molte cose lasciano una ferita aperta per tutta la vita.
– Quando uno si ammala gravemente, si chiede se è per una colpa sua…
La malattia non ha niente a che vedere con la colpa. C’è nel Vangelo di Giovanni il racconto del cieco nato (Gv 9): Gesù dice chiaramente che né lui né i suoi genitori hanno peccato, se era cieco. Cercare il colpevole, in maniera ingiustificata, a volte, ha anche una funzione psicologica. Se attribuiamo a noi stessi o ad altri, ingiustamente, qualche colpa, vuol dire che cerchiamo qualcosa che metta ordine secondo la nostra visione del mondo. Ma non è così facile. Ci sono disgrazie inspiegabili, tragici fallimenti e sentimenti incontrollabili di impotenza. Il problema di sapere come Dio possa permettere qualcosa di così tragico – quindi, una domanda della teodicea – viene mitigato dal fatto di accusare gli altri e può essere così minimizzato.
– Molti malati si chiedono: perché proprio a me?
La domanda sul perché uno è malato, lui o una persona cara, è del tutto comprensibile. Spesso può essere un modo di capirne la ragione. Si spera così di trovare una risposta che permetta di inquadrare meglio la malattia e il suo significato o forse anche di riuscire ad accettarla. Ma la domanda del perché può anche suscitare indignazione, disperazione e lamentarsi che non è giusto soffrire sotto il peso di questa malattia.
C’è un detto comune che ancora circola: “Dio punisce subito anche i piccoli peccati”. Purtroppo, è ancora diffusa la convinzione che vede la malattia e le catastrofi come punizioni di Dio. Ma, come teologi illuminati e persone cristianamente istruite, sappiamo che non è così. Infatti, secondo la nostra fede cristiana, Dio non è un ragioniere che tiene la contabilità morale delle colpe e che punisce. Dio è amore incondizionato e misericordia. Ma anche se uno lo sa ed è credente, può capitare che, in una situazione di crisi, gli vengano questi pensieri. Allora uno si domanda che cosa ha fatto perché gli accadesse una cosa così drammatica. Dietro al tentativo di spiegare una malattia attribuendola a delle colpe, ci può essere anche l’intenzione inconscia, difficile da sopportare, dell’impotenza e dello smarrimento. Attribuire una colpa significa che uno ne aveva il controllo e che questa era comunque evitabile. Certo, ci sono anche malattie e ferite che sono favorite, provocate o causate da un comportamento sbagliato, avventuroso o dannoso.
– In un suo contributo nel Manuale sulla psichiatria di base per la pastorale, curato assieme al sig. Skuban, si trova anche questa affermazione: “Le persone possono trovare un significato della sofferenza attraverso gli eventi traumatici”. Come si deve intendere?
Questa affermazione, presa da sola, può essere del tutto fuorviante. I traumi, le ferite psicofisiche distruttive non devono essere minimizzate! Dietro ad essi, c’è, se ben intesa, un’importante visione e una prospettiva terapeutica. Nel trattamento terapeutico, lo scopo è aiutare la persona interessata a superare il trauma, per non venire meno e poter vivere e sviluppare possibilità di azioni positive. Se questo riesce, allora si possono cogliere le opportunità personali, le risorse e il potenziale creativo di ciascuno in modo che possano diventare vitali. Si apre così anche una realistica speranza di guarigione e di sviluppo attraverso l’indagine psicologica della malattia, del trauma e della crisi. Può essere, a seconda della gravità, un processo faticoso che, a volte, richiede molto tempo, finché la persona riesce a integrare nella propria vita queste ferite o anche a crescere in forza di esse. Tuttavia questa aspettativa non dev’essere imposta dall’esterno agli interessati. Sarebbe un’ingerenza.
Molte volte, coloro che hanno affrontato gravi patologie o traumi, durante la cura psicoterapica dichiarano di vivere la loro vita in maniera più intensa e consapevole, di impostare meglio le loro relazioni, di essere più riconoscenti per le cose apparentemente ovvie e di sapere ora con maggior chiarezza quello che può essere loro di giovamento e cosa vogliono evitare. In questo caso, il sostegno psicoterapeutico è stato molto utile, come anche l’accompagnamento solidale ed empatico degli altri.
Se le persone possono in seguito trarre beneficio dalle malattie fisiche e dalle esperienze traumatiche, significa che, oltre al lavoro terapeutico attivo, c’è sempre qualcosa di donato di cui essere debitori. Ad esempio, la possibilità di fare nuove esperienze e di sviluppare profondi atteggiamenti religiosi e spirituali, cosa che ha un effetto positivo sulla propria disposizione verso la vita, la creazione, le relazioni e il modo di vivere. Se questo avviene, si può dire: sia ringraziato Dio.