Forse iniziamo ad accorgerci che il cammino ecclesiale e comunitario di sinodalità, che papa Francesco ci ha chiesto di intraprendere, rappresenta davvero qualcosa di inedito, dove i riferimenti e le esperienze che abbiamo a disposizione risultano insufficienti ad abbozzarne l’architettura di fondo: sia quelli che possiamo trarre dalla dottrina sulla Chiesa, sia quelli che ci vengono dalla dottrina sulla democrazia.
Eppure, non possiamo sfuggire alla sensazione che la sinodalità invocata da Francesco sia oggi l’urgenza che ci interpella davanti al destino tanto della Chiesa quanto del meglio che la tradizione democratica della civiltà occidentale ha saputo creare.
La sinodalità è una pratica sui generis, ben prima di poter eventualmente diventare una teoria della forma della Chiesa cattolica e una suggestione per la crisi della democrazia occidentale. Non è, infatti, né un benevolo (e paternalistico) allargamento della collegialità episcopale, che si mette in ascolto della fede come vissuto cristiano concreto (salvo poi continuare a fare da sé); né una semplice mimesi della democrazia rappresentativa con le sue istituzioni portanti.
Questo non toglie che la sinodalità possa cogliere sia nel principio gerarchico ecclesiale sia in quello democratico secolare indicazioni per il proprio svolgersi; ma si tratterà sempre di appropriazioni legate al contesto in cui la sinodalità viene effettivamente praticata.
In questo, la sinodalità è un buon antidoto contro l’egemonia: delle Chiese occidentali su quelle incarnate in altre tradizioni culturali e sociali; dei cattolici tradizionalisti pronti a dichiarare eretici tutti coloro che non la pensano come loro; di chi pensa che la democratizzazione della Chiesa sia l’unica ancora di salvezza, senza tener conto che il sistema democratico maggioritario può ribaltarsi da sé in assolutismo illiberale quando questo va bene alla maggioranza (e che i meccanismi dello stato di diritto sono fragili senza una cultura diffusa della loro custodia civile).
La sinodalità non schiera gli uni contro gli altri, ma convoca gli uni e gli altri a una fare-insieme, dove le ragioni altrui non hanno solo diritto di essere, ma anche di venire comprese e adeguatamente accolte nella pratica sinodale stessa. In questo, la sinodalità è una pratica di rispetto, prima, e di riconciliazione, poi. Ogni pretesa di egemonia, di qualsiasi colore essa sia, la nega in radice e la rende impossibile.
Le esplicite resistenze al ministero petrino di Francesco, da un lato e dell’altro, sono a mio avviso resistenze al processo di riconciliazione sinodale dei molti cattolicesimi che abitano la Chiesa del Signore (come era fin dalle origini, in fin dei conti). E, forse, non abbiamo ancora compreso a dovere che la sinodalità desiderata da Francesco è in primo luogo una pratica di riconciliazione nella Chiesa: del ministero ordinato coi laici, dell’episcopato col popolo di Dio, del vescovo di Roma con le altre Chiese locali, della vita religiosa con le comunità diocesane, e così via.
Sinodalità non significa né omologazione delle differenze in un tutto amorfo, né un indulto generale che non distingue il giusto dallo sbagliato; ma è, comunque, l’affermazione di una volontà decisa a non voler essere mai senza l’altro – chiunque esso sia, qualunque sia il suo sentire ecclesiale.
Oggi come oggi, nella Chiesa cattolica e nel mondo contemporaneo la sinodalità è come un cucciolo d’uomo nella culla: senza accudimento di tutti coloro che gli stanno intorno muore. E con essa muore il principio evangelico di una riconciliazione reciproca dei molti fratelli e sorelle del Signore.
Va trattata con cura, ma senza gelosie di metterla anche in mani che non sono le nostre. Se pretendiamo di svezzarla solo noi, l’avviliremmo col nostro narcisismo.
Il manuale del cristiano sinodale non esiste ancora, e se anche esistesse servirebbe a poco perché essa nasce sempre di nuovo nel suo essere concretamente praticata. Per questo, davanti alla sinodalità da fare siamo tutti degli apprendisti – e, forse, questo senso di spaesamento davanti all’inedito a cui dobbiamo dare forma potrebbe accomunarci almeno un po’.
Sottolineo: “non voler essere mai senza l’altro – chiunque esso sia, qualunque sia il suo sentire ecclesiale”.
Ma quale parroco ha convocato così i propri fedeli? Dove si è convocato così? Vorrei pensare che sono esclusa io perché anziana, anche se tutta la mia vita è stata legata alla Parola, al Signore e, di fronte alle diversità, dicevo al parroco di turno, al Vescovo… ci convochi come credenti nella Resurrezione perché risulti chiaro che le altre differenze sono secondarie… Certo, qualcuno ha fatto esperienze bellissime, ma chi si prende cura di coloro a cui non tocca nulla…?
«La sinodalità non schiera gli uni contro gli altri, ma convoca gli uni e gli altri a [una] fare-insieme, dove le ragioni altrui non hanno solo diritto di essere, ma anche di venire comprese e adeguatamente accolte nella pratica sinodale stessa. In questo, la sinodalità è una pratica di rispetto, prima, e di riconciliazione, poi. Ogni pretesa di egemonia, di qualsiasi colore essa sia, la nega in radice e la rende impossibile.» Qui mi pare di scorgere il nocciolo attuale: qualche mese fa scrissi una lettera al mio vescovo perché nel prossimo sinodo si riflettesse anche sul tema dei «ex» (preti, religiosi/e) nella chiesa. Trovo emblematica la lettera che il biblista Cappuccino p. Ortensio da Spinetoli scrisse a papa Francesco all’inizio del pontificato, la condivido e la riporto (omettendo la parte introduttiva personale) a contributo di questa riflessione:
Recanati, 20 settembre 2013
Caro papa Francesco,
…ma a me è sembrato più opportuno farle pervenire una proposta egualmente in sintonia con il rinnovamento ecclesiale che sembra voler mettere in atto. Eccola.
1. Dopo la convocazione nella Sala Nervi dei portatori di handicap, la visita del giovedì santo ai carcerati di Regina Coeli, l’incontro con gli esuli approdati sulle coste siciliane, perché non pensare a un raduno dei «dispersi d’Israele», cioè di quanti nella chiesa hanno subìto incomprensioni, preclusioni, esclusioni, condanne, a motivo non di reati ma delle loro legittime convinzioni teologiche, bibliche o etiche? Quante Lampeduse, non diciamo Gulag, si possono riscontrare nella storia della chiesa! Papa Benedetto, poco dopo la sua elezione, ha invitato nella sua villa estiva Hans Küng, ma quanti altri che pur ne avrebbero avuto diritto ha lasciato fuori? Non per un’assoluzione o promozione, ma per quel tanto di dignità e di rispetto loro dovuto e sempre negato.
2. La chiesa è la patria di tutti, anche dei diversamente pensanti e perfino dei dissenzienti come avviene in qualsiasi società civile dove coesistono orientamenti contrapposti, persino ostili tra di loro senza che per questo vada a catafascio. La fede, che è comunione con Dio, è la stessa in tutti i credenti, mentre il modo di intenderla, che è teologia, non può essere che molteplice, a seconda dei luoghi, dei tempi, delle culture di coloro che l’accolgono; ancora più diversificati sono i modi di esternarla ossia di celebrarla (religione).
3. Forse non si sa con certezza quello che Gesù «ha fatto e detto» (At 1,1) ma, vista la sua indole «mite ed umile» (Mt 11,29), la sua predicazione propositiva e non impositiva, il suo stile parenetico e non dommatico, i suoi temi preferiti quali l’accoglienza, la carità, l’amore, il perdono, nessuno può mai pensare che possa aver negato il suo riferimento, peggio abbia messo al bando chicchessia o abbia suggerito ai suoi di fare altrettanto con chi non era in sintonia con il suo e il loro insegnamento. Anzi, sembra che abbia fatto il contrario. «Lasciatelo stare» aveva risposto a chi gli aveva riferito di aver messo a tacere uno che si avvaleva del suo nome senza essere del suo gruppo (cf. Lc 9,50). L’esclusivismo ha preso avvio con protagonisti della chiesa nascente, a cominciare da Paolo che da buon giudeo imprigiona i discepoli di Gesù Nazareno (At 8,3) e da convertito fa espellere dalla comunità di Corinto un povero peccatore (1Cor 5,3). È lo stesso atteggiamento che si ritrova nella comunità di Matteo, in cui la presenza degli erranti per un certo tempo è tollerata, ma poi segue l’espulsione (Mt 18,17). Ormai nell’unica chiesa di Cristo si è instaurato un regime di preclusioni ed esclusioni che coinvolge presbiteri (Giovanni, Gaio, Demetrio) e pastori (Diotrefe, Timoteo, Tito e altri anonimi – cf. Lettere pastorali [Prima e Seconda Lettera a Timoteo, Lettera a Tito] e cattoliche [Prima e Seconda Lettera di Pietro, Prima, Seconda e Terza Lettera di Giovanni, Lettera di Giacomo, Lettera di Giuda]) e si allargherà irrigidendosi sempre più nel tempo fino ai nostri giorni.
4. Il pluralismo di qualsiasi forma non è una iattura bensì una ricchezza perché fa ridondare su tutti i carismi, le donazioni accordate a ciascuno. Quante energie sono andate perdute perché i superman di turno hanno impedito ad altri di esprimersi. Papa Giovanni, veramente saggio oltre che santo, ripeteva che la chiesa è un giardino tanto più bello quanto più ricco di molteplicità e varietà di fiori. È un campo in cui si ritrova ogni genere di piante, persino quelle che i profani dicono tossiche perché non ne conoscono le proprietà. Persino «i triboli e le spine» che stanno a ingombrare il terreno hanno la loro funzione che è quella di tenere sveglie le menti delle creature intelligenti. L’accettazione del pluralismo non significa che tutte le teorie o dottrine siano uguali o, peggio, tutte giuste e vere, ma che tutte hanno eguale diritto di libera circolazione nell’alveo comunitario, proprio secondo i dettami del Vaticano II che ha riconosciuto per la prima volta anche al cristiano «la libertà di coscienza», cioè la facoltà di parlare del proprio credo secondo le sue conoscenze e competenze. Non si tratta di avallare un sincretismo religioso ma di rispettare le donazioni che ognuno ha ricevuto da Dio.
5. Se questo straordinario raduno dovesse aver luogo, cominciando ovviamente con una solenne proclamazione dei nomi di tutti i caduti sul fronte delle lotte di liberazione del penultimo e ultimo secolo, a cominciare dall’Abbé Alfred Loisy fino ai padri José María Díez-Alegría e Pierre Teilhard de Chardin, sarebbe un evento inatteso ma veramente profetico, sarebbe la sconfessione di un passato infelice, antievangelico, dittatoriale. Nel giorno di Pentecoste il «vento» dall’alto non investì solo Pietro e gli apostoli, ma l’intera «moltitudine» ivi radunata, «tanto giudei che proseliti, cretesi ed arabi, parti ed elamiti» (At 2,9-11). Anche la tanto invocata unione delle chiese cristiane potrebbe più facilmente realizzarsi poiché le divisioni non provengono dal Vangelo ma dall’irrigidimento della chiesa di Roma che ha mutuato le strutturazioni del passato impero!
6. In questa eventuale riconciliazione ecclesiale sarebbe straordinario se l’auspicato «raduno» potesse coincidere con la chiusura definitiva del supremo tribunale o ex Sant’Uffizio, perché troppo in contrasto con il messaggio centrale del Vangelo, imperniato sulla carità e sul perdono prima che sulla giustizia, tantomeno quella punitiva che è propria dei regimi totalitari. Il Concilio l’aveva pensato e proposto, ma ciò nonostante è rimasto con tutto il suo rigore. «Qui sono cambiati solo i nomi» mi disse un padre domenicano quella volta che andai a parlare con uno degli ufficiali, mons. Jozef Tomko, ora Cardinale.
Non mi sono ancora presentato, ma le informazioni sul mio conto sono raccolte nelle note biografiche qui accluse, curate da un mio amico bergamasco.
Le auguro ogni bene e pregherò il Signore per Lei e per la riuscita della Sua missione; Lei voglia avere un pensiero per me e per tutti noi.
Frate Ortensio da Spinetoli
Ex alunno dei Cappuccini (Loreto), dei Domenicani (Fribourg), dei Gesuiti (Innsbruck e Roma con Rahner, Bea, Lyonnet, Zerwick) e dei Francescani (Gerusalemme). Forse questa fortuna di interconfessionalità ha contribuito a tenermi lontano da ogni esclusivismo o settarismo.
(Ortensio da Spinetoli [1925-2015], L’inutile fardello, Chiarelettere, Milano 2017, pp. 69-74).