Come vivere le virtù teologali nel tempo del Coronavirus? Una situazione inedita. La celebrazione eucaristica si può sospendere, non la carità.
Quando il Coronavirus era supposto essere soltanto in Cina, pareva possibile esorcizzarne la paura: riguardava altri e per giunta lontani. C’era persino la possibilità di farsene burla.
Poi noi italiani ci siamo ritrovati catapultati dall’altra parte della barricata: tutto era cominciato con i cinesi che vivono nelle nostre città, quindi è stata la volta degli abitanti di Codogno… e ora le popolazioni di intere regioni sono diventate i portatori dell’epidemia e sono dissuase ad avere contatti ravvicinati.
Questo cambio di prospettiva potrebbe somigliare ad una doccia scozzese, un repentino passaggio dal caldo al freddo. È evidente che chi soffre per i cambiamenti (persone depresse, bipolari, ansiosi in genere, ipocondriaci in specifico…) ne ha risentito più di altri, insieme ovviamente a quelle categorie già a rischio come i poveri, i malati, gli anziani, i bambini.
A memoria dello scrivente (mezzo secolo di vita) è impossibile ritrovare un’esperienza analoga: evidentemente occorre andare più indietro. Perché ci sono state esperienze come quella del terremoto, ma concernevano una catastrofe sensibile, come un nemico esterno che andava, al contrario, a rinsaldare i legami sociali. Questa epidemia, invece, ha il carattere dell’invisibilità e, per questo motivo, ricorda piuttosto la peste manzoniana, l’omonimo libro di Camus… insomma è come una pellicola sottile che può depositarsi su chiunque e che tende a isolare le persone tra loro.
La crociata e il contagio
Per questo motivo ci sono gli appelli di chi si ritrova dal lato sanitario e cerca di contenere il contagio riducendo gli spostamenti e gli affollamenti; e, dall’altra parte, ascoltiamo inviti a non interrompere la routine e le relazioni annesse. Un equilibrio che fatica a essere raggiunto, frutto di esigenze che andrebbero contemperate senza tuttavia avere una soluzione a portata di mano.
Così, mentre leggevamo il vangelo del mercoledì delle ceneri che ci invitava a pregare nella nostra camera, sebbene in tante parti di Italia fossimo costretti a farlo, non è mancato chi ha voluto ricordare il valore imprescindibile della comunità e della liturgia, quasi sollecitando una ribellione come quella dei primi cristiani all’autorità romana.
Forse, l’analogia non voleva essere questa, ma sotto traccia la si poteva cogliere; con la differenza che l’azione istituzionale attuale non è tesa a violare i diritti umani né ad attaccare espressamente la fede cristiana, ma a cercare di governare in maniera ordinata una situazione che appartiene (apparteneva) ai romanzi distopici più che alla storia italiana contemporanea.
I riti rassicuranti
Nessuno stupore che vi sia irrazionalità in questo momento: il fenomeno morboso in quanto tale è stato analizzato ed è scientificamente comprensibile, ma le popolazioni occidentali non sono più capaci di resistere ad un evento che impatta e squilibra le certezze di una società senza guerre da 75 anni.
La vita frenetica odierna porta con sé un florilegio di relazioni (almeno per alcune categorie). Oggi questa rappresentazione sembra lontana anni-luce, specie quando ci si reca nelle piazze deserte di capoluoghi che erano popolati da turisti fino a poche settimane fa.
Le stesse chiese hanno cambiato aspetto e viene da domandarsi come sia possibile mantenere viva la fede senza quei riti che la puntellano quotidianamente e settimanalmente. Sempre che di fede si tratti: affermazione insidiosa, questa, di sicuro non misurabile da alcun termometro umano.
Ma ci sono appuntamenti che rassicurano e allontanano per qualcuno la solitudine e per altri (sempre meno) ansie da scrupolo: che la comunità si ritrovi per pregare è una cosa, che si dia un appuntamento ad un orario preciso è un’altra. Anche l’autobus, infatti, passa ad una determinata ora, la partita di calcio la si aspetta per quel giorno, il caffè è un rito di metà mattina come la sigaretta: il valore di queste “certezze” nella vita di un individuo e di una società è chiaro e la vita di fede non sfugge all’esigenza di alcune certezze regolari. Ma la fede rimane altra.
Imparare la speranza
Forse, in questo tempo, la virtù che corre più rischi non è la fede: ad essere scossa in quanto tale è la speranza, che può rivelarsi in uno sguardo cupo sul futuro. Ma essa, lungi dall’alimentarsi in attese irrealistiche, si era già assottigliata per via di un modo di guardare al futuro come a qualcosa di prevedibile, quasi fosse interamente nelle nostre mani.
Si può intravvedere la mancanza di speranza nella pretesa di una data in cui l’emergenza finisca (una contraddizione in termini), giorno che specialmente il mondo produttivo reclama. Come vi fosse qualcuno oggi in grado di prevedere l’evoluzione di un virus di cui si conosce la struttura genetica, ma non la sua capacità di evoluzione e di sopravvivenza. Il mito di una scienza che tutto conosce e tutto risolve continua ad aleggiare anche in questo terzo millennio: non è tramontato con il positivismo e più di uno ancora crede che tutto sia conosciuto e dominato.
La speranza, invece, è quella virtù che consente uno sguardo benevolo su un futuro imprevedibile. Chi può dire che il Coronavirus, accanto a portare lutto e paura, non possa trasformarsi in occasione di bene? Lo diceva già Gesù, davanti alla torre che cadeva a Siloe… Forse occorreranno anni per poterlo guardare così, ma c’è anche caso che, tra un decennio, questi giorni rappresentino non un lontano ricordo ma la scoperta di un modo di vivere differente.
La carità resta aperta
Eppure, nemmeno la speranza è la malata più cagionevole: ciò che chiede veramente di essere alimentata è la carità. Quando si moltiplicano i problemi, ci si concentra molto di più su se stessi e occorre tanta vigilanza se ci si vuole mantenere attenti al prossimo.
La situazione attuale mette in crisi la vita relazionale ed evidenzia un mondo in cui ci si sente più individui isolati che non fratelli e concittadini. La solidarietà è messa a repentaglio dal benessere ma anche dall’arrivo improvviso di problemi su scala nazionale: se ognuno si occupa solo di se stesso e dei propri problemi, se si fa campagna elettorale invece di avviare un confronto tra le varie istituzioni, se non si prova a rimanere compatti anche come Chiesa… aumenta l’individualismo e il popolo (che sia di Dio o dell’Italia) si dissolve in un’armata Brancaleone.
La carità si preserva grazie a comportamenti semplici e con grande saggezza la Chiesa ha chiesto di non chiudere i centri caritativi: si può sospendere la celebrazione comunitaria ma la carità non deve venire meno.
I pionieri che andarono in America motivano jndpirgabilmrnte. Si riunirono tutti l’ultimo giovedì di novembre e celebrarono una messa chiedendo al Signore di non farli più morire. In cambio avrebbero ricordato per sempre la bontà del Signore l’ultimo giovedì di novembre e ringraziando. Ma forse non abbiamo più né fede né umiltà per fare questo…..