Oggi si corre il “Giro di Lombardia”, la classica ciclistica denominata delle foglie morte. Giovanni Battista Baronchelli ne ha vinto due edizioni: nel 1977 e nel 1986. Gli abbiamo chiesto di ricordare quelle sue vittorie e i valori che conservano.
- Tista, perché è tanto importante il Giro di Lombardia?
Così come la “Milano-Sanremo” è una gara molto ambita perché è la classica di apertura della stagione ciclistica, in marzo, il “Giro di Lombardia” lo è perché è alla fine della stagione, in ottobre: questo secondo il calendario tradizionale dei miei tempi. Benché oggi siano cambiate un po’ di cose, queste “classiche” sono ancora molto sentite sia in Italia che a livello internazionale, dai corridori come dalla gente.
Il “Lombardia” ha un valore particolare perché è una competizione molto difficile, zeppa di salite, una gara che si corre, appunto, verso la fine dell’anno, quando bisogna fare i conti con le energie rimaste in corpo, nel confronto coi corridori più forti al mondo.
C’è poi il fascino della corsa delle foglie morte, tra i colori autunnali dei boschi e nelle mete che vengono toccate: le città lombarde, i Santuari.
- L’hai vinta due volte: partiamo dal ’77.
La prima volta, l’ho vinta, appunto, nel ’77: era l’8 di ottobre. Portavo la maglia della SCIC. Ricordo che la gara era partita da Seveso – per solidarietà con la gente ammalata dalla diossina – ed è arrivata a Como. La prima scalata è stata, come in tutte le edizioni verso il Santuario della Madonna del Ghisallo; poi, aggirando il lago di Como da nord, c’era la salita di Ballabio e la salita di Intelvi (due volte). Dopo la seconda scalata dell’Intelvi, andai in fuga con Ronald de Witte. Sull’ultima salita – il San Fermo della Battaglia – staccai anche de Witte e arrivai solo per distacco al traguardo di Como, con più di un minuto di vantaggio.
Ricordo che quel giorno era piovuto a dirotto lungo tutto il percorso: 257 chilometri sotto l’acqua in poco più di 7 ore, alla media di 36,5 all’ora. Appena finita la corsa il lago di Como è esondato.
- Come era andato per te quell’anno?
Quell’anno era stato per me un anno di ripresa. Nel ’74 – da ventenne neoprofessionista – ero arrivato secondo al Giro d’Italia alle spalle di Eddy Merckx: il famoso “Giro dei 12 secondi”. Dopo quel Giro ebbi una rovinosa caduta, che ha condizionato tutta la mia successiva carriera. Nel ’75 fallii l’obiettivo del Giro d’Italia, in cui ebbi un crollo fisico nel tappone del passo dello Stelvio.
Nel ’76 mi classificai quinto al Giro, la corsa che sempre avrei dovuto e voluto vincere. Perciò, per la critica, a 23 anni, ero già un corridore finito. Nel ’76 avvenne pure la rottura con lo staff che mi aveva seguito sino a quel momento nel professionismo. Insomma, stavo vivendo un periodo molto complicato, anche interiormente.
Ecco perché il ’77 è stato l’anno del riscatto. È stato l’anno in cui, per la prima volta, ho vinto il Giro dell’Appenino – che avrei poi vinto per 6 volte consecutive (stabilendo il record del tempo di scalata della Bocchetta che è resistito poi per 17 anni) – e il Giro di Romandia a tappe. Al Giro d’Italia del ’77 mi classificai terzo, con tutte le polemiche di cui fui fatto oggetto a motivo della rivalità sportiva con Francesco Moser.
Dalla gara per la conquista del titolo mondiale fui poi escluso, a causa di una caduta mentre ero già in Messico e in ottima forma. La vittoria del Giro di Lombardia – in quel modo – ha confermato che ero ancora un corridore valido: è stata una vittoria che ha ridato fiducia in me stesso ed ha entusiasmato tanti miei sostenitori.
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- La seconda vittoria del Lombardia è arrivata nell’’86: 9 anni dopo! Come sono andate le cose?
Nella data -18 ottobre – della mia seconda vittoria al Lombardia si arrivava a Milano, proprio davanti al Duomo, alla Madonnina, nell’anniversario della fondazione del Duomo (1386-1986). Ad oggi, sono l’ultimo corridore lombardo ad aver vinto il Giro di Lombardia.
Questi sono per me motivi di particolare soddisfazione, oltre al fatto di aver vinto – per i più inaspettatamente – verso la fine di una carriera lunga, dopo ben 9 anni dalla prima volta.
In quella corsa portavo la maglia della Del Tongo-Colnago, dopo aver cambiato squadra, in corso d’opera: dalla squadra di Moser ero passato a quella di Saronni, grazie ad Ernesto Colnago, che ha sempre mostrato di avere fiducia in me.
Il percorso dell’’86 era persino più duro di quello del ’77, con le salite del Ghisallo, del Ballabio, Esino-Lario, Valcava, Costa Imagna: 262 chilometri con un bel dislivello; ma l’ultima salita era ancora lontana dal traguardo di Milano.
Nella discesa da Esino-Lario c’era davanti un gruppetto comprendente i migliori: Sean Kelly, Phill Anderson, Acácio da Silva, Leo Schönenberger e Flavio Giupponi, mio compagno di squadra. Sulla salita di Valcava ho raggiunto dalle retrovie, da solo, quel gruppetto e sono transitato primo in vetta. Mancavano ancora 50 chilometri all’arrivo.
Stavo bene e avrei voluto attaccare e staccare subito tutti. Flavio Giupponi, saggiamente, mi consigliò di aspettare. Così andammo verso il traguardo di comune accordo. A due chilometri anticipai lo sprint con una accelerazione, distanziando gli altri di una manciata di secondi, ma quel tanto che è bastato per vincere in solitaria: ancora a braccia alzate.
- Due Giri di Lombardia vinti per distacco: non ti sei mai voltato indietro?
Io mi voltavo sempre indietro, ma non era per me una manifestazione di insicurezza: volevo rendermi conto che stavo davvero vincendo. Mi voltavo anche a 20 metri dalla linea del traguardo, per essere certo: non ho mai avuto la presunzione di essere sicuramente il più forte.
Anche se il Vangelo dice che non è una bella cosa voltarsi indietro, penso che l’interpretazione giusta sia proprio questa: fare tutto il possibile, ma sapendo che ci sono gli altri, i compagni e i rivali.
A chi hai dedicato quelle vittorie?
Non ero solito dedicare le mie vittorie. Non so bene cosa voglia dire. Ma sempre ho ringraziato chi ha reso possibili le mie vittorie: certamente i miei compagni di squadra; anche il ciclismo, infatti, è uno sport di squadra e non c’è nessuno che possa vincere da solo. Io l’avevo ben presente, nonostante i problemi che ho attraversato nelle squadre di cui ho vestito la maglia. Ci vuole sempre la gratitudine.
Ma la gratitudine di fondo – maturata poi con l’età – è stata sempre per i miei genitori, per i miei numerosi familiari, che mi hanno permesso di fare il corridore. Come ti ho detto (qui) per me correre in bicicletta – assieme a mio fratello Gaetano – è diventato presto un mestiere, col quale sentivo di dover ripagare i sacrifici dei miei genitori. Quando vincevo – ma anche quando ero in crisi – pensavo sempre a loro. Mi ero dato, per loro, due grandi obiettivi di vittoria: il Giro d’Italia e il Giro di Lombardia. Sai poi come è andata: il Giro d’Italia non l’ho mai vinto, mentre di Giri di Lombardia ne ho vinti due.
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- La prima salita di ogni Giro di Lombardia è al Santuario del Ghisallo. Perché quel posto ha un significato particolare per i corridori?
Il Santuario della Madonna del Ghisallo è un posto “fuori dal mondo”, a quasi 800 metri di altezza: chi ci va oggi, ci va proprio perché vuole andarci, anche in bicicletta. Da là poi si scende sul lago di Como. Era il punto di riferimento e di protezione dei viandanti. Ecco perché è divenuto il Santuario dei ciclisti e la Madonna del Ghisallo è diventata la protettrice dei ciclisti. Ci sono steli di Coppi, Bartali, Magni. Accanto alla chiesetta c’è un museo coi ricordi dei grandi della bici.
Sono presidente onorario del Gruppo Sportivo del Ghisallo.
- E per te, cosa rappresenta?
Sia al Giro di Lombardia, che alla “Coppa Agostoni” – una corsa del “trittico lombardo” – cercavo di passare sempre in testa sul Ghisallo, benché sia un traguardo ancora molto lontano dall’arrivo.
Perché? Allora, soprattutto perché mi sentivo un corridore lombardo: io sono nato in provincia di Mantova, mio papà in provincia di Brescia, mio nonno veniva dalle valli bergamasche; ho vissuto poi il resto della mia vita accanto all’Adda.
- Sì, ma oggi c’è un significato ulteriore, per te, in quel Santuario?
Nell’’85 ho vinto una tappa del Giro di Spagna con arrivo al Santuario di Santiago di Compostela. Nel corso della mia carriera ho vinto una tappa del Giro d’Italia con arrivo al Santuario di Santa Rita da Cascia e una cronoscalata, attraverso Bologna, con arrivo al Santuario di San Luca. A fine carriera, nell’’87, ho vinto una cronoscalata proprio alla Madonna del Ghisallo.
Voltandomi indietro – specie dal 2011 anno della morte della mia mamma – capisco che ciò non può essere casuale. Oggi leggo tutti questi come segni buoni: Qualcuno mi stava proteggendo e mi stava guidando su una strada sempre più bella.
Per questa strada spero, un giorno, di poter pedalare anche “in Cielo”: come dice il titolo del mio libro.