Carceri: il virus della rabbia

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Anche se niente giustifica la violenza scoppiata in molte carceri italiane, essa non nasce dal nulla. La interpretano i cappellani.

Stiamo sperimentando in questi giorni, da oggi in tutta l’Italia, la limitazione nella libertà di spostamento. Perché la nostra libertà potrebbe costituire un rischio per la salute altrui, oltre che per la nostra stessa. A chi ha una casa e degli affetti può sembrare una situazione insostenibile già dopo poche ore, benché non ci venga imposto di andare al fronte per combattere la battaglia contro il virus, ma di restare comodamente in casa.

La persona detenuta è, per definizione, impedita nella sua libertà di movimento, a prescindere dal coronavirus. Perché il male commesso rende la sua libertà un rischio per la sicurezza altrui, a prescindere dal coronavirus.

Doppie misure

Noi che restiamo chiusi in casa possiamo cogliere l’occasione di dedicarci agli affetti e curare interessi per i quali non abbiamo solitamente tempo.

Coronavirus carcere

Chi resta recluso in carcere si vede, in queste circostanze, avvolto da un secondo giro di fune. Ho sentito alcuni banalizzare la situazione dicendo: «A loro costa meno la quarantena, perché già dovevano stare al chiuso». Le limitazioni imposte a tutta Italia non aggiungono poco – come si può pensare – a chi è già recluso. Piuttosto tolgono molto. A “loro” questa emergenza costa di più, perché non possono dedicarsi alla famiglia, anzi si vedono impediti anche quel veloce restare un poco con i propri cari. Non potranno godere dei permessi premiali, previsti dalla legge, per starsene davvero un po’ a casa.

Il lavoro all’esterno è precluso, e questo vale anche per molti cittadini liberi. Nel carcere, però, si vedono preclusa la partecipazione a quelle attività (scuola, sport, iniziative culturali e religiose, colloqui con i volontari…) che riempivano, seppur poco, le lunghe giornate “intramuros”. A pagare sono anche i familiari innocenti. A pagare un costo aggiuntivo sono anche gli operatori del carcere, che si trovano a gestire il moltiplicarsi dei rischi e il cumularsi della tensione. Che purtroppo è deflagrata con violenza devastante.

Doppia pena

L’ultima scintilla a incendiare la miscela che da un po’ di tempo si andava mescolando è stata il decreto legge n. 11 dell’8 marzo (GU Serie Generale n. 60 del 08-03-2020), con il quale si dichiarava il rinvio delle udienze penali e civili. Chi in questi giorni aspettava una sentenza, o la decisione in risposta ad un’istanza, dovrà attendere. In carcere, quando forse la sentenza avrebbe potuto mandarlo libero o concedergli qualche beneficio.

Ho sentito alcuni concludere sbrigativamente «Se la sono cercata. Sapevano che potevano finire in carcere». Sì, lo sapevano, e non è né giusto né dignitoso sminuire la responsabilità personale delle scelte compiute. Ma la maggior parte di queste persone ora sa, sa bene, che vuole un futuro diverso, un futuro guarito. Il sistema sanitario si prende cura anche di chi avesse trasgredito le norme precauzionali, perché è nell’interesse di tutti che il contagio non dilaghi. È nell’interesse di tutti che chi ha sbagliato si ravveda.

C’è un tornaconto maggiore – anche soltanto dal punto di vista opportunistico – dimettere dalle carceri dei buoni vicini piuttosto che persone sature di rabbia o addirittura convinte di essere a credito nei confronti della società.

Doppio problema

Il dilagare della violenza in più di venti carceri, la conta delle vittime, la minaccia degli evasi hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sul carcere che invece – come lamentavano sia persone recluse sia agenti – con i suoi problemi di sovraffollamento, di carenza d’organico, di condizioni sostenibili soltanto grazie alla buona volontà di chi vi opera, costituisce una caldera pronta a diventare vulcano. Non occorreva essere geologi della sociologia per prefigurarlo. «Non si dica che quanto sta accadendo è per il coronavirus ma è con il coronavirus, perché il grave stato emergenziale che attanaglia le carceri, i detenuti e chi vi opera è in essere da troppo tempo» (UIL). Era una miscela in cerca di un detonatore.

«La verità è che con il coronavirus gli istituti di pena si sono trasformati in deserti in tempesta, dove il rispetto delle regole viene percepito come negazione dei propri diritti. Perché lì, dove chi ha sbagliato deve pagare, non c’è scelta. Non c’è distanza di sicurezza o gel disinfettante, non c’è mascherina. Non c’è un treno da poter prendere per scappare, come hanno fatto le centinaia di italiani in fuga dalle zone rosse» (Annalisa Graziano).

Negli ultimi giorni prima della “tempesta”, quando incontravo qualcuno a colloquio e opponevo il rifiuto alla stretta di mano, vedevo in genere sul volto un disappunto deluso. Come se mi dicesse: «Non negarmi anche questo». Qualcuno insisteva e pretendeva magari un cheek to cheek. Premura perché portassi un saluto ai volontari, rimpianto per la scuola, sincera nostalgia della celebrazione eucaristica domenicale. «Almeno un prete per chiacchierar» c’era…

Coronavirus carcere

Poter stare da soli in casa è un benedizione per molti. Dovere stare chiusi in un luogo che si chiama casa (circondariale), senza nemmeno potere stare davvero soli perché condividi la cella con un’altra o più persone, non sempre congeniale: questa è una maledizione. Qualcuno non ha retto il sovraccarico.

Niente, assolutamente niente giustifica la violenza che si è propagata. Poco, decisamente poco giustifica l’ignavia di chi si scrolla di dosso la fatica dell’amministrazione penale, che si permette un «tanto peggio per loro» smentito dai fatti, che legittima la stupidità civile di chi vorrebbe semplicemente “buttare la chiave” pensando così di poter buttare un problema. Questa epidemia ci sta insegnando che il problema dell’altro (la malattia) è un problema mio. «Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia» (don Milani).

Doppia fatica

In molti istituti ora si stanno raccogliendo i detriti, si sta facendo la conta dei danni materiali e funzionali, si fa il possibile per ripristinare l’ordinario. Il timore è per il “dopo” che ci attende già da adesso. Ci vorrà tempo per rimettere in funzione le sezioni devastate. Ci vorrà determinazione per ripristinare il funzionamento dei ruoli e delle procedure. Ma soprattutto ci vorrà ben più tempo e ben più determinazione per lenire i colpi, cicatrizzare le ferite, ricostruire fiducia e dialogo. Tutti temiamo il giro di vite, che colpirà indiscriminatamente.

In alcune carceri, sezioni intere non hanno aderito alle rivolte; in alcuni casi, gli stessi detenuti hanno chiesto agli agenti di “chiuderli” per evitare ogni sospetto di complicità. Può darsi che costoro non restino estranei a misure d’eccezione generalizzate, nonostante la loro voluta estraneità ai fatti. La loro rabbia riprenderà a lievitare, alimentata dal lievito madre della rivolta?

Le parole dei cappellani: Forza della testimonianza

«Questo vi darà occasione di rendere testimonianza».

È l’invito che Gesù ci rivolge quando è in causa la nostra vita e la vita dei nostri cari.

Sono parole che, come cappellani delle carceri dell’Emilia-Romagna e Marche, vogliamo condividere. Lo facciamo in comunione con le comunità che presiediamo in carcere condividendo con loro una doppia condizione di restrizione; già privati della libertà, ci vediamo privati anche di ciò che rende la carcerazione meno opprimente come i colloqui, i laboratori, le attività, l’incontro coi volontari così come le attività religiose.

Lo facciamo in solidarietà con gli operatori del carcere, chiamati a gestire tensioni che si accumulano e rischi che si moltiplicano.

Davanti alla drammatica situazione di crisi che si è avvitata in queste ore in diversi istituti, non rinunciamo a credere nell’unica via del dialogo e della mediazione. Non perché via più facile, ma perché unica. Non perché senz’altro disponibile, ma perché indispensabile.

L’uso della violenza, mai giustificato, rifiutato dalla maggioranza dei detenuti e degli operatori, è stato ritenuto uno strumento inevitabile.

Questo ci dà l’occasione di rendere testimonianza alla necessità del dialogo e dell’incontro. La gravità della situazione non richiede necessariamente un di più di violenza, ma certamente un di più di coscienza.

Il chiuso del carcere richiede apertura delle menti e dei cuori.

Mentre siamo tutti unitamente intenti a combattere il virus che colpisce i polmoni, vogliamo allearci per contrastare ogni virus maligno che colpisce il cuore e annebbia la mente.

È il tempo della forza, non della violenza. È il tempo della testimonianza.

Testimonianza che – sappiamo – sarà vissuta anche da coloro che quotidianamente incontriamo e con i quali sentiamo di condividere l’angoscia e la sofferenza.

È il tempo della fede, non della rinuncia. È il tempo della preghiera. Che in questi giorni assume il profilo del testimone per eccellenza, Gesù Cristo, nel suo atteggiamento rivolto al Padre durante i giorni della sua passione.

È il tempo della speranza, non dell’illusione. È il tempo dell’alleanza. La Parola di Dio e la storia degli uomini ci insegnano che le alleanze reggono in virtù di regole alle quali ci si educa e ripetutamente ci si converte. La prima delle quali è: «Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te». Uno contro l’altro è illusione, insieme è speranza.

È il tempo della carità, non della vendetta. È il tempo della giustizia. È il tempo di accettare la sentenza umana per uscire dal carcere migliori. È il tempo di dar corso alla sentenza testimoniando che il fine ultimo di ogni pena, di ogni misura, di ogni intervento è l’uomo, al di là dell’aggettivo colpevole.

Sappiamo che questo nostro messaggio non potrà forse raggiungere, subito, i nostri fratelli e sorelle che vivono nelle carceri. Ma diamo testimonianza di fede nel credere che ogni atto di fede, di speranza e di carità, ogni parola, ogni gesto di umanità percorre vie misteriose che Dio rende efficaci per la grazia di Cristo.

È lui il testimone nel quale ci sentiamo in comunione con tutte le nostre diocesi in questo cammino che crediamo fermamente sfocerà nella carità della luce pasquale.

I cappellani e le cappellanie del carcere dell’Emilia-Romagna e Marche.

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