Putin porta intera la responsabilità di una guerra sanguinosa e ingiustificabile. Che si porta appresso il trionfo del bellicismo nella cultura e nelle coscienze, la vittoria del linguaggio delle armi su quello della ragione, del dialogo, del negoziato.
È come se la guerra avesse vinto nelle menti e nei cuori ancor prima che sul campo. Lo ha notato Gustavo Zagrebelsky in un suo intervento ispirato alla preoccupazione che la retorica dei valori disseminata da chi sta in alto tradisca l’indifferenza per la vita concreta di persone e gente comune: “una cosa è aiutare le vittime promuovendo la pace; altra cosa è attizzare cattive passioni. Dunque, non attizzare i fanatici dell’Occidente, i nazionalisti, i sovranisti che hanno l’occasione di mostrarsi come i suoi più efficaci difensori. Aiutare, ma contrastare le idee aggressive che prefigurano un futuro altrettanto o, forse, peggiore e, comunque, allontanano la prospettiva di un’intesa che metta fine alla guerra”.
La guerra e il discorso pubblico
Che il discorso pubblico sia avvelenato lo si evince da molti indizi. Mi limito a qualche esemplificazione.
La prima: la militarizzazione del confronto, la diffusa tendenza a colpevolizzare le opinioni diverse dalla nostra, o quantomeno a darne una lettura caricaturale. Ci spiegano che è una regola in tempo di guerra: gli animi si accendono, la ragione si appanna, la propaganda si sostituisce all’onesta e oggettiva ricerca delle ragioni e dei torti delle parti in conflitto.
Secondo esempio: la propensione a bollare subito come ignavo o addirittura vile il sano sentimento/anelito popolare alla pace. Che è cosa affatto diversa dall’equidistanza pilatesca tra l’aggressione e l’aggredito. Intendiamoci: non sempre va assecondata l’opinione prevalente. Talvolta la si deve istruire, orientare, correggere quando la fa troppo facile, quando cede alla tentazione del quieto vivere. Ma che la domanda di pace sia diffusa nei cuori e nelle menti è cosa buona, non riprovevole.
Terzo indizio: giusto rimarcare il diritto alla difesa, anche armata, contro l’ingiusto aggressore. Insospettisce tuttavia la circostanza che, compulsando Costituzione (art.11) e magistero sociale della Chiesa, in sede interpretativa, si usa rovesciare la sequenza. Nel primo caso, la Costituzione, correndo subito all’eccezione (lo spiraglio aperto alla guerra di difesa), ancor prima di avere messo l’accento sulla regola e sulla principale: il no alla guerra (“ripudio”) come strumento di risoluzione dei conflitti.
Nel secondo caso, esorcizzando la circostanza che la dottrina cristiana della guerra giusta, da un lato, è stata superata dai pontefici che sono succeduti a Pio XII, dall’altro, che essa, già in origine, fu concepita per meglio fissare rigorosi limiti alla sua liceità. Non già per incoraggiare le guerre. Cominciando dalla prima condizione ovvero che si tratti a tutti gli effetti di extrema ratio.
Quarto: mi è occorso di rileggere l’ultimo editoriale sul Corsera di Franco Venturini, di lì a poco deceduto. La tesi centrale? Che chi ha più potere e responsabilità – grandi e medie potenze – su tutto debba mirare a un obiettivo: scongiurare il rischio più grande, quello di un conflitto globale dagli esiti catastrofici, che per la prima volta non possiamo escludere con sicurezza. Anche per un imprevisto preterintenzionale.
È trascorso solo un mese e questo saggio monito sembra scomparso nei media che contano, un monito semmai sostituito da un avallo all’escalation militare. È la prova che, quando si attiva quella spirale, è poi facile che si sviluppi in un crescendo inarrestabile.
Quinto: l’autorappresentazione di un occidente indifferenziato, che non corrisponde alla realtà delle cose. Non da oggi, ma vieppiù dentro la guerra in corso, si sono disvelate marcate divergenze negli interessi strategici di Stati Uniti e di Europa. Ma anche più semplicemente una condizione asimmetrica tra loro: le sanzioni, i profughi, l’intensità degli scambi commerciali con la Russia hanno un peso ben diverso in Europa piuttosto che in America.
Sesto: la contrapposizione dei due mondi conduce, anche inavvertitamente, a concepire se stessi come regno del Bene opposto al regno del Male. Cioè a prendere per buono, ancorché a parti invertite, lo schema del patriarca Cirillo, quello di uno scontro metafisico-religioso per sua natura irriducibile. A ben vedere, fondamentalismo occidentalista dovrebbe suonare come un ossimoro. Giustamente andiamo fieri delle matrici illuministiche e cristiane della civiltà occidentale – non la scambieremmo con altre -, ma proprio esse dovrebbero rappresentare un antidoto contro ogni pretesa/tentazione di assolutizzare il nostro modello, di escludere che si possano dare forme di civilizzazione altre e diverse. Diciamo pure un sano relativismo, la coscienza del limite, anche nostro.
La voce di Francesco
Da ultimo: la lettura che si fa delle accorate parole di papa Francesco. Quando va bene, derubricato a voce alta ma ingenua e irenica, altre volte come incline a un pavido terzismo. Una voce considerata rituale e scontata – il papa fa il suo mestiere, ma la vita è altra cosa – quando non mal sopportata.
Eppure dovrebbe far riflettere la circostanza che Francesco, considerato impolitico, da tempo aveva avvertito come incipiente una guerra mondiale a pezzi. A differenza di tanti illuminati analisti e osservatori che sono stati presi alla sprovvista.
A chi gli imputa un astratto profetismo merita segnalare un paio di cose che semmai attestano concretezza: mettersi come fa Francesco dalla parte delle vittime (i civili, i più vulnerabili, la povera gente), è semmai la prova della massima aderenza alla drammatica realtà delle cose; come lo è la sua denuncia, non da oggi, che fabbricare e commerciare armi, inesorabilmente, conduce a usarle e a moltiplicare le guerre.
Ancora un articolo nella logica del “SI’…MA”. Putin è il colpevole, (una mezza riga), e poi una sequenza di però per tutta la pagina. I colpevoli così diventano un po’ tutti: politici, giornalisti, imprenditori, l’Occidente dai diversi interessi, i cittadini non attenti alle parole profetiche del Papa, e via elencando. Senza la decisione grave e fatale dell’aggressore, malato di imperialismo panrusso e supportato da un patriarca ipernazionalista, tutto il resto ce lo saremmo in gran parte risparmiato.
Avrebbe molta ragione se ad orchestrare l’altra parte, quella resistente, non fosse l’aggressore per antonomasia, l’ideatore delle guerre preventive, nonché mass murderer insuperato nella storia dell’umanità, particolarmente di civili: gli Stati Uniti d’America. Quante sono le azioni unilterali di quella parte, non legittimate da nessun tavolo internazionale? Quante sono state così fermamente condannate dall’occidente e da parte della comunità inbternazionale? Quanti milioni di morti hanno provocato queste politiche, che ovviamente sono imperialistiche? Direi di un imperialismo panamericano. La guerra è guerra; chiunque la pratichi come strumento per il raggiungimento di fini politici ed economici va condannato. Non deve mancare questa onestà intellettuale, altrimenti si crede ancora che esista una dicotomia netta tra bene e male e che questo, addirittura, sia distinguibile sul piano geografico; un modo molto fabulistico e poco analitico. Purtroppo le semplificazioni non spiegano e per conseguenza non risolvono. Le semplificazioni servono per creare nelle opinioni pubbliche materia critica ed orientare azioni conseguenti; ci viviamo immersi.